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MARIO DRAGHI: ESTRATTO DEL DISCORSO SU BENIAMINO ANDREATTA DEL 13/02/2008 "Sul volgere del decennio settanta (Andreatta ndr) sostiene con convinzione il processo di adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo. Nella sua visione, la partecipazione al sistema costituisce un’occasione unica per abbandonare il deleterio ricorso alle svalutazioni competitive, mentre la conseguente riduzione del rischio di cambio può contribuire all’affermazione di un grande mercato finanziario europeo e rendere più agevole la mobilitazione di risorse da destinare allo sviluppo. L’indipendenza della banca centrale dal governo trova nell’Andreatta dei primi anni ottanta uno dei suoi primi e più forti campioni. Sebbene la forma assunta da quell’indipendenza nel 1981 – il famoso “divorzio” – appaia timida se vista con occhi odierni, l’influenza intellettuale e pratica di quell’atto appare vasta, propedeutica a ulteriori progressi. I due protagonisti di quella vicenda, il ministro e il governatore, scuotono dalle fondamenta un sistema nel quale l’accomodamento delle esigenze finanziarie del Tesoro è divenuto la regola, nullificando in pratica ogni conato di politica monetaria indipendente. La pervasività dei controlli amministrativi sul credito non gli era mai piaciuta. Non appena divenne ministro del Tesoro insediò una commissione – ne erano membri Mario Monti, Francesco Cesarini, Carlo Scognamiglio – che indicasse le riforme più urgenti per adeguare il sistema del credito alle esigenze dell’economia. Il rapporto conclusivo di quella commissione fu uno degli atti che avviarono il sistema verso quegli obiettivi di efficienza e concorrenza che si stanno ora pienamente affermando. Intenso e partecipato fu il suo impegno per lasoluzione della crisi del Banco Ambrosiano, in difesa degli interessi dei depositanti e, allo stesso tempo, della reputazione del sistema. Ma è nella critica alle tendenze degenerative della politica di bilancio che l’economista Andreatta ci offre forse il suo lascito più attuale e lungimirante. La critica è già tutta presente negli scritti degli anni sessanta. Col tempo, si precisano le sue analisi sulla scarsa produttività di molti capitoli della spesa pubblica; si mostrano i meccanismi politici che portano all’accumulazione del debito pubblico, denunciati come «meccanismi di irresponsabilità». Nel 1986, in un convegno del suo partito, Andreatta sostiene tesi molto impopolari; tesi oggi più condivise, anche se non al punto da coagulare una volontà politica riformatrice: la spesa sociale italiana non è eccessiva, ma mal distribuita fra i diversi strumenti. Nella sua diagnosi, in Italia «lo stato sociale non si è attuato, come nel caso degli esempi nordici, a partire da una programmazione che nasceva da una idea di Welfare: è nato sotto la spinta della pressione politica, affinché si tutelassero taluni interessi piuttosto che altri. Ha prevalso l’interesse alla sicurezza di fronte alla malattia e alla mancanza di reddito nell’età anziana della vita. Sono rimasti invece sacrificati quegli istituti propri del Welfare State che riguardano la protezione della disoccupazione e delle condizioni estreme al di sotto della linea di povertà»4. «Dire molti no, per pronunciare alcuni sì essenziali»5. Nello stesso intervento egli critica l’assistenzialismo industriale con il quale negli anni settanta si tentò di arginare gli effetti della crisi, con l’unico risultato di appesantire il già notevole carico del debito pubblico. All’inizio degli anni ottanta, l’esperienza pratica lo indusse a riflettere sullo stato presente e sul destino dell’impresa pubblica. Iniziò col mettere a confronto la “razionalità programmatoria” della politica industriale, segnata dauna “pretesa di onniscienza”, con la modesta empiria che caratterizza il processo decisionale del Parlamento, aperto alle pressioni dei gruppi più vari. E arrivò a rimpiangere che si impedisse al mercato di esercitare la sua funzione, distruttrice di organismi e creatrice di ricchezza. L’applicazione concreta della legge 3 aprile 1979, n. 95, recante provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, lo convinse che la porta aperta dei finanziamenti pubblici era una pessima medicina per la salute delle imprese. Disse nel 1981: “Ciò che dobbiamo fare è obbligare l’economia a ricercare le soluzioni sul fronte della produttività. […] Un maggiore dirigismo, un maggiore intervento dello Stato nelle imprese che controlla non serve a nulla se non in un contesto di pressioni per il miglioramento della produttività”. Ma evidentemente perse ogni fiducia nella possibilità di creare il meccanismo per l’esercizio di queste pressioni, perché nel 1989, presentando una ricerca sulla Borsa italiana, dichiarò: “Se è caduto il muro di Berlino possono cadere altri steccati. Anche la Banca Commerciale Italiana, la Stet possono essere privatizzate, e senza che lo Stato detenga percentuali di controllo.” Nell’estate del 1993, da ministro degli Esteri nel governo Ciampi, a seguito di un accordo con il commissario europeo per la concorrenza Karel Van Miert, Andreatta firmò il protocollo che impegnava il governo italiano a ridurre, entro il 1996, l’indebitamento delle imprese pubbliche a “livelli accettabili per un investitore privato operante in condizioni di economia di mercato”. Fu il passo fondamentale verso la chiusura dell’Iri. Ne impedì l’ulteriore drammatico indebitamento; ciò costrinse l’Istituto alla cessione della Stet al Tesoro, il quale procedette alla sua privatizzazione e alla devoluzione dei proventi alla riduzione del debito pubblico. Senza cessioni di attività e ristrutturazioni del passivo, il debito non sarebbe oggi lontano dal livello massimo del 1994, quando Andreatta, nel governo Ciampi, svolse la sua azione fondamentale per il decollo del programma di privatizzazioni. È la conferma che il suo messaggio non si è ancora tradotto in azione politica, in fatti." youtu.be/72jNKpfA87E?t=11m24s
Posted on: Thu, 01 Aug 2013 07:56:14 +0000

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