CONTRIBUTI AL DIBATTITO PRECONGRESSUALE Governi di larghe - TopicsExpress



          

CONTRIBUTI AL DIBATTITO PRECONGRESSUALE Governi di larghe intese e unità nazionale Apriamo questa nostra comunicazione con le alterne vicende del governo Napolitano – Letta, il governo delle “Larghe Intese”, che tanto larghe pare non siano, considerando che si inciampa continuamente sul dettaglio delle controversie giudiziarie di Berlusconi o sull’operato collaterale di qualche ministro. Un governo che sarebbe più corretto definire di “unità nazionale”, dato che è stato sostenuto più o meno direttamente dalle forze politiche e sociali “nell’interesse del paese” CGIL compresa, che ha progressivamente abbandonato per puro “senso di opportunità” ogni tentativo di opposizione per un sostegno, silente ma sostanziale, che non ha consentito significative elaborazioni e ostacolato ogni mobilitazione, così come d’altronde era stato per il governo Napolitano – Monti, sostenuto dal Partito Democratico. Lo stesso sciopero generale di quattro ore, recentemente indetto da CGIL-CISL-UIL è, nelle modalità e negli obiettivi, assolutamente inadeguato proprio perché risponde alle sole esigenze interne ai vertici confederali e alle loro interlocuzioni con la Confindustria, con la politica parlamentare e con il governo, piuttosto che rivolto a fronteggiare efficacemente l’attuale situazione di crisi, concedendo veramente troppo al moderatismo subalterno della CISL. Né può valere l’obiezione secondo la quale i vertici sindacali confederali, che stanno ritessendo l’unità proprio in base al collante dell’appoggio al governo Letta, avrebbero presentato proposte precise. E’ bene dirlo in tutta chiarezza: quelle proposte non ci sono perché la manovra che anche il gruppo dirigente della CGIL si appresta a definire è politica, ha radici antiche e costituisce una replica dei precedenti disastri conseguenti alle varie tornate di unità nazionale, sulle quali troppo poco si è riflettuto, per questo risulta opportuno un breve riferimento alla storia: così come l’appoggio al governo Badoglio dell’aprile del 1944 impedì la discontinuità con il fascismo con tutte le conseguenze del caso, successivamente, nelle fasi cruciali delle crisi, nel 1976/78 e per quanto concerne i governi Monti e Letta, tale formula di salvezza nazionale è stata replicata con il puntuale sostegno del riformismo per garantire l’uscita capitalista dalla crisi a scapito delle classi subalterne. Ipoteche vecchie e nuove Giova al riguardo ricordare le parole dell’allora segretario generale della CGIL Luciano Lama, che in una nota intervista sintetizzava già nel 1978 (svolta dell’EUR) quella che sarebbe stata la strategia sindacale negli anni a venire: “….quando il sindacato mette al primo punto del suo programma la disoccupazione, vuol dire che si è reso conto che il problema di avere un milione e seicentomila disoccupati è ormai angoscioso, tragico, e che ad esse vanno sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello - peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale - di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliamo esser coerenti con lobiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea… la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nellarco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, lintero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti…. Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza…. (Intervista concessa da L.L. a”la Repubblica” il 24 gennaio 1978) Per chiarire le conseguenze sociali di una simile subalternità alle esigenze dell’imperialismo italiano, riportiamo alcuni dati che prendono a riferimento il protocollo del 23 luglio 1993 tra governo e parti sociali in materia di politica dei redditi, occupazione, assetti contrattuali, politiche del lavoro e sostegno al sistema produttivo, siglato anche dalle organizzazioni sindacali confederali: “Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione delle risorse dai salari ai profitti operata dal 1993 a oggi… il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti nel quadro del protocollo del 1993… è stato davvero ingente… e ammonta a ben 1069 miliardi di euro.” (Leonello Tronti in “Rassegna Sindacale” n. 38/2013). Se il calcolo poi, fosse realizzato a partire dalla svolta dell’EUR nel 1978, se cioè si definisse nel dettaglio la perdita del potere di acquisto maturata in 35 anni di politiche sindacali fortemente limitate dalle sopradette politiche dei redditi e dalle altre compatibilità in seguito maturate, avremmo un efficace e completo spaccato quantitativo e qualitativo del disastro sociale che la strategia sindacale confederale ha prodotto, non ostacolando crescenti fenomeni di miseria, disoccupazione e precariato. Continuare nei fatti a sostenere che “si è tutti nella medesima barca” senza valutare obiettivamente i sacrifici fatti e da chi, la loro entità e le loro conseguenze negative sul tenore di vita dei lavoratori che hanno per intero pagato i costi di ogni crisi, significa continuare a pregiudicare la possibilità di una equa redistribuzione della ricchezza sociale prodotta a esclusivo vantaggio dei profitti e, soprattutto delle rendite, delle delocalizzazioni industriali e dei conseguenti ricatti occupazionali e del flusso dei capitali verso i paradisi fiscali, fenomeno quest’ultimo stimato in oltre 200 miliardi di €. I lavoratori italiani hanno pagato prezzi elevatissimi per la subalternità confederale al nostro debole imperialismo, che pretende, ieri come oggi, di elevare la condizione di concorrenza delle nostre merci sui mercati internazionali contraendo i salari dei lavoratori e affossando storiche conquiste sindacali. Dal compromesso posto in essere dai vari governi di unità nazionale non sono scaturite nemmeno le briciole e la CGIL, se vuole invertire questa pericolosissima tendenza alla degenerazione sociale, deve recuperare con urgenza tutta la sua autonomia dal quadro politico e istituzionale, ma i segnali che giungono al riguardo sono allarmanti. L’approssimarsi del XVII congresso della CGIL Così come andiamo sostenendo da tempo mai, nella storia della CGIL, una scadenza congressuale è stata ritenuta nei pratici intendimenti del gruppo dirigente, così superflua, tanto quanto sta accadendo alle porte di questo XVII congresso nazionale. Un congresso ingombrante che non piace a nessuno e di cui, volentieri se ne farebbe a meno fortemente condizionato com’è dal ruolo del Partito democratico e dal suo dibattito interno. Vecchie e nuove maggioranze e minoranze vanno ricomponendo i propri contrasti al chiuso delle loro sedi, dalle quali non si vede e non si vive la condizione quotidiana delle classi subalterne duramente colpite dalla crisi, cercando di ricollocare la propria posizione all’interno di una organizzazione sindacale che appare sempre più allineata agli interessi dell’imperialismo italiano. Se da una parte, specialmente nelle fasi di crisi, la forza di una organizzazione sindacale consiste soprattutto nella sua autonomia e nella sua unità interna, dall’altra autonomia e unità hanno valore solo se si qualificano in base a obiettivi concreti, capaci di difendere gli interessi materiali delle classi subalterne. La collateralità che il gruppo dirigente della CGIL ha dimostrato, prima, nei confronti del governo Monti e, successivamente, del governo Letta, entrambi governi di unità nazionale, ha significato l’inevitabile rinuncia all’autonomia sindacale, per collocarsi nel solco della totale subalternità alla politica e, in particolare, alle componenti più moderate del Partito Democratico, oggi partito di governo. L’adoperarsi attivamente in un processo di identificazione con la deriva neocorporativa irreversibilmente intrapresa da CISL e UIL; la totale indisponibilità a porsi come punto di riferimento dell’opposizione sociale nei luoghi di lavoro, nei territori e per il precariato la cui dimensione e portata sociale viene irresponsabilmente sottovalutata; la consapevole rinuncia alla preparazione di una grande mobilitazione per far cadere i governi dei padroni fin qua succedutisi su obiettivi unitari e di classe, si spiega con la subalternità al capitalismo e alle sue infrastrutture istituzionali e politiche, nella cornice di un riformismo che, privo di concreti obbiettivi intermedi, diviene enunciativo e velleitario, incapace di arginare la sfiducia e la disperazione delle classi subalterne colpite dalla crisi, rischiando di fornire ampi spazi all’affermarsi della reazione. L’attuale gruppo dirigente ha sottovalutato l’elaborazione e la spinta alla mobilitazione intrapresa da alcune categorie che, come la FIOM e la FLC, si sono dimostrate sensibili di agli attacchi del padronato e dei governi, sviluppando una opposizione che ha coinvolto lavoratori, precari e disoccupati. Al contrario queste spinte sono state appena tollerate, nella speranza che si ridimensionassero mano a mano che si tessevano i rapporti con i vertici di CISL e UIL, chiaramente impegnati nel sostegno ai governi Monti e Letta. La disperazione sociale con tutte le sue drammatiche e negative conseguenze - la disperazione tira a destra - non pare turbare l’orizzonte dei vertici confederali che, tra analisi leggere, omissive e sottovalutanti le conseguenze sociali della crisi, manifestano quel “cretinismo parlamentare” che storicamente caratterizza la politica borghese e che confonde il metro quadrato sul quale si poggiano i piedi, con le sterminate e tridimensionali dinamiche della crisi capitalistica e delle sue implicazioni sociali. Viceversa, un congresso che tracciasse un obiettivo bilancio, necessariamente autocritico, delle politiche sindacali fin qua perseguite, di come queste non abbiano efficacemente contrastato l’attacco al salario all’occupazione e alla tragedia del precariato ponendo le basi per la cancellazione di storiche conquiste, un congresso capace di valorizzare e riproporre l’opposizione posta in essere dalla CGIL prima del governo Monti ebbene, questo, sarebbe un congresso vero, il congresso di cui ci sarebbe bisogno. Altro che congresso leggero. Qualche anima apparentemente candida ma in realtà contaminata dall’autoreferenzialismo potrebbe obbiettare che, così facendo, si porrebbero le basi per un processo al gruppo dirigente Indebolendo la CGIL. Rispondiamo affermando che la questione è volutamente mal posta, perché un gruppo dirigente sindacale deve in ogni caso rispondere ai lavoratori e al congresso. Ogni altra via diversamente intrapresa costituirà solo una scorciatoia omissiva, che indebolirà la CGIL avvicinandola agli scenari parlamentari e allontanandola ulteriormente dai contesti sociali che costituiscono la sua base storica e di massa: se ora siamo in presenza di una allarmante e consapevole distanza con i lavoratori, si stanno rapidamente creando i presupposti per un irreversibile distacco. Sindacalismo, istituzioni e politica parlamentare D’altronde un’ allarmante conferma di questa deriva consiste proprio nella scelta di Epifani di assumere la guida del Partito Democratico. Tale scelta è stata salutata con entusiasmo dal gruppo dirigente nazionale che ritiene, così, di avere spazi maggiori di azione, arbitrariamente semplificando uno scenario complesso che dovrebbe essere impostato sul piano concreto dell’unità di classe e non su quello della intercambiabilità dei ruoli tra sindacato e politica, secondo una tradizione storica, a nostro avviso sterile, che ha coinvolto e coinvolge l’intera CGIL nelle sue configurazioni di maggioranza e di opposizione. Da questo punto di vista la scelta di Epifani non costituisce quindi una novità: scelte simili non possono e non debbono essere lette come scelte individuali, proprio perché dense di implicazioni negative, destinate a proiettarsi sull’intera CGIL così come la storia dimostra. Che il gruppo dirigente dell’organizzazione accetti, sia pure con qualche critica che comunque non emerge così come sarebbe necessario, che si possa passare da un ruolo sindacale a un incarico politico e istituzionale alla stregua di un qualunque fenomeno naturale, è indice di superficialità e di miopia. Sono cioè ignorate le ricadute negative prodotte da questa diffusissima tendenza che si è progressivamente affermata al centro come in periferia: i lavoratori assistono a un interscambio di ruoli che realizza un obiettivo intreccio tra sindacato e politica che annulla l’autonomia della CGIL e la confonde con il potere economico e politico. Sono argomenti delicati, ce ne rendiamo conto: così come ci rendiamo conto, da anarchici quali siamo, che l’argomento non è affrontabile in termini di restrizioni statutarie, né che possa essere collocato sul piano delle libertà individuali, ambito effimero dato il contesto sindacale nel quale si opera. Il passaggio alla politica di schiere crescenti di sindacalisti, l’affermarsi del funzionariato e il progressivo affievolirsi della militanza sindacale nei luoghi di lavoro e nei territori, tutto questo è il prodotto di una crisi della burocrazia di apparato, sempre più autoreferenziale proprio perché distante dai luoghi di lavoro e dalle condizioni di vita delle classi subalterne. Rompere questo accerchiamento è difficile, ma iniziarne a parlarne è non solo essenziale ma urgente, se vogliamo dare un concreto senso di prospettiva al concetto di unità e di autonomia sindacale. La ripresa è urgente e possibile Il movimento operaio e sindacale italiano, unitamente a tutti coloro che come i precari, i disoccupati, gli inoccupati e tutti gli altri soggetti sociali privi di rappresentanza e di tutele, si appresta a vivere una stagione drammatica: i suoi bisogni immediati e storici vengono utilizzati come moneta di scambio dai registi politici e sindacali di un riformismo senza riforme, che richiede sacrifici in vista di una ripresa sempre più proiettata nel futuro e che delega al parlamentarismo ogni prospettiva di azione. In un simile scenario di disfacimento non è realisticamente credibile tornare a invocare le salvifiche dinamiche della lotta di classe, e non perché esse siano superate: al contrario le proteste spontanee, che pure esistono, prive come sono di un punto di riferimento unitario alternano picchi di grande intensità a processi di esaurimento, di amara delusione e di sconfitta che rischiano, lo ripetiamo, di lasciare spazio prima all’avventurismo privo di prospettive e poi alla reazione. Solo un forte movimento di lotta che sparigli il piano del cretinismo parlamentare e torni concretamente a parlare di salario e di qualità della vita, che affronti le drammatiche condizioni della disoccupazione e del precariato crescenti, ponendo il problema di una più equa distribuzione della ricchezza potrà costituire le basi per la ripresa, proiettandosi verso costruzione di un forte sindacato dei lavoratori d’Europa quale primo passo verso una prospettiva internazionalista. E’ in questa direzione che dovrà porsi la CGIL, rilanciando così l’elaborazione e la militanza sindacale, per porre in essere quel paziente e tenace lavoro di massa unico presupposto per il rilancio dell’organizzazione: e dovrà farlo con maggiore convinzione e coerenza che in passato. Ma è bene non girare attorno ai problemi: al punto che siamo giunti, laddove le dinamiche della crisi pongono in discussione la stessa organizzazione sindacale nella sua accezione più ampia, la CGIL deve presentarsi forte e unita. Da questo punto di vista i documenti congressuali generici, tipico prodotto di un congresso leggero, sono tanto nocivi quanto lo sono i superati equilibri che si vanno misurando tra aree programmatiche più o meno antiche, eredi di una opposizione di classe talvolta significativa ma ormai integrata e consunta, così come le rinnovate intenzioni di opposizione radicale che replicano vecchie inclinazioni massimaliste, riducendosi in un settario minoritarismo a matrice esclusivamente politica che i lavoratori ignorano. Tutto questo agire non serve perché devia dall’obbiettivo di ricostruire una reale ed efficace opposizione di classe interna alla CGIL. Il percorso di questo XVII congresso dovrà essere autocritico e unitario; coinvolgere gli iscritti e i lavoratori dal basso verso l’alto; produrre obiettivi qualificanti la difesa delle loro condizioni di vita, di quelle dei disoccupati, dei precari e di tutte le classi sociali aggredite dalla crisi. per qualificare e conferire alla CGIL gli strumenti efficaci di una rinnovata autonomia e di una rinnovata opposizione sociale alla crisi, alle manovre del padronato e del governo; per una società più egualitaria e più libera. Le compagne e i compagni libertari presenti in CGIL qualificheranno con proposte concrete questo intento nel dibattito precongressuale. Difesa Sindacale
Posted on: Thu, 14 Nov 2013 22:40:28 +0000

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