Aperti. Verso un congresso. Relazione introduttiva di Ciccio - TopicsExpress



          

Aperti. Verso un congresso. Relazione introduttiva di Ciccio Ferrara* alla Presidenza Nazionale del 29/07/2013 che avvia il percorso congressuale di SEL Due strade maestre: conversione e contaminazione Levare lo sguardo sulle reali condizioni dell’Italia di oggi vuol dire compiere la lettura più diretta e cruda del senso che ha assunto la parola crisi a cinque anni ormai dal suo inizio. Spesso essa viene paragonata a quella storica del 1929, ma sta già durando di più e non si intravvede, almeno in Europa dove ristagna producendo una lunga recessione e un’alta disoccupazione, nessun New Deal alle porte. Dopo che il mito delle politiche di austerità, innalzato come bandiera salvifica dal governo dei tecnici, è stato sottoposto ad una revisione critica persino dal tardivo pentimento del Fondo Monetario, ci si esercita adesso sull’altro corno del problema, quello della crescita. Se il risultato delle politiche di austerità è stato quello che tutti gli indicatori interni e internazionali ci segnalano – perdita di qualità e quantità di lavoro, impoverimento della vita reale delle famiglie, smantellamento del settore pubblico dell’economia e del patrimonio, fino al punto di portare l’Italia per la prima volta nella sua storia moderna ad essere il primo paese in Europa (secondo i dati congiunti Ocse ed Istat) per indici di povertà e di diseguaglianza sociale -, se il risultato dunque delle politiche di austerità è questo, quello delle politiche di crescita è ancora pari a zero. Con il serio rischio che anche quello della crescita italiana diventi sempre più un discorso retorico, un luogo comune dove nulla si dice di chiaro di quale crescita parliamo, di come e di dove deve crescere il Paese, cioè secondo quale modello sociale, né di quando inizierà effettivamente a crescere, visto che prima dal governo Monti e ora dal governo Letta, l’inizio della crescita viene via via posticipato di semestre in semestre, e secondo tutte le previsioni di crescita non si vedrà l’ombra per tutto il 2014. Come possa tenere, sul piano sociale e su quello democratico, un grande paese che resta pur sempre la terza o quarta economia europea: è questa la grande questione politica che abbiamo davanti a noi. Del resto continuiamo a chiamare con la parola crisi una situazione economica e sociale, e insieme democratica e civile, che si protrae da un arco così lungo di tempo da essere ormai diventata una condizione strutturale dell’attuale fase. Meglio sarebbe portare la nostra analisi fino al punto di usare la parola crisi al plurale. Se vogliamo essere, come forza politica, all’altezza di una proposta generale di cambiamento, dobbiamo risultare netti e profondi nell’analisi delle condizioni in cui realmente ci troviamo. Se ci pensiamo bene, questo lungo lavoro di ricognizione, di ricerca, di indagine sociale – il primo vero passo verso la strada del cambiamento che vogliamo – è esattamente quel che manca da troppo tempo alla politica. Con il risultato che si allarga il divario tra politica e conoscenza reale del Paese e la politica finisce per navigare a vista e in superficie, non produce un pensiero né lungo né autonomo sulla società e diventa anche per questa via subalterna. Dobbiamo avere allora la capacità di prendere in esame le diverse crisi che in questa fase si intrecciano tra di loro e si condizionano. La crisi sociale, economica, finanziaria ha certo una dimensione rilevante in Italia, ben più che in altri paesi dell’Europa, Grecia a parte. Vorrei ricordare la recente analisi di Mediobanca (una fonte che non possiamo certo dire della nostra parte) secondo cui l’Italia è, delle grandi economie europee, il paese dove il profitto netto è il più alto in assoluto, i salari i più bassi in assoluto e gli investimenti sono uguali a zero, e di politiche industriali nel paese che le aveva tutte e le ha una ad una perdute non si parla più, la vicenda delle nomine del gruppo dirigente di Finmeccanica è emblematica da questo punto di vista. Ed è questa una situazione che si registra, secondo Mediobanca, da ben dieci anni. Questo vuol dire che il nostro Paese entra nel vortice della crisi globale, importata dall’America e scaricata sull’Europa, avendo già quegli squilibri strutturali del proprio tessuto economico e sociale che spiegano perché, ad esempio, conosceremo quest’anno un tasso di recessione del 2% mentre nell’area dell’euro è di poco sopra lo zero. Squilibri strutturali che spiegano, anche, perché sempre quest’anno la borsa chiuderà con una crescita del 35% mentre le banche avranno tolto, nello stesso periodo, 44 miliardi di euro di finanziamenti alle nostre imprese e gli indici di povertà e diseguaglianza ci consegnano, come ho già ricordato, il più amaro dei primati in tutta Europa. Se prendiamo tre parametri fondamentali dell’economia politica – costo del lavoro, tasse e capitale – e li paragoniamo alle altre due economie che hanno peso in Europa, cioè Francia e Germania, vediamo come le cifre fornite da Mediobanca smontino e anzi rovescino tanti luoghi comuni che alimentano il circuito mediatico e determinano un dibattito pubblico italiano su questi temi distante dalla realtà e dalla verità. Infatti Mediobanca ci dice, in uno studio, che in Italia da almeno dieci anni a questa parte il tema non è il costo del lavoro, ma il costo del capitale. Al lavoro infatti non arriva nulla della maggiore ricchezza prodotta, ricchezza che va tutta ad alimentare i profitti. Il tema è chiaro: è quello del capitale contro il lavoro, dei profitti contro i salari. E’ il tema di una classe imprenditoriale che, al netto di quelle imprese virtuose strozzate dalle tasse e dalle banche che chiudono ogni accesso al credito, quel profitto se l’è tenuto fino all’ultimo euro. Nessun investimento in innovazione, nessun investimento in ricerca, nessun investimento verso un’economia ecologicamente sostenibile. E mentre questo accadeva sul piano reale dell’economia, sull’altro piano, quello del senso comune, siamo stati ideologicamente bombardati – e continuiamo anche in questi giorni ad esserlo – dal grido di dolore di quella stessa imprenditorialità sulla “necessità di ridurre il costo del lavoro”, di “agire sulla flessibilità del lavoro”, di sostenere le imprese “sull’orlo del baratro” perché “non c’è più tempo”. E’ un’imprenditorialità espressione tipica di quel capitalismo capace di inneggiare alla libertà piena e totale del mercato e alla fine dell’intervento dello Stato nell’economia quando il ciclo economico è al riparo dalla crisi e che diventa immediatamente statalista quando si profila invece il crollo economico del sistema. Di fronte a questo quadro la nostra proposta politica è chiara: occorre mettere mano immediatamente a politiche macroeconomiche, nel ruolo dello Stato e del settore pubblico, nella redistribuzione e nelle politiche dell’occupazione e del lavoro. Occorre reperire risorse nuove. Risorse nuove, non risorse che si mettono da una parte dopo essere state tolte dall’altra. Risorse nuove da immettere subito nell’economia reale per contrastare adesso la recessione italiana, la più alta in tutta Europa. Se l’economia tedesca è al riparo della crisi è anche perché la terza banca tedesca, il corrispettivo della nostra Cassa Depositi e Prestiti, sostiene con il suo capitale pubblico di 500 miliardi di euro crediti e investimenti di imprese e aziende. E se l’indice di recessione francese è appena sopra lo zero è anche perché pochi mesi dopo il suo insediamento Hollande ha avviato la Banca Pubblica di Investimenti riversando 40 miliardi di euro per la crescita. La scorsa settimana il ministro francese dell’economia Benoit Hamon ha portato in consiglio dei ministri un disegno di legge per l’economia sociale e solidale, che punta su nuovi posti di lavoro, che coinvolge 200 mila imprese che avranno un accesso diretto al credito e che svilupperanno una produzione cooperativa o mutualistica o associativa nella quale la decisione del lavoratore è parte del processo democratico dell’impresa. Sono, in tutte e due i casi, risorse nuove. Quelle risorse nuove che ancora non mette nel circuito economico italiano la nostra Cassa Depositi e Prestiti che gestisce gran parte del suo patrimonio di 230 miliardi di euro, frutto del risparmio postale degli italiani, per produrre utili per gli azionisti privati anziché finanziare gli investimenti degli enti locali. Come risorse nuove ci possono essere con la volontà politica di riaprire il capitolo dei capitali scudati e come risorse nuove ci possono essere riaprendo l’altro capitolo, quello della tassazione del patrimonio e della rendita finanziaria semplicemente portando l’Italia alla media europea (che è, lo ricordo, del 23%). La fase in cui siamo, quella che ci viene descritta e presentata come la fase della infinita emergenza utile a legittimare politiche e governi delle compatibilità date, è proprio quella invece che più esige la capacità di mettere in campo qui e ora un progetto forte e nuovo di trasformazione e di cambiamento del nostro Paese. Qui c’è lo snodo vero di ciò che siamo e vogliamo essere, della qualità e del merito del fare opposizione, della prospettiva politica che sappiamo indicare a partire dalla fondamentale domanda: che cosa serve non prima di tutto a noi, alla sinistra, ma cosa serve al Paese. Il governo delle larghe intese Sin dal primo momento abbiamo evitato ogni giudizio di tipo ideologico sul governo che si è formato. Abbiamo detto con nettezza la nostra contrarietà politica e abbiamo improntato ad essa la nostra azione parlamentare a partire non solo dalla considerazione che l’attuale governo non ha nessuna delle caratteristiche di quel governo del cambiamento che la coalizione Italia Bene Comune ha presentato agli elettori, ma neppure di quel governo possibile che senza i veti incrociati e speculari, gli errori e i calcoli politici di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle avrebbe potuto nascere come soluzione di compromesso rispetto all’esito del voto, interpretando il bisogno di cambiamento dei rispettivi elettorati. Giudichiamo dai fatti. E i fatti ci dicono, a tre mesi esatti del suo cammino, che nessuna politica di cambiamento risulterà possibile con un governo di questo tipo, men che meno esso potrà guidare, orientare quel processo di trasformazione di cui ha bisogno la società italiana per dare una diversa risposta alla crisi. Se ci saranno atti e fatti capaci di farci mutare opinione lo sapremo riconoscere. Ma i “primi cento giorni”, quelli che recano l’impronta della direzione che si intende assumere, sono tali da accentuare il nostro grado di opposizione al governo e di costruire attraverso di essa le condizioni di una netta alternativa. Per noi, come per tanta parte dell’elettorato smarrito e deluso di centrosinistra, è un fatto prima di tutto politicamente innaturale un governo retto da questa maggioranza, la medesima di quel governo tecnico che il voto ha bocciato. Esiste di fatto una oggettiva continuità con il governo Monti – appunto nel tipo di maggioranza parlamentare, nella visione prevalente di parte delle politiche verso il lavoro, ad esempio – anche se, almeno fin qui, ci è stata risparmiata quella tracotante sicumera tecnocratica che passerà alla storia per aver introdotto nel lessico politico un termine – la famigerata parola “esodati” – intraducibile in qualsiasi altra lingua al mondo. Ma a ben poco può servire un diverso stile quando la sostanza ci riporta ad atti di governo che hanno in sé qualcosa di inaudito di fronte alle regole del diritto, interno ed internazionale, alle più elementari procedure diplomatiche, all’etica della responsabilità su cui si impronta la funzione stessa del governare. La vicenda kazaka non espone soltanto l’Italia ad una pessima figura su quella scena internazionale dove già il governo Berlusconi ci aveva collocati con il suo campionario cabarettistico, ma evidenzia come dietro il clamoroso caso internazionale di cui si occupano i giornali restino ogni giorno avvolte nel silenzio le quotidiane espulsioni di profughi, rifugiati, disperati che tentano, fuggendo dai loro paesi, semplicemente di vivere e che invece, come è successo l’altro giorno, altri 31 migranti sono stati inghiottiti dal Mar Mediterraneo. Vien da chiedersi cosa aspetti il governo ad avviare nei tempi più rapidi la profonda revisione del regime delle espulsioni previsto dal nostro vigente regolamento, frutto velenoso di una legislazione sull’immigrazione che metà dell’attuale maggioranza ha negli anni passati prodotto. Ma se pure lasciassimo da parte il senso di innaturalità che ci pervade dinanzi al governo che tiene insieme PD e PDL, lo stesso resterebbero due ragioni politiche di fondo a marcare la nostra netta opposizione. La prima la ricavo proprio dal pronunciamento in Parlamento di Letta al momento del suo insediamento, dove ha definito il suo governo il governo delle politiche, più che un governo politico. Questi primi tre mesi se c’è una cosa che hanno dimostrato è proprio che, senza politica, le uniche politiche possibili sono quelle del rinvio, dello spostamento in avanti, del rallentamento su tutta la tastiera dell’azione di governo, quello che in effetti sta avvenendo giorno per giorno. Quella definizione – non un governo politico ma governo delle politiche – più che realismo o pragmatismo dimostra di essere in sé velleitaria. Non trae insegnamento né dall’esperienza malamente archiviata della parentesi della tecnica al governo dell’Italia, né da quella di tanti altri governi europei che in questi anni di crisi si sono posti al riparo delle contingenze quotidiane del governare, divenendo di fatto meri esecutori di ricette imposte dalla finanza, senza alcun disegno strategico da contrapporre alla crisi stessa, senza politica, appunto. La seconda ragione è speculare a questa: quando si mettono insieme al governo due forze che si sono presentate con programmi e coalizioni alternative davanti agli elettori, lo stato di necessità, quando pure fosse giustificato, condurrebbe, come sta conducendo alla paralisi su ogni singolo provvedimento. Ne è un esempio il tema del finanziamento della politica, dove un provvedimento che già di per sé farebbe diventare l’Italia l’unico paese al mondo in cui il conflitto di interessi slitterebbe da anomalia berlusconiana a elemento strutturale del nostro sistema politico, trova sulla sua strada l’altra metà della maggioranza che non solo vuole abolire integralmente il finanziamento pubblico per lasciarlo nella piena disponibilità dei privati, ma pretende di depenalizzare il finanziamento illecito, aprendo definitivamente la strada ad un far west della politica italiana solcato da lobbisti e padroni di partito lungo l’unico sentiero degli affari e delle disponibilità patrimoniali. Per queste ragioni il governo delle larghe intese non darà risposte alla crisi della società italiana che non siano già state praticate con esiti o negativi o inconcludenti nel corso di questi ultimi anni. E’ a partire da qui che ci dobbiamo caricare del compito di pensare, costruire, organizzare una diversa prospettiva politica. In primo luogo occorre mandare a casa il governo Letta e lo dobbiamo fare con un’iniziativa coerente in Parlamento e nel Paese, aggregando il massimo delle forze sociali e politiche. Il campo delle forze Siamo nati, con il congresso di Firenze, definendoci come una sinistra di governo del cambiamento e insieme come una forza politica a vocazionale coalizionale, né tentata dal minoritarismo né improntata all’autosufficienza. Questo è un tratto distintivo della nostra missione, un modo – come è stato detto con efficacia da Vendola sin dall’inizio – per riaprire la partita politica in Italia. Nel corso di questi tre anni abbiamo agito in coerenza, certo scontando errori e ritardi, insufficienze, ma tenendo sempre ben ferma questa impostazione anche quando poteva apparire meno conveniente secondo un puro calcolo di interesse di parte. E’ stato così nelle diverse tornate elettorali amministrative, come nelle elezioni politiche dello scorso febbraio. Oggi, valutando a fondo ciò che in questi pochi mesi dal voto è accaduto, siamo di fronte alla oggettiva necessità di ripensare a fondo ad alleanze, programmi, schieramenti, e intendiamo compiere questa riflessione consapevoli che altro non possiamo essere che sinistra di governo per il cambiamento e forza politica coalizionale, poiché è per questa via che si riapre la partita politica del Paese. Sinistra di governo e forza coalizionale verso il Partito Democratico, cui poniamo la duplice sfida: sul governo, affinché non sia colto dalla insana tentazione di diventare oltre che di larghe anche di lunghe intese, e dunque consideri modi e forme per porre il limite temporale ad un’esperienza che rischia di protrarsi senza aver nulla da dire in tema di cambiamento reale; sul partito, affinché parta subito un confronto aperto, pubblico, largo, sul destino e il futuro dell’Italia, sul progetto di trasformazione sociale che la sinistra è in grado di proporre al Paese, sulle energie di cambiamento che è capace di suscitare e organizzare. La Carta dell’Italia Bene Comune per noi è un terreno valido di ripresa e rilancio di questo confronto. Ad un Partito Democratico che va al congresso noi ci rivolgiamo non guardando ad una sola delle sue tante e differenti parti, bensì ad una formazione complessa (e talvolta saremmo tentati di dire “complicata”) che tiene insieme in quel partito contraddizioni irrisolte e potenzialità inespresse, liberi e autonomi nel poter con ciascuna parte e con l’intero partito democratico confliggere e convergere, competere e cooperare, partendo sempre dal merito specifico dei problemi e dal tipo di soluzioni che siamo, tutti, capaci di proporre. Un punto dirimente del confronto è per noi quello che attiene alle diverse manovre in atto attorno alla nostra Costituzione. Francamente non comprendiamo la subalternità del partito democratico rispetto all’azione del governo su questo delicatissimo terreno. Né comprendiamo l’assillo e la fretta dello stesso Presidente del Consiglio per incamerare un disegno di legge che nei fatti avvia un processo di esautoramento del Parlamento rispetto alle proprie funzione di revisione costituzionale, affidandole ad un comitato ristretto che converge dritto verso quel presidenzialismo che la Costituzione non prevede e di cui non si avverte alcuna urgenza. Bene abbiamo fatto, con il nostro gruppo parlamentare ad opporci e portare a casa il risultato di spostare a settembre la discussione sul decreto legge. Mentre si avverte l’urgenza, come abbiamo detto e scritto nel programma Italia Bene Comune insieme al pd, di cambiare subito l’attuale legge elettorale, e come abbiamo fatto fin qui da soli appena avviata la nuova legislatura. Riduzione del numero del parlamentari, riduzione dei costi della politica, nuova legge elettorale sono punti contenuti nel programma con cui insieme al pd ci siamo presentati al voto e che il Parlamento può in via ordinaria modificare. Non c’è alcuna necessità né politica né storica di “riformare” la nostra Costituzione, dirottandone principi e funzioni verso quel presidenzialismo che esautora il Parlamento e la rappresentanza e circoscrive la democrazia dentro il cerchio ristretto della decisione autocratica. C’è piuttosto il bisogno di passare da una Costituzione “incompiuta” a una Costituzione finalmente “attuata”. Sinistra di governo e forza coalizionale anche verso il Movimento 5 Stelle. In diverse occasioni ci siamo misurati in questi mesi, l’ha fatto Vendola in modo particolare, nell’analisi di questo movimento cercando di mettere insieme la contraddittorietà piuttosto che l’univocità del suo modo d’essere. La capacità di ascolto di ciò che accade fuori e lontano dal Palazzo e il fantasma della purezza che porta al fondamentalismo, non solo il rifiuto di ogni forma partito ma la strategia di delegittimazione di qualsiasi altra forma politica, la sostituzione della democrazia rappresentativa con quella cosiddetta diretta del web, l’uso di un lessico spregiativo verso gli avversari politici e le istituzioni. Né possiamo dimenticare che l’aver scelto, da parte di Grillo, la contrapposizione totale a tutte le forze politiche presenti in Parlamento ha impedito all’inizio di legislatura, insieme agli errori commessi o voluti dal partito democratico, di far nascere un governo del cambiamento possibile. Sul piano parlamentare, nell’aula, nel lavoro delle commissioni, il confronto con i 5 Stelle, per quanto ostico, risulta indispensabile e utile, come dimostrano le mozioni sugli F35, per la richiesta di dimissioni di Alfano e altri punti di convergenza. Sul piano politico resta il solco difficilmente valicabile di un qualsiasi tipo di alleanza impedita a priori dal terreno di autosufficienza e di diversità persino antropologica su cui Grillo ha posizionato fin qui il proprio movimento. Sul piano dell’elettorato, infine, si misura un largo e comune bisogno di cambiamento su cui possiamo e dobbiamo lavorare. A tal proposito, a settembre, faremo partire una campagna nazionale “Ce lo chiede l’Europa” sulle nostre priorità programmatiche, campagna che dovrà essere aperta con iniziative pubbliche su tutto il territorio nazionale. Il nostro congresso La necessità del cambiamento riguarda anche noi, non ne siamo esclusi e anzi la severità che poniamo nel guardare criticamente il tratto ancor breve che fin qui abbiamo insieme compiuto è essa stessa indice della nostra volontà di interpretarlo proprio nel punto più alto. Il nostro Congresso può partire da qui per indicare credibilmente una prospettiva nuova per il Paese. Al primo punto c’è il come. Come fare un congresso che parli al cambiamento dell’Italia e, lo dico senza presunzione verso noi stessi, al cambiamento altrettanto urgente, indispensabile, risolutivo della stessa Europa, poiché abbiamo imparato che le vere politiche di contrasto della crisi hanno una dimensione sempre più continentale. Come sfuggire al rischio che sempre incombe di un congresso chiuso nei rituali interni, nei politicismi di bottega che anche noi talvolta abbiamo nel nostro modo d’essere, nella pura regolamentazione organizzativistica che toglie passione e riconduce inevitabilmente sempre ad una qualche conta interna. Come far sì, ecco il punto vero, che una forza politica ancora giovane e piccola riesca nell’impresa di esprimere un’idea forte per il Paese. Se ragioniamo su questo preciso punto, se riusciamo ad accendere, per la sinistra, una luce capace di allargare la vista e l’orizzonte della prospettiva, allora il quando fare il congresso, se prima o durante o dopo quello del Partito Democratico, perde di qualsiasi interesse. Già adesso, francamente, ne ha poco, dal momento che non è in discussione che noi terremo entro l’anno o nell’immediato inizio del prossimo, il nostro secondo congresso politico. Discuteremo delle regole in una Presidenza a metà settembre e all’Assemblea nazionale di fine settembre dove saranno approvate e dove si deciderà l’avvio del percorso congressuale. Il punto è costruire questo appuntamento forti di una nostra reale autonomia: sul piano della cultura politica con cui guardiamo e interpretiamo i processi sociali, della proposta che avanziamo, delle forme organizzate che ci diamo per fare politica. E non vi è politica, però, parlo di quella vera, senza una pratica consapevole dei propri errori, senza un’analitica dei ritardi, dei limiti. Per questo abbiamo bisogno di impostare il congresso a partire da un discorso di verità su di noi. Su ciò che realmente siamo, sulle nostre forme organizzate e le sulle nostre pratiche politiche, sulla formazione e l’esperienza dei nostri gruppi dirigenti, sul modo di proporre e realizzare iniziativa politica. Avverto spesso un distacco troppo forte, troppo largo, tra la nostra idea di politica e il modo concreto con cui la interpretiamo dentro il partito. L’esperienza delle primarie di fine anno sulle candidature anziché costruire un consenso più ampio al partito nella scelta del suo personale politico ha rischiato di destrutturarlo. E spesso il protagonismo personale di tanti nostri quadri è inversamente proporzionale al grado di insediamento e di consistenza dell’organizzazione in quel determinato territorio. Come è possibile che abbiamo oramai su tutto il territorio nazionale consiglieri comunali, provinciali, regionali, assessori, sindaci, deputati e senatori e ad oggi non c’è alcun rapporto tra la nostra presenza istituzionale e il nostro radicamento? Andremo al congresso avendo, ad oggi, meno della metà degli iscritti del nostro primo congresso. Erano 45 mila a Firenze meno di tre anni fa. E, giunti a metà del periodo di tesseramento, abbiamo solo due organizzazioni regionali su 19 che superano i mille iscritti, mentre 77 federazioni (su 110) sono per adesso sotto i 100 iscritti, e addirittura 43 (cioè più di un terzo del totale) è sotto il minimo stabilito dei 40 iscritti. Da circa un mese siamo in grado, attraverso la rete interna, di monitorare in tempo reale a livello centrale iniziative, feste, banchetti, assemblee, eventi politici, raccolte di firme in giro per l’Italia nei circoli e nei territori. Su 6 mila comuni in cui siamo in qualche modo presenti, non siamo andati oltre alle 57 iniziative registrate. Regione per regione abbiamo bisogno di compiere questo discorso di verità, come in ambito nazionale. C’è una difficoltà ad accostarsi a noi, alle nostre strutture come alle nostre iniziative, anche per i numerosi difetti con cui ci proponiamo verso un’apertura che è realmente tale se incorpora ascolto, disponibilità, accoglimenti delle differenza e delle esperienze. Raramente questo succede e ogni volta che non succede finiamo, giustamente, per essere assimilati agli altri in un’idea di separatezza di politica che crea distanze e reciproche solitudini. Dentro la nostra idea forte per il congresso dobbiamo riuscire a far convergere due strade che dobbiamo incorporare dentro di noi come strade maestre della sinistra che vogliamo essere per l’Italia e che possiamo definire in due parole fondative della nostra grammatica politica. La prima è la parola conversione. Essa incorpora più di ogni altra il sociale e l’economico, il lavoro e il soggetto, il paesaggio e il patrimonio. E’ lo snodo molteplice di un modello non solo di società vista e cambiata nel suo modo di produrre e di consumare, ma anche di politica, diciamo pure di vita. Siamo l’unica forza politica italiana in grado di farlo, ma fino ad ora non l’abbiamo quasi mai messo in pratica. Conversione è la parola-programma che dobbiamo portare dentro la nostra idea di Europa, quella degli Stati Uniti d’Europa, l’Europa della sovranità della politica sulla finanza. Ed è la parola-programma che dobbiamo portare, con tutto il suo peso critico e dirompente, dentro il campo del Socialismo Europeo che per noi ha senso se avviene nell’arricchimento di nuove e diverse culture politiche. La seconda parola è contaminazione. Attorno a noi, fuori da noi, spesso anche distante da noi, si sono compiute in questi anni esperienze, ricerche, pratiche che si sono misurate sulle grandi questioni che anche noi avvertiamo come cruciali: i beni comuni e la partecipazione, i diritti e il lavoro, il paesaggio e la qualità dell’ambiente, l’informazione. Hanno riguardato e riguardano associazioni, come singole individualità che in piena autonomia hanno compiuto percorsi cui d’ora in poi dobbiamo saper guardare offrendo loro una precisa proposta. Non quella di aderire politicamente a Sinistra Ecologia Libertà (libero naturalmente ciascuno di farlo e ben felici noi di accoglierlo) ma di riaprire insieme la partita, anche quella politica. Di interagire e interloquire stabilmente e in reciproca autonomia ma nel segno di una prospettiva da costruire insieme, sulla qualità e sul merito di ogni singolo tema, anche attraverso passaggi elettorali. Penso a patti che possiamo stringere con singole personalità, soggetti diversi che conoscendo reciprocamente il valore e la fertilità delle differenze, convergono sulla politica per ridare una prospettiva alla sinistra in Italia. Vogliamo proporre qualcosa che va oltre la reciproca fase d’ascolto, qualcosa che renda possibile un comune terreno di iniziativa politica e anche di rappresentanza, un’estensione del campo largo del centrosinistra verso quell’Europa Bene Comune che vogliamo essere pronti a sperimentare già alle prossime elezioni europee. Senza primogeniture, senza gerarchie, senza annessionismi. Il congresso sarà fuori da ogni ritualità nella misura in cui conterrà dentro di sé queste parole fondative, conversione, contaminazione e soprattutto apertura. La bella politica Sono stato colpito, nel seminario della scorsa settimana con un gruppo di intellettuali, da un passaggio conclusivo di Vendola in cui si diceva: c’è stato un tempo in cui la politica ci rendeva felici. Bisogna soffermarsi su questo punto, perché è importante. Non riguarda né l’utopia per una politica che mai sarà, né la nostalgia per una politica che non tornerà più: riguarda la politica che noi vogliamo costruire adesso, proprio nel punto più basso della sua qualità diffusa. In un recente rapporto sulle 40 parole che gli italiani indicano come le parole del futuro, al primo posto compare la parola solidarietà. Non solo. Le parole che hanno segnato questi nostri decenni trascorsi improntati al puro profitto, alla sfrenata competizione, alla furbizia verso l’altro, queste parole scompaiono dal vocabolario dell’Italia di domani. La politica deve costruire su questo bisogno di una comunità solidale, cooperativa, partecipata. Storicamente poi la sinistra è nata per questa via. “Siate rivoluzionari, non soggiacete al puro edonismo”. Lo dice ai giovani il Papa, ed è un messaggio in qualche modo politico, nel senso del riscatto dall’apatia e dalla rassegnazione di questi nostri tempi. C’è dunque una buona politica… C’è una bella politica che può tornare ad interessare i cittadini che l’hanno abbandonata, i giovani che non l’hanno mai incontrata. E’ fatta di partecipazione e di condivisione come di conflitto e di differenze, così ricche quando sono valoriali e ideali. E’ la politica che si organizza, sì anche in un partito, attorno a grandi culture, la politica che connette organizzazione, cultura, società contro la grande illusione perdente del potere personale. E’ la politica che diventa interprete riconoscibile di una funzione, per il proprio paese, per il futuro di una generazione, per la memoria collettiva e che si colloca dentro una fase storica come questa nostra in quanto espressione del proprio tempo e insieme strumento per superarlo. La bella politica è quella che non vive senza un progetto, un’idea di futuro, una cultura politica capace di conferirle senso, collocazione storica, capacità di decisione sui grandi temi del vivere contemporaneo. Solo coltivando, praticando l’idea della bella politica riusciremo, nel deserto paludoso in cui siamo, a trovare la strada per tornare a vincere. * Coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà
Posted on: Mon, 29 Jul 2013 21:43:34 +0000

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