Bisogno di sinistra. E di andare oltre «Per la critica del - TopicsExpress



          

Bisogno di sinistra. E di andare oltre «Per la critica del presente» Welt-und-lebensanschauung: si diceva così una volta. concezione/visione del mondo e della vita. una forza politica, con l’ambizione di presentarsi come una potenza storica, si dotava di questa arma intellettuale. Comprensione della realtà e proposizione di un progetto. Con questo, convinceva, mobilitava, chiedeva e otteneva appartenenza, lottava. Scomparsa, oggi, questa dimensione. L’ideologia della fine delle ideologie ha fatto terra bruciata. È l’ora di chiamare con il suo nome questo apparato dominante di idee: una forma contemporanea di nichilismo politico. Come tale va combattuto. Dopo l’89 del Novecento, non c’è stata una proposta, se non quella restaurativa dello statu quo ante. C’è stata invece la cancellazione, per l’avvenire, di qualsiasi proposta. L’evocazione della «fine della storia» voleva dire questo. Nessuno più poteva, e doveva, permettersi di proporre una concezione del mondo, e della vita. Essa aveva assunto in tale misura il modo di una forma alternativa da meritare, solo per questo, di essere destrutturata, demonizzata, da parte di chi voleva mettere al sicuro, in via definitiva, ricchezza e potere. I processi di secolarizzazione sono stati un decisivo vettore di trasmissione della narrazione che decretava la fine di tutte le narrazioni. Anche in politica vinceva il relativismo. Più nessuna verità, non dico come possesso ma nemmeno come ricerca. L’immanenza dei fini ne risultava come conseguenza. Tutto sta dentro questo mondo, da cui è impossibile uscire. Il Castello di Kafka è inattaccabile, come il Processo che lo costituisce è impenetrabile. Una sola forma di vita, quella borghese, all’interno della quale la sola decisione che ti viene concessa è come starci. Non se starci: perché questo è già stato deciso per te da quando sei nato. Al posto dell’oltre, il niente. L’operazione, vincente, è consistita nell’oscurare l’orizzonte, illuminando la notte. Sono andate più o meno così le cose, nell’ultimo trentennio. Luccicava il liberismo assoluto, mentre si spegnevano le luci del socialismo. Poi, il risveglio negli incubi della crisi generale ha fatto vedere come perdute tutte le illusioni. UN ALTRO MONDO Da qui, occorre ripartire. «Un altro mondo è possibile»: gridavano generosamente i movimenti antagonisti. Questo già prima che il sistema imboccasse la via della sua crisi. Contrapporre le nostre illusioni alle loro può essere utile per un momento di mobilitazione. Subito dopo, conviene passare a un duro lavoro di costruzione. Realisticamente, dovremmo dire: «un altro mondo è necessario». E siamo ancora nello stato di fatto di dover creare le condizioni di possibilità. Se non si riequilibra il rapporto di forza tra il sotto e il sopra della società, queste condizioni non si creeranno. E dunque questo è il primo obiettivo. Ricostituire una soggettività collettiva in grado di far sentire la propria presenza in campo, con un pensiero alternativo e una pratica di lotta capaci di fare storia. Nuova storia, perché è vero che quella vecchia è finita, quella antica degli Imperi e delle Chiese, quella moderna delle Nazioni e degli Stati. È finita anche quella contemporanea, novecentesca, delle classi e dei partiti? Ecco, qui dobbiamo fermarci un momento a riflettere. Perché qui non si può dire che siamo decisamente al dopo, a quel post, che definisce, sembra definire, appunto, adesso, ogni presenza. Piuttosto, c’è un passaggio, non concluso. Il passato è troppo prossimo: non tutto è da trattenere, non tutto da liquidare. Nell’equilibrio fra tradizione e trasformazione si giocherà il prestigio, l’autorevolezza, l’efficacia di una nuova forza d’urto. L’altermondialismo è un’idea non realizzata, da realizzare. Questa è la funzione dei movimenti dal basso: sono la domanda, non la risposta. Un’istanza simbolica: importante, essenziale, nell’èra dell’agire comunicativo. Il 99 per cento da una parte, l’1 per cento dall’altra non è un dato statistico, è un immaginario mobilitante. Deve passare nelle mani di una potenza politica organizzata. La globalizzazione è un fatto, dalla testa dura. C’è il mondo dei mercati, della produzione, dei consumi: che rende possibile il mondo dei popoli, dei lavori, degli esclusi. Prima di tutto, rendere visibili gli estremi: i paperoni della finanza, i dannati della terra. Poi, lavorare sugli spazi intermedi, con i loro tempi di vita, assai diversi nei diversi mondi. I popoli non sono più quelli delle nazioni, anche se lo sono in parte ancora e di nuovo bisogna tenerne conto: ma tendenzialmente sono popoli di continenti. Favorire questa sovranazionalità dei popoli. Concepirla, organizzarla, come un livello più alto degli storici movimenti di liberazione. Gli eredi del movimento operaio, con l’internazionalismo proletario, sanno meglio di altri di che cosa si tratta. L’Europa è oggi il luogo del grande esperimento. Unione economica, monetaria, finanziaria: che cosa manca per l’unità politica? Manca la volontà. Il partito del socialismo europeo è vocato a essere il motore di questo processo. Il cuore oltre l’ostacolo aspetta di essere gettato. I lavori non sono più quelli degli operai delle grandi fabbriche, anche se lo sono in parte ancora, e bisogna tenerne conto. Il lavoro industriale cala in Occidente, cresce nel mondo. E comunque si trasforma tecnologicamente e socialmente. Di nuovo tradizione e trasformazione. Si moltiplicano, e si frantumano, le figure di lavoro. Ma le figure autonome non cancellano le figure dipendenti. In molti casi, esprimono forme nuove di dipendenza. Il lavoro immateriale si aggiunge al lavoro materiale, non lo sostituisce. Semmai si ridistribuiscono le funzioni su basi etniche. Una novità. Il mercato mondiale del lavoro andrebbe rappresentato sindacalmente e politicamente. Ecco un’idea alternativa di mondo. E gli esclusi. Irrompono sulla scena da protagonisti. Si liberano da una passiva subalternità secolare. (...) Non basta importare lì i riti di una democrazia elettorale, bisogna avviare quella dialettica virtuosa di diritti politici, diritti civili, diritti sociali, che ha fatto la nostra lunga vicenda di storia moderna e contemporanea. Ce n’è di «che fare»! E qui manca qualcosa di più che la sola volontà. Manca un’élite. Uso questa parola senza patemi d’animo di incertezza. Non esiste lotta di popolo, liberazione del lavoro, fine definitiva dell’esclusione, senza classi dirigenti. O meglio, possono esistere queste cose occasionalmente, momentaneamente, ma senza che durino, che incidano, che impongano, che vincano. E invece, occorre durare, incidere, imporre, e conquistare posizioni senza tornare più indietro. Gli altri hanno un ponte di comando, da questa parte ci deve essere un punto di direzione. Comandare e dirigere sono due differenti forme di agire politico. Comando vuole personalizzazione, direzione chiede collegialità. Insieme, si sbaglia meno, e si decide meglio. Nella dialettica tra posizioni, la decisione diventa un processo, e solo come processo, concluso, diventa efficace perché condivisa. Il comando si esprime come potere, la direzione come autorità. Gruppo dirigente è una nobile categoria del politico. È difficile che sia univoco, è normale che sia composito. Nel partito, rappresenta la composizione della militanza. I militanti devono essere a loro volta dirigenti politici nella società. Dirigere vuol dire orientare, orientare vuol dire convincere, convincere non vuol dire essere conosciuti, ma essere riconosciuti. Nel riconoscimento sta l’autorevolezza dei dirigenti. Anche nel partito occorre ricongiungere l’esperienza del passato con la tendenza del presente. Appartenenza al collettivo esige oggi molta più libertà della persona. Ma come si passa dall’individuo proprietario alla persona-mondo, questo, per saperlo, bisognerebbe assumere, come programma minimo, una rivoluzione intellettuale e morale delle forme di vita. Ecco: forme di vita: qui, la questione antropologica, che sta lì, passivamente presente, e va resa viva, attiva, protagonista del conflitto con una forma di mondo, dominante. Vita e mondo oggi si contraddicono. I mondi vitali si sono scissi e vanno ricomposti, pena la deriva del disagio di civiltà in una inarrestabile decadenza civile. È il problema, critico, esso stesso in crisi, del senso da dare all’esistenza umana. L’essere umano non può vivere come appendice della merce, come funzione di mercato, come produttore di reddito e consumatore del prodotto che produce. (...) L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa. La dimensione laicista, la secolarizzazione dei comportamenti alternativi, è ormai tutta catturata dentro l’orizzonte invalicabile del presente. L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino all’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo oggi innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi. Gli esclusi, che non aspirano ad essere inclusi, piuttosto pretendono di escludere da sé la subalternità, la dipendenza, la stessa libera acquiescenza, rispetto ai meccanismi di sistema. E allora, e dunque: il nome e la cosa. Importante, essenziale non è dire sinistra. Importante, essenziale è dire che cos’è sinistra, oggi. Se il nome fosse di ostacolo per una più ampia aggregazione di forze intorno al «che cos’è sinistra», in modo da farne una potenza in campo, con cui tutti, dall’alto e dal basso, élites e popolo, devono fare i conti, discutiamo qual è il nome appropriato. Mettiamolo sul tappeto. E ripartiamo all’attacco. Mario Tronti l’Unità
Posted on: Thu, 24 Oct 2013 13:56:49 +0000

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