Sembra lunga da leggere, ma vale la pena di forlo fino in fondo. - TopicsExpress



          

Sembra lunga da leggere, ma vale la pena di forlo fino in fondo. Giorigo 27-30 settembre 1943: Napoli insorge e si libera dall’occupazione tedesca Una umile cronaca familiare Mio padre era orafo e figlio d’arte. I primi rudimenti del mestiere, infatti, li aveva appresi da mio nonno, orafo anche lui, morto ancora giovane. Il nonno aveva l’abitudine, quando in bottega le vendite languivano, di mettersi in viaggio per il Sud con tutti i monili che aveva prodotto e di fare ritorno a casa solo quando li aveva venduti. Una sera rincasò inatteso e sofferente da uno di questi viaggi abituali da poco iniziato: in treno era stato malmenato e rapinato della borsa che custodiva tutto il suo prezioso capitale. Dopo le scarne spiegazioni date alla moglie, si buttò sul letto e, dopo alcune ore di silenziosa agonia, morì, stroncato dalla disperazione. Mio padre, secondo di 5 figli, neanche tredicenne, fu avviato da mia nonna ad un duro apprendistato presso alcuni artigiani degli “Orefici”, rione tra il Porto e l’Università, storico insediamento di tutte le attività connesse alla produzione artistica dei gioielli. All’inizio degli anni 30, sentendosi ormai padrone del mestiere, decise di avviare un’autonoma attività di produzione e vendita di oggetti preziosi. Per questo scopo prese in fitto un bel locale terraneo dello splendido e maestoso Palazzo del Principe di Cimitile, sorto a fine 700, ad opera di Carlo Vanvitelli, in via S. Teresa al Museo, adiacente al civico 88, la modesta casa sulla cui facciata una lapide ricorda che il 14.6.1837 vi morì Giacomo Leopardi. Mio padre divise il locale in due ambienti, destinando il retrobottega a laboratorio e lo spazio a fronte strada ad esposizione e vendita. Nella parte superiore della marmorea cornice esterna del negozio campeggiava l’insegna “ORO”, scelta per caratterizzarne la peculiare attività produttiva e commerciale (v. all.). Ed in effetti il suo lavoro consisteva proprio nel produrre, vendere e manutenere monili d’oro e d’argento, ma anche nella riparazione di orologi da polso e da tasca, che, all’epoca, avevano quasi sempre la cassa in oro o, se più modesti, in argento. Col tempo mio padre acquisì competenza anche nella riparazione e nel restauro degli orologi monumentali d’epoca (700-800), uno dei quali, già di mio nonno -raffigurante in bronzo una stupenda “Diana Cacciatrice”, noto ai collezionisti come “l’orologio misterioso”- faceva sempre bella mostra di sé al centro della vetrina, attirando l’ammirazione dei passanti per la sua bellezza, ma anche la loro curiosità per l’insolubile enigma dell’incessante moto del pendolo che Diana reggeva fermamente in una mano. I clienti di mio padre erano prevalentemente le famiglie degli operai delle innumerevoli fabbrichette locali di scarpe, borse, guanti e utensili di tartaruga, ma anche dei modesti impiegati della sede municipale del quartiere Stella e dei ferrovieri che occupavano un nucleo di palazzine affacciate sul Ponte della Sanità. L’acquisto di un oggetto d’oro (pagato quasi sempre a rate e sulla parola) era legato a ricorrenze fondamentali della vita (nascita, comunione, fidanzamento, matrimonio, anniversari), ma anche ad ingenue forme di previdenza per periodi di difficoltà, quando il gioiello poteva essere rivenduto o dato in pegno per avere un prestito. Dallo scoppio della guerra l’attività di mio padre si era drasticamente ridotta, e si può dire che fosse del tutto ferma dall’inizio del 1943. La gente aveva ben altro a cui pensare in quel tragico anno: a mettersi in salvo innanzi tutto dai bombardamenti (a Napoli furono 23.000 le vittime delle incursioni aeree, un triste record assoluto almeno per l’ Italia), ma anche a sottrarsi alla morte per fame, provando ad acquistare al mercato nero, con le poche lire disponibili, qualcosa da mangiare, spesso ricomprando le derrate che la soldataglia tedesca gli aveva rubato da casa il giorno prima assieme ad altri oggetti domestici di qualche valore. Questa era diventata l’occupazione principale anche di mio padre, che aveva a carico e da sfamare la madre, una sorella nubile ed un’altra sorella rimasta vedova e con tre figli minori. Nell’estate di quell’anno aveva raramente aperto la bottega, rimasta chiusa dopo l’8 settembre (data dell’Armistizio) e il 9 settembre (giorno dello sbarco degli Alleati a Salerno). Da quei giorni, infatti, i Tedeschi operavano quotidiani rastrellamenti in città alla ricerca di uomini da deportare nei “campi di lavoro” in Germania o da fucilare sul posto perché renitenti al servizio obbligatorio istituito dal collaborazionista Prefetto Soprano e quasi del tutto inevaso (150 convenuti a fronte di 30.000 precettati, giovani tra i 15 ed i 30 anni). Nel negozio in quei giorni erano rimasti solo alcuni dei monumentali orologi -di complesso trasporto- che mio padre esponeva ma non vendeva; qualche orologio da polso e diversi oggetti d’oro riparati e non ancora ritirati. Molti dei loro proprietari erano morti nel frattempo sotto la pioggia delle bombe “alleate”o nei cruenti rastrellamenti tedeschi; non pochi sfollati altrove o deportati; altri ancora non li andavano a riprendere semplicemente perché non avevano i soldi per pagare. Verso la fine del mese, quando i napoletani si resero conto che le truppe tedesche di occupazione - con la distruzione delle fabbriche; l’incendio degli edifici pubblici, dei grandi alberghi e delle navi alla fonda; la collocazione di mine alle stazioni ferroviarie, alla Posta centrale e all’acquedotto; le rapine sistematiche; l’uccisione indiscriminata e la razzia di uomini- stavano portando a termine con ferocia l’ordine di Hitler di fare della loro città “un cumulo di fango e polvere”, scoppiò la rivolta. Dal 27 settembre, per 4 lunghi e drammatici giorni, Napoli – la prima grande città europea a ribellarsi con le sue sole forze ai Tedeschi; medaglia d’oro al v.m.- fu teatro di un epico scontro tra le milizie del colonnello Scholl –rabbiosamente impegnate in saccheggi, devastazioni con l’uso di esplosivi ed esecuzioni sommarie- e tanti coraggiosi napoletani di ogni età, ceto e ideologia che, per salvare la loro città, non esitarono a sacrificare la loro vita (653 i morti - 160 i feriti e gli invalidi). Il 28 settembre - nelle stesse ore in cui un manipolo di tedeschi minava il Ponte della Sanità e l’undicenne Gennaro Capuozzo (Medaglia d’oro al v.m.) veniva disintegrato da una cannonata mentre sparava dall’alto del convento delle Filippine sui Tedeschi in transito in via S. Teresa - un altro gruppo di guastatori, che a bordo di un blindato percorreva la stessa via, improvvisamente arrestò il mezzo all’altezza di Palazzo Cimitile: il loro interesse fu fortemente attratto dalla seducente e promettente insegna “ORO” del negozio di mio padre. Dopo aver inutilmente armeggiato sul catenaccio della serranda abbassata nel tentativo di aprirlo, passarono subito dopo ad una soluzione più drastica e risolutiva: legarono alla maniglia di chiusura della serranda un cavo di acciaio che avevano a bordo del carro e agganciarono l’altro capo al retro del blindato. Bastarono poche, violente trazioni del mezzo per svellere completamente la serranda dai binari e spalancare l’accesso al negozio. La razzia dei lanzichenecchi fu furiosa e devastante, tanto più rabbiosa quanto più deludente, rispetto alle aspettative, il bottino rastrellato. Tutto fu messo a soqquadro e quello che non fu asportato sfasciato e buttato in strada: la monumentale “Diana Cacciatrice”, così cara a mio padre, troppo ingombrante e delicata per essere portata via, fu con ira rovesciata e spezzata; la cassaforte sventrata; rubati tutti gli oggetti di valore che custodiva; calpestata, frantumata e dispersa ogni pur modesta memoria dei rari momenti felici di tante umili vite, molte delle quali già spente, ma così cancellate per la seconda e ultima volta da luride mani, ladre ed assassine. In un mondo sempre più immemore e disincantato serve ancora rievocare eventi lontani come questi, del tutto rimossi dai media nazionali oggi, giorno della loro ricorrenza? Al netto della retorica, io mi ostino a ricavare da questo ricordo almeno due opportunità: · 1 - Ribadire che la libertà non è una concessione né un dono e che nessuno è in grado di liberarci ma ognuno si libera da solo, perché la vera libertà è sempre e soltanto una conquista, figlia di una scelta consapevole e coraggiosa di affrancamento da ogni forma di schiavitù e dipendenza. · 2 - Porre all’attenzione un triste dilemma: 70 anni fa, ancora in piena guerra, ribellandosi allo strapotente esercito di occupazione tedesco, il popolo di Napoli indicò agli altri popoli d’Europa, sotto lo stesso giogo spietato, la via della dignità e del coraggio per riconquistare la libertà. Come è possibile che i figli di quel popolo nei successivi 70 anni hanno supinamente subito uno scempio della loro città e delle loro vite che nemmeno la sadica fantasia di Hitler e del col. Scholl avevano osato immaginare?. Chi sono stati e sono i neo-lanzichenecchi che hanno potuto indisturbatamente occupare, depredare, dissanguare e mettere in ginocchio Napoli? Come è possibile che una città sopravvissuta da oltre duemila anni ad ogni sorta di disastro (terrificanti calamità naturali, guerre, epidemie, carestie, incursioni saracene, occupazioni militari) venga lasciata lentamente morire come un malato terminale al quale si prestano solo cure palliative? Devo supporre che anche questi argomenti potrebbero risultare non attraenti e perciò non riscuotere l’interesse soprattutto di chi, tra di voi, se non è nato o vive a Napoli, si sente estraneo al destino di questa vecchia e nobile signora caduta molto in basso. Vorrei tuttavia invitare questi amici, per un istante, a paragonare Napoli al barbone che viene a dormire sotto le nostre case e di cui evitiamo di incrociare lo sguardo, quasi si trattasse di un animale immondo. In realtà distogliamo lo sguardo perché ci inquieta avere conferma che sotto quegli stracci sporchi e fetidi c’è un uomo come noi; perché gli occhi desolati di quell’uomo, che nulla ci chiede, ci interrogano sulla precarietà delle nostre vite e ci fanno temere che anche noi potremmo finire in quelle stesse miserande condizioni. Basta che il fragilissimo equilibrio di relativo benessere e sicurezza al quale oggi siamo attaccati venga d’improvviso travolto da rivolgimenti economico-finanziari ormai ingovernabili o da eventi fino ad ieri ancora fronteggiabili, ma ora irrimediabilmente immiserenti (la perdita del lavoro, una malattia invalidante, la morte del coniuge percettore di reddito). Napoli fino al 1860 fu la splendida capitale di uno stato tra i più ricchi del mondo. Poi, senza alcuna avvisaglia (neanche una dichiarazione di guerra), venne brutalmente annessa “manu militari”, insieme al resto del Sud, al Regno d’Italia e degradata a simbolica capitale di un meridione, trasformato in colonia interna del nuovo regno. Oggi tocca all’Italia intera, nell’ambito degli stati dell’Unione europea, sperimentare la condizione di terra da “conquistare” e subordinare in un rapporto di scambio ineguale all’interno di un’area di mercato rigidamente regolamentata. Ora certo non c’é più bisogno né dei reggimenti di bersaglieri e neppure dei carri armati hitleriani per unificare gli stati. I Tedeschi hanno imparato dal fallimento del delirio hitleriano di conquista dell’Europa che, senza inutili spargimenti di sangue, bastano i trattati comunitari (accettati dai governi ma mai sottoposti a verifiche popolari) e le direttive di politica economica e finanziaria, comunque dettate dalla Germania, azionista di maggioranza della “Europa S.p.A.”. Il chiaro proposito di dominio e sfruttamento del Sud che dette vita alla unificazione italiana oggi è riconoscibile, seppure con strumenti e retoriche aggiornati, anche nel processo di unificazione europea. Identici gli effetti devastanti (impoverimento, emigrazione, insicurezza, sfiducia, disgregazione sociale) che stanno investendo i fragili popoli degli stati mediterranei, Italia compresa, ma con ripercussioni esiziali nel meridione che da quegli effetti già sperimentati non si è più riavuto. Il Sud infatti dal 1860 non è mai più uscito dal sottosviluppo al quale fu condannato e deliberatamente mantenuto, in quanto funzionale allo sviluppo del Nord. Ma se finora ha patito una condizione di malessere da emarginazione socio-economica, in quanto periferia dell’Italia, oggi è costretto a subire una situazione doppiamente penalizzante e definitivamente rovinosa, per essere diventato la periferia di una periferia (l’Italia rispetto all’Europa) e perciò sempre più lontano ed escluso dalle aree privilegiate del continente dove si concentrano le risorse ed il potere che ne decide la destinazione. Questo per concludere che nessuno oggi può sentirsi al sicuro e perciò estraneo alle sorti di chi vive a Napoli, nel nostro Mezzogiorno e in altre aree di sofferenza del nostro paese, come in Grecia, in Portogallo e in Spagna (per ora). “Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te” John Donne (1573 -1651) Sperando che siate riusciti ad arrivare fin qui senza annoiarvi troppo, vi abbraccio tutti, ringraziandovi della pazienza e, anticipatamente, dei commenti che vorrete esprimere. Gianni Spasiano (Napoli)
Posted on: Fri, 27 Sep 2013 12:32:10 +0000

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