1 maggio 2013 - ore 18:00 20 anni di scemenze. O no? Il primo - TopicsExpress



          

1 maggio 2013 - ore 18:00 20 anni di scemenze. O no? Il primo governo ciellenista dal Dopoguerra nasce da una guerra civile verbale C’era una volta il bipartitismo imperfetto. Si combatteva allora la Guerra fredda, e comunisti e anticomunisti si delegittimavano vigorosamente a vicenda – seppure, soprattutto dai primi anni Sessanta, entro i confini dell’arco costituzionale e della cultura antifascista che gli era sottesa. E’ caduto poi il Muro di Berlino, la crisi politica dei primi anni Novanta ha spazzato via il sistema politico repubblicano, e si è passati all’epoca del bipolarismo imperfetto. Meno imperfetto del bipartitismo che lo aveva preceduto, da un lato, perché non c’era una fonte esterna di delegittimazione, tutti potevano andare al governo in teoria e tutti ci sono andati in concreto, inaugurando nella storia dell’Italia unita la prima stagione di alternanza al potere a seguito di elezioni. Ma ancora più imperfetto del bipartitismo che lo aveva preceduto, dall’altro, perché non c’erano nessun arco costituzionale e nessuna cultura antifascista a tenere unito quel che la delegittimazione reciproca divideva. Il bipolarismo imperfetto si è incardinato sulla figura di Silvio Berlusconi, e la frattura fra comunisti e anticomunisti è stata sostituita da quella fra berlusconiani e antiberlusconiani. Questo è ben noto e, in fondo, pacifico. Assai meno pacifico, tuttavia, è quale contenuto abbia avuto in concreto il berlusconismo, e quale di conseguenza l’antiberlusconismo. Non c’è dubbio che i due blocchi abbiano recuperato e aggiornato i vecchi meccanismi di delegittimazione della stagione precedente. Il berlusconismo – pure questo lo sappiamo – si è appoggiato con forza all’anticomunismo, seppure a un anticomunismo reinterpretato così da volgerlo meno verso il passato e più verso il presente e futuro di quanto non si sia spesso detto. L’antiberlusconismo, per parte sua, ha recuperato tanto dall’antifascismo. Un antifascismo che nel corso dei decenni aveva sradicato il fascismo dal suo alveo storico e lo aveva trasformato in un oggetto astratto, largamente indipendente da qualsiasi coordinata spaziale, temporale e talvolta perfino concettuale: un nemico buono per tutte le stagioni e un criterio di giudizio non soltanto delle scelte politiche, ma anche di moralità, legalità, razionalità, intelligenza. L’uso spesso ossessivo delle retoriche antiche dell’anticomunismo e dell’antifascismo ha tuttavia oscurato la sostanza vera dello scontro fra berlusconismo e antiberlusconismo. Che è stato in realtà un conflitto durissimo – e inevitabile, all’indomani del cataclisma politico internazionale e interno degli anni 1989-1994 – sui confini dello stato e sul suo rapporto con la società. Un conflitto materiale, innanzitutto, su chi avrebbe pagato il conto salatissimo degli anni Ottanta: se il settore pubblico, patendo una drastica cura dimagrante (i lavoratori autonomi non per caso hanno in larga maggioranza votato per il Cavaliere); o il settore privato, piantandola finalmente di evadere le tasse (i dipendenti pubblici non per caso hanno in larga maggioranza votato contro il Cavaliere). Ma ancora di più un conflitto ideologico, fra quanti nel clamoroso fallimento della politica certificato da Tangentopoli hanno voluto leggere la crisi non di un eccesso di politica (perché la politica, per definizione, non può mai essere troppa), ma di una politica sbagliata, e si sono convinti che la soluzione consistesse dunque nel costruire una nuova politica giusta attraverso la quale raddrizzare un paese – quello sì – sbagliato. E quanti invece vi hanno letto senz’altro la crisi di un eccesso di politica (perché la politica può essere troppa, eccome), e hanno quindi preteso che la soluzione consistesse nel lasciare più spazio a un paese che essi reputavano invece giustissimo. Un conflitto ideologico, insomma, fra iper-politica e ipo-politica. La fragile Grosse Koalition che con grandissima fatica è nata in questi giorni rappresenta una straordinaria occasione storica per chiudere questo conflitto (ma l’Italia, ahinoi, è abilissima nello schivare le occasioni storiche). La sua nascita certifica nei fatti – ma è bene che lo si dica nella maniera più esplicita possibile – il clamoroso fallimento tanto della supponente iper-politica, convinta che l’Italia debba esser raddrizzata e rieducata, quanto dell’ingenua e corriva ipo-politica, persuasa che l’Italia vada benone così com’è. Il fallimento dell’iper-politica è roba vecchia, è stato sancito già vent’anni fa da Tangentopoli, ed è proprio perché non ne ha voluto prendere atto che la sinistra italiana ha dovuto imboccare la via dell’antiberlusconismo moralistico, perdendo il contatto col paese e con la storia – oltre che, non certo per caso, un’elezione dopo l’altra. Il fallimento dell’ipo-politica è più recente: è avvenuto nel 2005-2006, quando il Cavaliere ha dimostrato di non poter mantenere il troppo che aveva promesso; e lo ha certificato lo stesso Berlusconi basando la campagna elettorale del 2006 non più sulla speranza (che vincesse la destra) ma sulla paura (che vincesse la sinistra). Chiudere il conflitto fra iper-politica e ipo-politica non significa affatto che si debba precipitare in una notte in cui tutte le vacche sono nere. Significa però in primo luogo – banalmente – che le istituzioni devono essere riformate così da individuare un rapporto più adeguato alla nostra epoca storica, oltre che alle impazienze dell’opinione pubblica, fra la mediazione richiesta dall’iper-politica e l’immediatezza reclamata dall’ipo-politica. La nostra Costituzione, se non è la più bella del mondo, non è neppure brutta, ma non lo è anche, forse soprattutto, perché non finisce con l’articolo 137. E in secondo luogo, forse meno banalmente, significa restringere il campo a un conflitto più civile fra una politica meno iper, e una meno ipo. Perché ciò accada, occorre prendere atto su un versante che il paese – come dimostra in maniera clamorosa la vicenda Monti – non ne può più di una politica che si presume migliore di lui e pretende di rieducarlo e raddrizzarlo. Che bisogna accettare un po’ di più l’Italia per quello che è, malgrado tutto, piantandola di agire come se Napoli potesse d’incanto trasformarsi in Copenaghen. Cominciando a chiedersi quanto la cultura delle élite sia inadeguata alla realtà del paese, e smettendola di pensare che sia sempre e soltanto la realtà del paese a essere inadeguata alla cultura delle élite (il ragionamento è di Augusto Del Noce, datato 1957). Ed è necessario sull’altro versante ammettere che la politica ha bisogno di pazienza, mediazione, cultura, organizzazione perfino, e non può vivere all’infinito sul movimentismo di un solo individuo, per quanto dotato di risorse straordinarie, italiano a tal punto da considerare pregi anche i numerosi, macroscopici difetti della penisola, e da specchiarcisi con compiacimento. di Giovanni Orsina (Professore di Storia comparata dei sistemi politici europei alla Luiss. Autore di un saggio sul berlusconismo in uscita per Marsilio)
Posted on: Mon, 24 Jun 2013 16:23:43 +0000

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