Capitalismo 2013 di Antonio Carlo Anatomia della politica - TopicsExpress



          

Capitalismo 2013 di Antonio Carlo Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945 – 2013); b) la depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico” 1) Premessa. I motivi di un lavoro Nei miei precedenti articoli sulla crisi mondiale1 ho sottolineato la centralità, quasi oppressiva, dell’economica sulla società nel suo complesso e sulla politica in particolare: una crisi strutturale senza soluzioni possibili, o meglio una depressione che è un crollo graduale già in atto ed irreversibile, produce l’impotenza della politica. Eppure c’è stato un tempo in cui la politica ha avuto un peso notevole negli equilibri della società capitalistica, non nel senso che essa potesse dirigere o pianificare l’economia capitalistico-mercantile, ma nel senso che la politica, lo Stato, sceglievano tra le alternative di sviluppo possibile e compatibili con la logica del capitalismo e del profitto: un esempio per tutti, l’alternativa che caratterizza tutta la storia del XIX secolo tra protezionismo e libero scambio, attorno a cui vi furono conflitti terribili all’interno della classe dominante che in un caso esplosero nella prima guerra dell’era industriale: la guerra di Secessione americana2. Oggi questo non è più possibile perché alternative di sviluppo non c’è ne sono più: gli Stati sopravvivono galleggiando sulla crisi, senza prospettive di medio-lungo periodo, cosa che evidenzio nell’ultimo lungo paragrafo di questo lavoro, dove si pone in luce come nessun Governo sappia in quale modo affrontare la cause della crisi, che appare una maledizione incomprensibile caduta dal cielo, al più si accenna a fenomeni che sono delle mere concause (gli eccessi speculativi) senza affrontare il nodo principale che è il fatto che questo sistema contrae stabilmente l’occupazione, mentre la popolazione mondiale cresce, ciò che crea una forbice insostenibile da cui derivano tutti i guai dell’economia mondiale3; certo si ammette che il problema occupazionale è centrale, ma nessuno ne affronta la vera causa che è nella natura di un sistema, in cui ormai la produzione può crescere riducendo l’occupazione in modo costante, ciò che crea tensioni insolubili. L’ultimo lungo paragrafo è preceduto dai paragrafi 2-7 dove analizzo il sistema politico italiano nella sua relazione con l’economia capitalistica, ciò che potrebbe sembrare una ricerca dall’oggetto diverso rispetto al paragrafo finale, ma non è così perché anche nella parte “italiana” di questo lavoro ho cercato di evidenziare il legame profondo tra economia e politica nel senso che quando c’era uno sviluppo possibile la politica era in grado di operare scelte tra le alternative di sviluppo capitalistico, che però erano diverse e avevano grosse implicazioni pratiche: il miracolo economico italiano è impensabile senza la politica della DC. Poi la fine del miracolo italiano che, si noti, è parte del grande miracolo capitalistico post-bellico, determina da noi la crisi e il “deperimento” della politica sempre più incapace di dare risposte ai problemi creati da un’economia capitalistica impazzita. Le vicende italiane sono parallele ed analoghe alle vicende mondiali e spesso le anticipano, per cui l’analisi contestuale delle nostre vicende e di quelle mondiali mi pare giustificata ed opportuna. 2) Il prologo in cielo: la Costituzione del 1948 ovvero la “cena delle beffe” La nostra Costituzione, da cui è nata la prima e unica Repubblica4, viene esaltata come “la più bella del mondo” nata “da i valori della Resistenza”. Asserzioni declamatorie che non condivido minimamente. La Costituzione non è nata dalla Resistenza , ma dopo la fine della Resistenza. I rapporti economici che essa regola sono sfacciatamente capitalisti e le promesse di giustizia sociale che contiene sono promesse propagandistiche senza alcun rilievo pratico; su alcuni punti nodali, poi, è evidente che la Costituzione si pone in continuità col fascismo, basterà considerare che le relazioni economiche, la proprietà e il lavoro continueranno ad essere regolare dal codice civile varato dal 1942 dal regime fascista e su cui l’influenza della Costituzione è stata pressoché nulla5. In sostanza la più grossa conquista della Costituzione è la fine della discriminazione politica verso una parte notevole dei cittadini, le donne, equiparate politicamente agli uomini, ma non eravamo i primi a realizzare questa scelta, e soprattutto essa riguardava il campo dell’eguaglianza formale trai cittadini e non dell’eguaglianza sostanziale: infatti in questa società vi può essere da una parte un Agnelli e un Berlusconi e dall’altra braccianti e disoccupati, il che espone al rischio che anche la stessa eguaglianza formale sia svuotata di contenuto. E valga il vero. A) Gli artt. 1 e 4 della Costituzione. La prima beffa L’art. 1 dice che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, esattamente come la società feudale era fondata sul lavoro dei servi della gleba, e la società greco-romana su quella degli schiavi. Il problema è sapere come la società tratta il lavoro ed il lavoratore; la Costituzione repubblicana non lo dice epperò lo dice il codice civile fascista per cui il lavoro è e resta una merce. Intendiamoci non c’è nel codice una simile definizione, ma la si ricava dalla disciplina del contratto di lavoro subordinato, che è il lavoro centrale nel capitalismo (la subordinazione è nei confronti del datore di lavoro e cioè nel capitale): nel contratto a tempo indeterminato, che sarebbe quello che realizza un rapporto stabile, il datore di lavoro può licenziare il lavoratore quando vuole, ad nutum con un cenno di testa cioè. Il lavoro c’è finchè fa comodo ed è profittevole per il datore di lavoro; una volta licenziato il lavoratore tornerà sul mercato ad offrire la sua merce sperando che qualcuno l’acquisti. Questo fino al 1970 quando lo Statuto dei lavoratori afferma il principio che il licenziamento può avvenire solo per giusta causa o per giustificato motivo, il che, secondo alcuni giuristi come Federico Mancini , ridurrebbe il licenziamento ad un fenomeno “residuale”. A mio avviso se questo è un residuo somiglia per dimensione all’Oceano Pacifico. Infatti accanto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo (il vecchio licenziamento per scarso rendimento)6 ci sono i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e cioè economico, e quindi licenziamenti per crisi aziendali, ma anche per motivi tecnologici (perché le nuove tecniche permettono di ridurre l’occupazione), o perché l’imprenditore trova più conveniente delocalizzare e trasferire l’azienda o l’impianto all’estero; negli ultimi decenni di casi di questo genere ne abbiamo avuti a bizzeffe. Emblematico è quello che è avvenuto nel periodo del 2011-2012: nel primo anno oltre 900.000 licenziamenti, nel secondo la cifra cresce ancora anche se non raggiunge il milione7, in due anni poco meno di due milioni di licenziati a fronte però di 160.000 cause di lavoro pendenti, di cui solo lo 0,2-0,3% concernono vertenze per la riassunzione8. La verità è che nel nostro sistema sono vietati solo i licenziamenti per motivi o rappresaglia politico-sindacale o per antipatie e ripicche personali9, un’infima minoranza cioè, come si evidenzia paragonando il numero delle vertenze per le riassunzioni contro il numero globale dei licenziamenti. Ovviamente non sottovaluto l’importanza politica delle riassunzioni dei licenziati per motivi sindacali. Quando la FIOM ha ottenuto di recente dalla Cassazione la riassunzione dei tre operai FIAT licenziati perché accusati di sabotaggio, ha ottenuto una grossa vittoria ma i riassunti erano solo 3, dal punto di vista socio-economico la grande massa dei lavoratori è licenziabile per gli stessi motivi esistenti quando Marx scrisse Il Capitale: allora come adesso la forza lavoro che opera subordinata al capitale, che è fondamentale nel capitalismo10, rimane una merce subordinata alle fluttuazioni dell’economia e del mercato. Quanto all’art. 4 della Costituzione, stabilisce che il lavoro è un diritto anzi è un dovere. La cosa non è nuova: la carta del lavoro fascista del 1927 stabiliva quanto segue (art. 2 comma 1°): “Il lavoro sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali , è un dovere sociale. A questo titolo e solo a questo titolo è tutelato dallo Stato”. Ciò non impedì a milioni di italiani di essere disoccupati o di finire nell’emigrazione, malgrado che il regime, con severità calvinista, prometteva di tutelare questo imprescindibile dovere sociale. Per contro quelli che vivevano di rendita senza lavorare continuarono tranquillamente a farlo11. Ciò non è cambiato con lo Statuto dei lavoratori, di cui abbiamo visto i limiti, e che peraltro tutela in misura molto ridotta chi il lavoro lo ha non chi il lavoro lo vorrebbe e lo cerca. Del resto che l’art. 4 non preveda un diritto agibile presso i Tribunali è stato riconosciuto di recente anche da un giurista come Zagrebelsky , che ha rilevato come il diritto al lavoro sia un diritto politico e non un diritto in senso tecnico-giuridico12. Il fatto è , però, che un diritto privo totalmente di tutela giuridica (anche come aspettativa o come interesse legittimo) è un assurdo , come “un cieco che vede”, in realtà quello che viene chiamato “diritto” è una mera rivendicazione politica senza alcuna tutela: 35 anni orsono ho affermato che l’art. 4 è una pseudonorma, che appartiene al campo della propaganda ideologica e non del diritto vero e proprio , dove non c’è alcuna tutela o rilevanza giuridica, parlare di diritto è un inganno consolatorio13; il lavoratore subordinato è solo, in questo sistema, il portatore di una merce, il diritto al lavoro non esiste oggi come sotto il fascismo. B) L’art. 36 Cost. La seconda beffa L’art. 36 Cost. riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro erogato, e comunque sufficiente ad assicurare a lui ed alla sua famiglia: “un’esistenza libera e dignitosa”. Anche qui poche parole per rilevare che non c’è nessuna tutela giuridica: i nostri salari e stipendi sono decisamente bassi, secondo la BRI dalla fine degli anni ’70 ad oggi i nostri lavoratori hanno perso 10 punti nella ripartizione del PIL14, inoltre è esploso in Italia, come in tutto il mondo, il fenomeno del lavoro parziario e/o precario: nel 2005 i lavoratori a tempo pieno e indeterminato erano il 56,4% del totale, nel 2012 erano scesi al 53,6% (fonte ISTAT), quasi la metà dei lavoratori sono parziari o precari con un reddito basso o intermittente, che non si vede come possa garantire un livello di vita dignitoso. Ancora, quando si abolì la scala mobile il decano degli economisti italiani, prof. Caffè, disse che eliminare la scala mobile era come rompere il termometro per non misurare la febbre: la scala mobile si attivava perché i prezzi salivavano, era un effetto e non la causa dell’inflazione, bloccare l’effetto significava solo impedire ai salari di recuperare il proprio reddito, tuttavia nessuno si peritò di rispondere al prof. Caffè o di ricordarsi dell’art. 36 Cost., sicchè abbiamo avuto una riduzione dei salari mentre l’inflazione ha continuato a crescere, evidentemente quando sui mercati del petrolio e delle materie prime si fanno manovre speculative che infiammano i prezzi, gli speculatori non si fermano certo perché la scala mobile non esiste più in quasi tutti i paesi capitalistici. Analogo discorso può farsi per le pensioni che sono anch’esse un reddito di lavoro o assimilato ad esso15: quando, con la riforma del 1992, si passò dal retributivo al contributivo si disse che si sarebbe passati dall’80% dell’ultimo stipendio, erogato come pensione, al 60%: un taglio secco che non si sa come si concili con l’art. 36 Cost., nel frattempo è ormai comunemente ammesso che le nostre pensioni sono da fame (inferiori a € 1000 al mese e spessissimo a € 500,00); di recente si è arrivati al fenomeno scandaloso degli esodati , lavoratori che si trovano privi di stipendio e di pensione, a causa dell’aumento dell’età pensionabile, e questo con buona pace dell’art. 36 Cost. C) L’art. 53 della Cost. e la progressività del sistema fiscale. La terza beffa L’art. 53 della Cost. stabilisce la progressività del nostro sistema fiscale con una norma estremamente generica, che non indica i caratteri concreti di tale progressività. È accaduto, allora, che accanto alle imposte dirette si sia sviluppato un sistema di imposizione indiretta sempre più importante e di carattere assolutamente regressivo. Dicendo questo non dico nulla di particolarmente eretico, è noto che le imposte indirette , colpendo in modo eguale redditi diseguali, producono effetti pesantemente regressivi, in altre parole paga di più chi ha di meno, e al posto di un fisco progressivo alla Robin Hood (togliere ai ricchi per dare ai poveri) abbiamo un fisco che toglie ai poveri per dare ai ricchi, quando il vecchio Pietro Nenni diceva che il nostro Stato “è forte con i deboli e debole con forti” aveva davanti agli occhi il nostro sistema fiscale. Un esempio chiarirà quanto sostengo: se un operaio investe 500 euro del suo salario netto di € 1000 nell’acquisto di beni gravati da un’IVA del 10% pagherà 50 euro di tasse, il 5% del suo reddito; se lo stesso investimento verrà fatto da un soggetto che guadagna 3000 euro mensili il peso fiscale sarà inferiore al 2% del proprio reddito, se il reddito è di 5000 euro mensili siamo solo all’1% e così via. Lo stesso discorso può farsi per le accise o per le altre imposte indirette il cui peso è enorme: stando ai dati del Tesoro nel 2002 l’IVA pesava per 94,304 miliardi di euro su entrate fiscali su 332,263 miliardi, nel 2007 siamo a 121,251 miliardi su 417,753 miliardi e non considero le accise (pesantissime quelle sulla benzina). È chiaro che il nostro sistema fiscale colpisce i redditi bassi molto più di quelli alti e prescindo, in questa sede, dal discorso sull’evasione fiscale che è enorme, come vedremo trattando altri profili. E’ chiaro che le imposte indirette dovrebbero essere vietate o ammesse solo in via eccezionale e temporanea oppure limitatamente ad alcuni beni di consumo (quelli di lusso in particolare); la loro ammissione in modo generalizzato, favorita dal carattere estremamente generico dell’art. 53 Cost., porta ad un sfregio costituzionale estremo che sopravvive nell’acquiescenza generale, proprio grazie al suo carattere dirompente ed abnorme per le sue dimensioni. Se si dichiarassero incostituzionali IVA, accise ed imposte indirette, il bilancio dello Stato salterebbe e non ci sarebbero più i soldi per pagare stipendi e pensioni, anche quelli dei giudici costituzionali e nessuno può assumersi tale responsabilità. Il vecchio Lutero diceva: “pecca fortiter” e cioè se devi peccare fallo fortemente e ciò vale anche nel nostro caso, più grave è lo sfregio costituzionale più difficile (impossibile) è rimuoverlo: se bisogna violare la Costituzione tanto vale farlo in modo radicale, più grave è lo sfregio più sicura l’impunità. D) Gli artt. 41 e 42 della Costituzione. I piani e la funzionalizzazione della proprietà privata. La quarta beffa L’Art. 42 Cost. dice che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” e non vi è dubbio che questa norma sia operativa, ma l’art. 41 stabilisce che la proprietà privata (o meglio l’iniziativa privata fondata sulla proprietà) non può svolgersi contro l’utilità sociale e danneggiando sicurezza, libertà e dignità umana, sicchè per impedire che questo avvenga: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 42 comma 2 Cost.). È evidente che mentre l’iniziativa e la proprietà privata sono garantite come libere subito, mentre per la realizzazione dei fini sociali ci vogliono leggi opportune. Se nel frattempo l’iniziativa privata lede l’utilità sociale non accade proprio nulla. Il capitale ottiene subito quello che gli serve per fare i propri comodi e le classi subalterne ottengono solo una promessa: si faranno dei programmi per dirigere l’economia verso l’utilità sociale. In realtà non si faranno piani o programmi al plurale, ma un solo piano, il cd. piano Pieraccini che venne approvato nel 1967 dal Parlamento italiano, che avrebbe dovuto coprire il periodo 1966/70; fu un piano che, lo si disse da vari critici all’epoca, era un libro dei sogni che prevedeva vari obiettivi senza alcun mezzo concreto per realizzarli, perché si fosse usata la forma di una legge per approvare il libro dei sogni rimane ancora un mistero, ma non è un mistero perché il capitalismo italiano sia impianificabile16; dei vari motivi strutturali per cui il capitalismo in generale è quello italiano in particolare siano impianificabili me ne sono occupato nei decenni passati17, qui mi limiterò a sottolineare un dato posto in rilievo nel 1971 dal dott. Carli Governatore della Banca d’Italia, che rilevò come le IM disponevano di riserve di capitale circolante pari a 160 mila miliardi di lire italiane del 1971 , che si muovevano sui mercati mondiali in senso inverso alla politica monetaria dei singoli Stati mettendola in crisi, e contro questa realtà le banche centrali non avevano alcuno strumento di intervento18. Questo significa che una pianificazione meramente nazionale del capitalismo è impensabile mentre un potere mondiale in grado di realizzare una pianificazione mondiale non c’era nel 1971 e non c’è ora né si vede all’orizzonte19. Ciò posto non meraviglia se, archiviato il libro dei sogni chiamato piano Pieraccini, non ne sia stato approvato nessun altro: al massimo un documento preliminare al piano 1971-75 , mai varato, poi un altro documento preliminare al piano 1973-77, mai varato, e poi il silenzio. C’è ancora un altro rilievo da fare: anche il fascismo riteneva che la proprietà privata fosse da intendere in funzione sociale: la relazione al codice civile del 1942 (libro della proprietà) è chiarissima20, quanto alla pianificazione sia il codice civile che la legge bancaria del 1936-38 (ancora vigente) ne accettano in pieno la logica21. Qualcuno potrebbe obiettare che tra la funzione sociale ed i fini del piano stabiliti da un regime fascista e gli analoghi concetti che possono operare nel regime repubblicano potrebbero esservi differenze rilevanti e questo potrebbe esser vero. Epperò c’è, tra i due regimi, un elemento di continuità in dubbio: entrambi i regimi hanno mirato a piegare il capitalismo ad una logica di piano ispirata da fini dettati dal potere pubblico, ed entrambi hanno fallito e questo mi sembra un elemento di continuità, tra i due sistemi politici, di grande peso. E) L’art. 3 comma 2, Cost. ed il principio dell’uguaglianza sostanziale, ovvero la madre di tutte le beffe L’art. 3 comma 2 Cost recita: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Come si vede il legislatore riconosce che c’è una classe socialmente svantaggiata, i lavoratori, che nel nostro codice civile sono definiti subordinati, che lavorano cioè alle dipendenze di altri ed il cui lavoro potrà essere utilizzato solo se produca un profitto. Se questa è la realtà si capisce anche qual è la “classe privilegiata” gli imprenditori o capitalisti che dir si voglia. Si ammette, dunque, che l’eguaglianza reale non esiste e che esiste una diseguaglianza rilevante, cioè rapporti di dominio e di subordinazione, ma cosa ottengono di concreto i lavoratori? Nulla, solo la promessa che si risolveranno in futuro i loro problemi, prima o poi. Ai capitalisti la libertà di iniziative e di impresa che è operativa, ai lavoratori una promessa per le future generazioni , uno scambio diseguale che mi ricorda quello subito dalle popolazioni Indie del Centro Sud America: oro contro battesimi. La verità è che se , in una società di diseguali, non intacchi la diseguaglianza e le sue cause, accadrà che chi è titolare di posizioni di potere e privilegio le userà per difendere ed ampliare la stesse. Chi controlla capitali e/o mass media può influenzare l’opinione pubblica , far fallire le emissioni dei titoli pubblici, delocalizzare imprese causando sfasci occupazionali etc. Abbiamo visto la dichiarazione di impotenza di Carli contro le IM, ma nella storia del capitalismo la capacità dei grandi gruppi di interesse di influenzare lo Stato è antica e consolidata. A tale proposito ecco come Golo Mann , noto storico tedesco , descrive il modo di operare del barone Von Krupp: “… sempre pronto a minacciare lo Stato con la vendita della ditta alla Francia o con l’emigrazione in Russia, un argomento che egli definisce “come mezzo di pressione più sicuro” e come “pepe negli occhi”. Al re Guglielmo I che gli muoveva rimproveri perché ha rifornito l’Austria nemica risponde francamente: “non possiamo vivere con la sola Prussia”22. La cosa incredibile è che il referente di Krupp è lo Stato Prussiano noto per la sua severa inflessibilità: evidentemente il barone ha i mezzi per renderlo “flessibile e bonario” e per poter ammettere serafico davanti al re (di Prussia) che certo aveva venduto armi all’Austria, durante la guerra del 1866, ma si sa “businnes is businnes”. Tornando all’Italia se non si intaccavano nella stessa Costituzione le posizioni di potere e di privilegio di una borghesia ingrassata nello Stato liberale, cresciuta con le commesse di guerra,collaboratrice del fascismo e dotata di una moralità del tutto simile a quella del barone Von Krupp, sarebbe accaduto che i vecchi gruppi di potere avrebbero ripreso il sopravvento. Sarebbe stato necessario, dunque, fissare nella Costituzione limiti alle concentrazioni finanziarie e industriali, o all’arricchimento individuale, o al controllo sui mass media etc. Non lo si è fatto e le conseguenze sono ben note: cacciata della sinistra dal Governo , scissione sindacale, reparti confino e pugno di ferro in fabbrica etc.: i privilegiati usano i propri privilegi per difenderli ed ampliarli, come è normale in una società classista. Si dirà che i rapporti di forza non permettevano di ottenere molto di più e qui, darò un dispiacere ai miei vecchi compagni sessantottini, sono d’accordo23, ma se la Costituzione del ’48 è solo una delle Costituzioni borghesi non è il caso di considerarla una vittoria, un ponte verso il socialismo e così via elencando: le sconfitte non cambiano natura se le chiami vittorie. Nel 1945 la Resistenza è finita, e la Carta del 1948 segna un ritorno al potere delle forze conservatrici anche se è bene dirlo subito, il partito che incarnerà il ritorno della conservazione è un partito conservatore di tipo nuovo, un partito di massa che cercherà di collegare e sintetizzare sviluppo economico di tipo capitalistico e consenso sociale al sistema. 3) Atto prima scena prima. Il sistema politico italiano negli anni della ricostruzione e del miracolo economico (1945-70). Fondamento e natura della consociazione DC – PCI A) La natura e la politica della DC Spesso la DC è stata rappresentata come un partito clientelare e per certi versi arcaico, molto più un peso per lo sviluppo economico che non un elemento fondamentale dello sviluppo stesso, il cui merito andrebbe all’economia cresciuta malgrado la DC. Nulla di più falso, a mio avviso, la DC è stato un grande partito conservatore di massa, che ha ben saputo interpretare le esigenze dello sviluppo capitalistico e la necessità di coniugare insieme sviluppo economico e consenso sociale. Per capire cosa sia un moderno partito conservatore di massa bisogna partire da un brano avveniristico che Marx scrisse nel 1862, a proposito dello sviluppo dei ceti medi destinati a diventare la maggioranza della forza lavoro e della popolazione: “… in seguito al macchinismo in generale, allo sviluppo della forza produttiva degli operai, il reddito netto, il profitto e la rendita crescono a tal punto, che la borghesia ha bisogno di più servidorame di prima (…) Questa progressiva trasformazione di una parte degli operai in servitori è una bella prospettiva. Egualmente consolante per essi, è sapere che in seguito all’accrescimento del prodotto netto, al lavoro improduttivo si aprono nuove sfere, che vivono del loro prodotto, ed il cui interesse più o meno rivaleggia nel loro sfruttamento, con quello delle classi direttamente sfruttatrici”24. Pochi anni dopo, nel 1867, Marx rileverà ne “Il Capitale”, che , sulla base del censimento inglese del 1861, i cd. ceti medi (o lavoratori improduttivi) sono diventati la maggioranza della forza lavoro in Inghilterra25. Da queste analisi derivano alcuni corollari: la classe dominante può allearsi con i ceti medi, rendendoli compartecipi in certa misura dello sfruttamento del lavoro operaio: la marcia dei 40.000 a Torino nel 1980 evidenziava come i quadri FIAT si sentissero molto più vicini al padrone che non agli operai. Questa politica delle alleanze, però, necessita di strumenti operativi per essere realizzata e cioè del partito conservatore di massa, il che è tanto più vero nel XX secolo perché si generalizza il suffragio universale. Nascono allora i grandi partiti di centro come la DC italiana e tedesca, che sono dichiaratamente interclassisti, si rivolgono cioè a tutte le classi sociali, per quanto accettino esplicitamente come orizzonte organico il capitalismo, i politologi li definiranno “partiti pigliatutto” che si rivolgono cioè a tutte le classi e a tutto l’elettorato. Questi partiti, però, almeno nel II dopoguerra non sono meramente conservatori, ma propugnano riforme, necessarie ad avere il consenso di ampi strati sociali, e questo li avvicina alle socialdemocrazie. De Gasperi dirà che la DC è un partito di centro che guarda verso sinistra e ciò non è valido solo per la DC italiana. Il piano Beveridge, che è il simbolo del riformismo postbellico, fu realizzato dai laburisti inglesi ma fu concepito da un lord liberale e fu sottoscritto da un gruppo di 36 deputati tories che si definirono “tories reformers”26, evidentemente essere conservatori e riformatori poteva essere strano dal punto di vista logico formale, ma essere possibile storicamente: l’esperienza della grande crisi e la sfida comunista imponevano al capitale di modernizzarsi salvando il profitto e allargando il consenso sociale al sistema, anche perché i salari e consumi erano necessari ad impedire che si aprisse una forbice troppo larga tra investimenti e consumi che portasse ad un altro 1929. In Germania la Dc di Adenauer accettò le tesi di un economista liberale ed antinazista (Roepke) che sosteneva la necessità di un’economia sociale di mercato, in cui il mercato dovesse realizzare i fini sociali, come il pieno impiego, ed in cui il potere politico poteva intervenire tutte le volte in cui il mercato funzionava male e si allontanava dalla realizzazione dei fini sociali di cui sopra; in Inghilterra i conservatori, tornati al Governo nel 1951, non annullarono ma conservarono le riforme dei laburisti come fecero in America i repubblicani tornati al potere nel 1952 e che non toccarono il welfare state realizzato negli anni di Roosevelt, anzi la tassazione progressiva raggiunse il suo picco nel 1957 (il 91% di aliquota massima) quando alla Casa Bianca c’è un vecchio generale in pensione repubblicano diventato Presidente della Repubblica stellata27. Si trattava di un riformismo che accettava il capitalismo e i suoi pilastri fondamentali ma che non era per nulla gattopardesco. La DC interpretò in Italia questa esigenza a partire dalla svolta europeista che fu fondamentale per il miracolo italiano. Bisogna capire che la ricostruzione postbellica fu una ricostruzione da giganti come rileva Andrè Piettre28, in Italia come in Europa. I grandi gruppi che si sviluppano sulla scia dello sforzo di ricostruzione che esige enormi risorse , avvertono i confini nazionali come un limite e quindi si mira ad allargare gli spazi economici e commerciali. In Europa nascono la CECA, l’Euratom, ed il MEC (1957), e gli uomini della DC italiana e tedesca sono all’avanguardia del processo (De Gasperi, Fanfani ed Adenauer), e i monopoli italiani (FIAT in testa) sono tutti dichiaratamente europeisti: noi non possiamo immaginare il boom dell’auto e dell’industria italiana senza l’europeismo ed il piano autostradale che ne fu la sua proiezione all’interno. Ovviamente questa scelta poteva mettere in difficoltà i settori poco competitivi ed arretrati come le PMI e il Mezzogiorno e si intervenne con leggi di sostegno a queste ultime (la legge 59 del 1959) o anche con i metodi surrettizi ma efficaci, come la tolleranza verso l’evasione fiscale del popolo delle partite IVA che rappresenta il 28% della forza lavoro italiana29. Scrive in proposito Arvedo Forni: “Gli evasori medi hanno un peso diverso la loro influenza è generalmente politica si esercita nelle elezioni e nei rapporti politici di gruppo o locali (…) Il partito “populista” di massa (in senso elettoralistico e passivo) ha individuato la possibilità di mantenere la propria popolarità attraverso la tolleranza dell’evasione, lo Stato diventa così indifferente verso l’evasione degli strati intermedi …”30. Fenomeno questo notissimo: l’evasione fiscale in Italia è enorme e viene essenzialmente dalle classi dei lavoratori autonomi e degli imprenditori le cui dichiarazioni sono in maggioranza evasive31, che da tempo immemorabile denunciano redditi inferiori a quelli degli operai32 per non parlare dell’enorme evasione dell’IVA33. Ciò che però voglio rilevare è che questa tolleranza non ha solo il significato di uno scambio politico, voto contro evasione, ma anche il significato di un sostegno economico consistentissimo per i redditi di capitale, di cui godono tendenzialmente tutti i capitalisti, dai grandissimi ai piccoli e medi imprenditori. Quanto poi al Mezzogiorno la DC inaugurerà una nuova politica che non risolverà la “questione meridionale” ma permetterà al Sud di passare da un sottosviluppo stagnante ad un “sottosviluppo dinamico”, in cui il PIL procapite cresce notevolmente anche se a ritmi inferiori al Centro-Nord34. Non meno rilevante è la politica nel campo dell’occupazione dove il mercato del lavoro verrà tenuto in piedi grazie alla crescita dell’occupazione nella PA35, che non è un fenomeno solo clientelare come si dice superficialmente, ma una tendenza propria del neocapitalismo: in USA il piano di riassorbimento dei 5,3 milioni di lavoratori “liberati” dalla automazione dei trasporti, ne prevedeva il recupero nell’area pubblica e semipubblica, sempre in USA il 25% dei posti di lavoro creati nel periodo 1950-65 è nella PA36 , tale tendenza si accentua tra il 1958 e il 1963, quando ben 2,8 milioni di posti di lavoro su 4,3 milioni verranno creati nel settore pubblico o semipubblico37; in Giappone nel periodo 1948-68 la produttività nell’industria crescerà del 100% e negli uffici solo del 4%38, ciò significa che negli uffici (terziario pubblico e privato) si opera con criteri labour intensive che controbilanciano il carattere capital intensive dell’industria. Ma è tutto il capitalismo avanzato che si muove in questa direzione: i ricercatori dell’ILO parlando di un settore (quello della PA) out market perché non risponde ad una logica di profitto ed assume anche in presenza di crisi, fungendo da spugna della disoccupazione, ciò fino alla recessione del 1973-75 inclusa39. In Italia avviene lo stesso come si diceva: in particolare negli anni ’70, che sono anni di crisi e di esplosione della disoccupazione, la PA aumenta i suoi dipendenti del 15,5% (da 3.078.000 a 3.558.000) nel periodo 1973-7740. Dopo, la crisi fiscale dello Stato impedirà di compiere questa funzione di spugna e la situazione occupazionale peggiorerà nettamente. L’assistenzialismo avrà i suoi limiti ma è di gran lunga migliore dell’assenza di qualsiasi politica occupazionale come stiamo sperimentando da trent’anni. Infine il problema del sistema pensionistico-previdenziale su cui sono fioccate le accuse di clientelismo e questo è vero ma è solo una verità molto parziale. Si trattava in realtà di sussidi di disoccupazione mascherati41 che permettevano a larga parte della popolazione di sbarcare il lunario e che si traducevano in richiesta di consumi e quindi in sostegno all’economia. Un sostegno rilevante, infatti: “Per l’intera economia il numero dei pensionati è passato da 11,1 milioni contro 18,8 di occupati del 1968 a 16,3 milioni di pensionati contro 19 milioni di occupati nel 1975. In tutto il periodo si sono create 23 pensioni in più contro ogni nuovo occupato in più”42. Clientelismo certo ma anche sostegno all’economia: il miracolo è finito, la crisi esplode pesantemente (recessione del 1973-75) e il numero delle pensioni si impenna43. Keynes diceva che occorre pagare un reddito anche a lavoratori che fanno buchi per terra per poi riempirli, che è un modo per dire che l’assistenzialismo è di gran lunga preferibile al nullismo, consistente nel sedersi sulla riva del fiume in attesa che arrivi la ripresa dell’economia che risolva spontaneamente i problemi sul tappeto, come fece il presidente Hoover nel 1929-32 con risultati non proprio felici. La DC utilizzò in modo improprio il sistema previdenziale per realizzare una sorta “di reddito di cittadinanza” mascherato per milioni di italiani, non si chiese loro di fare buche per terra per poi riempirle, ma si disse che erano ciechi anche se vedevano , che erano storpi anche se potevano correre una maratona, o che soffrivano di postumi per una operazione alla prostata anche se erano donne (la cd. prostata femminile). Oggi le pensioni si tagliano, ogni governo usa i pensionati come bancomat, e i consumi ristagnato in coma profondo, mai come in questo caso si potrebbe dire si stava meglio quando si stava peggio. Sulla DC non vanno dati giudizi moralistici: nel capitalismo l’evasione fiscale, la corruzione e il clientelismo sono fenomeni normali44, l’importante è capire se , malgrado la corruzione o addirittura, attraverso la corruzione stessa il sistema sia capace di funzionare. Con la DC, nel periodo 1945-70 il sistema ha funzionato con tutte le contraddizioni e le ingiustizie del capitalismo, ma ha funzionato, pensare che questo sarebbe accaduto senza la mole enorme di iniziative messe in cantiere dalla DC (europeismo, nuovo meridionalismo, sostegno al grande capitale ed in forma diversa alla PMI, uso spregiudicato della PA e del sistema pensionistico per sostenere occupazione e consumi) significa credere che la storia possa procedere attraverso i miracoli dei maghi dell’Oriente. Inoltre i successi della politica economica della DC permisero di ampliare il consenso sociale al sistema: nacquero sindacati diversi dalla CGIL e alternativi ad essa, il PSI al congresso di Torino (1955) lanciò la politica del dialogo con i cattolici confermata a Venezia (1957) mentre l’anno prima Nenni e Saragat riprendono i contatti: sono le prove per il governo di centro sinistra degli anni ’60 che isolerà il PCI e creerà in quel partito un nervosismo estremo dovuto al timore di un isolamento senza prospettive all’opposizione. Da tale isolamento il Pci tentò di uscire con manovre assurde e spregiudicate come il “milazzismo” in Sicilia e cioè l’appoggio alla giunta Milazzo, dirigente locale della DC che aveva creato un suo partito e che governò con l’appoggio dei monarco-fascisti (notoriamente contigui con la mafia) e della sinistra45. Una soluzione disperata per uscire dall’isolamento che finì presto nel nulla come era prevedibile, ma che era il segno di quanto fosse egemonica ed espansiva la politica della DC che, grazie al successo del miracolo economico era in grado di isolare e neutralizzare a sinistra il PCI46. B) La politica economica del PCI (1945-1970) Da anni si dice che la DC aveva il monopolio del governo e il PCI quello dell’opposizione (negli anni del dopoguerra fino al 1970)47. Ma quale era la politica che il PCI propone in alternativa a quella vincente della DC? Si trattava, è bene dirlo, di una mediocre politica socialdemocratica che mirava ad ottenere alcuni limitati vantaggi per i gruppi sociali cui il PCI si rivolgeva in prevalenza: un po’ più di salario e di pensioni, un po’ più di occupazione, il 60% del prodotto al mezzadro invece del 50% etc.48, senza però mettere in discussione il carattere capitalistico degli anni della ricostruzione, anche se si chiederà in un primo tempo la nazionalizzazione di alcuni grandi gruppi monopolistici, richiesta che poi nei documenti e nelle proposto della PCI successive verrà tacitamente abbandonata. Il quadro complessivo del capitalismo è comunque accettato fin dai primi documenti del 1945: in uno di essi, intitolato emblematicamente “Ricostruire” Togliatti dice esplicitamente che non dobbiamo fare come in Russia: “Se dicessimo di volere oggi un piano economico generale come condizione per la ricostruzione, sono convito che porremmo una rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare. Voglio dire che, anche se fossimo oggi al potere da soli, faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata perché sappiamo che vi sono compiti a cui sentiamo che la società italiana non è ancora matura”. E ancora: “L’obiezione più radicale che è stata fatta a questa nostra linea è quella del compagno che ha detto che noi siamo degli utopisti perché crediamo che sia possibile in una società capitalistica imporre una politica di solidarietà nazionale. E questo in linea di astratta dottrina è giusto, ma in pratica grandi risultati si possono ottenere purché lo si voglia”49. Quali sono questi grandi risultati non è chiaro, si accenna solo a “limitare l’assoluta libertà speculativa” dell’imprenditore privato” come sarebbe avvenuto in Inghilterra negli anni di guerra, che è rimasta pur sempre un paese capitalista50. In sintesi accettazione del capitalismo e dell’iniziativa privata indispensabile alla ricostruzione, limitare solo l’assoluta “libertà speculativa” e quanto ai problemi si supereranno “purché si voglia”, il che è generico e semplicistico51. Un preludio alquanto deprimente che evidenzia un riformismo estremamente cauto, privo di grosse idee e vago sulle soluzioni, e si può dire che questa continuerà ad essere la linea del Pci che appoggerà il piano del lavoro proposto dalla CGIL proposto qualche anno dopo52 e di cui Luciano Lama dirà, autocriticamente, che era solo un palliativo assistenziale per aiutare la povera gente del Sud53. Lo stesso discorso vale per la politica meridionalista centrata sulla difesa della piccola impresa agricola diretto coltivatrice, arcaica e arretrata54. Tuttavia nel corso degli anni la linea del Pci si arricchirà della parola d’ordine della “pianificazione democratica” che , si badi, è sempre la pianificazione o programmazione di una società che rimane capitalistica, dirà infatti Enrico Berlinguer: “Noi non vogliamo seguire i modelli del socialismo sinora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale che l’iniziativa privata individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia uno spazio e conservi un ruolo importante”55. L’intervistatore (Scalfari) osserva che questa è una posizione socialdemocratica e Berlinguer non lo nega, ma dice solo che mentre la socialdemocrazia fa gli interessi degli operai nel capitalismo il PCI pensa anche agli strati sociali emarginati56, tuttavia Berlinguer non nega anzi ammette implicitamente un elemento comune di fondo con la socialdemocrazia: il collocarsi cioè all’interno del sistema capitalistico che è accettato. Ma l’impostazione del PCI sulla programmazione democratica risulta chiara nel documento di critica al piano Pieraccini che si colloca in un’ottica tutta interna a quella del piano Pieraccini e cioè l’ottica di una programmazione indicativa del tutto priva di strumenti per operare; infatti nel documento approvato dalla direzione del PCI nel 1966 si chiede semplicemente alle grandi SPA di comunicare agli organi della programmazione i propri piani di investimento, ma esse rimangono sovrane nelle scelte che intendono operare, si parla inoltre di controllo sui monopoli senza indicare concretamente come realizzare questo controllo posto che dalla fine dell’ 800 in poi tutte le leggi antimonopolio sono clamorosamente fallite57. Quando poi il PCI passa dalle indicazioni generiche ai progetti di legge concreti, partorisce un progetto sulla programmazione comprensoriale indicativo ed inconsistente ed un progetto sulla riforma della PP.SS. farraginoso ed impraticabile58. In altre parole il PCI vorrebbe programmare il capitalismo ma non sa come fare e propone velleitariamente una programmazione che colpisca sprechi, parassitismo e rendite59, ma non il profitto, dimenticando che profitto e rendita sono inscindibilmente connessi nel capitalismo italiano (e non solo) per cui è impossibile colpire l’una senza colpire l’altro60. Inoltre il PCI non affronta, nei suoi documenti, il problema di come possa programmarsi un capitalismo integrato in un’area sovranazionale attraverso provvedimenti essenzialmente nazionali, problema posto drammaticamente dalla dichiarazione di Guido Carli del 1971 che abbiamo prima citato. A tal proposito sul problema del MEC e della integrazione dell’Italia in uno spazio economico sopranazionale il PCI è del tutto disarmato: prima si oppone all’entrata dell’Italia nel MEC , poi chiede la sospensione dei trattati europei, poi una diversa politica europea, che si opponga al prepotere delle multinazionali per la quale si propone un’alleanza con tutte le forze democratiche, senza chiarire né gli obiettivi né le modalità attuative di una simile alleanza61. Anche nel campo delle relazioni industriali il PCI è assente o carente: le grandi lotte che dal ’68 in poi scuotono la struttura della fabbrica capitalistica sono sostanzialmente ignorate nell’antologia dei documenti che abbiamo più volte citato. C’è , è vero, un progetto di Statuto dei lavoratori elaborato dai gruppi parlamentari del partito e che porta le firme di due grandi come Terracini e Li Causi62, ma purtroppo il contenuto non è all’altezza delle firme. Il progetto, infatti, è ispirato ad una logica arcaica di difesa dei diritti individuali dei lavoratori, cosa che in mancanza di un’organizzazione sindacale forte, può essere vanificata dalle imprese capitalistiche, bisognava perciò rafforzare gli strumenti di autotutela collettiva dei lavoratori sul posto di lavoro, ciò che avvenne ma essenzialmente perché prevalse la spinta delle lotte operaie di quegli anni, che imposero al parlamento una legge che fu la più avanzata dell’occidente capitalistico63. Anche qui il PCI è alla coda degli eventi. A questo punto possiamo dare un giudizio su ciò che il PCI è stato dal 1945 in poi e possiamo dire che il Pci non è mai stato un partito rivoluzionario ma un partito moderatamente riformista, il brutto anatroccolo della destra socialdemocratica europea travestito da comunista. Il riformismo del PCI è quanto mai minimalista si può dire che la rivendicazione del 60% del prodotto ai mezzadri ben esprime quello che il PCI è stato: nei suoi documenti e nella sua azione non c’è niente della “grandeur” riformista del piano Beveridge , il paragone tra il riformismo di Togliatti e quello dei laburisti inglesi è improponibile come una partita di calcio tra il Giulianova Marche e il Barcellona. Ma anche il rapporto con il vecchio PSI dagli anni dal 1892 al 1914 è umiliante per il PCI. I socialisti affrontarono dal 1892 al 1900 battaglie memorabili contrassegnate da eccidi terribili (quello di Bava Beccaris a Milano causò 80 morti e 450 feriti secondo le stime ufficiali che si considerano inferiori alla realtà), leggi eccezionali , camere del lavoro sciolte dai prefetti etc.64. Alla fine di questo periodo nel 1900, Giolitti rispose alla richiesta di un deputato socialista, che non userà l’esercito per sostituire i braccianti in sciopero perché sarebbe stato impopolare ed inutile, dopo 8 anni di lacrime e sangue i socialisti avevano ottenuto il diritto all’organizzazione politica e sindacale, alla contrattazione collettiva, allo sciopero65 e negli anni seguenti le lotte continuarono e si arrivò alla decisione che in caso di eccidi operai lo sciopero sarebbe scattato automaticamente senza bisogno di essere proclamato66. La storia del PCI invece è, dopo il 1948, la storia di una forza essenzialmente parlamentare, con l’eccezione delle lotte contro la mafia in Sicilia di cui abbiamo parlato67. Le grandi vittorie ottenute dopo il 1968 (Statuto dei lavoratori e processo del lavoro) avvengono al di fuori del PCI e in un primo tempo anche al di fuori del sindacato, il movimento dei delegati operai nasce infatti, al di fuori del movimento operaio ufficiale ed in forte critica nei suoi confronti68. C) Le cause della socialdemocratizzazione del PCI Il Pci , dunque, è un partito socialdemocratico come tanti e qui si pone il problema di spiegare la sua involuzione, dopo anni di lotta dura contro il fascismo e il nazismo, verso un approdo socialdemocratico quanto mai moderato e parlamentare. Per molti la scelta moderata era per così dire necessitata dall’occupazione militare degli alleati e dagli accordi di Yalta del 1945, che ci relegavano nell’area dominata dall’America, eravamo, cioè, un paese a sovranità limitata69, come si dirà negli anni ’70 quando verrà fuori la vicenda di “stay behind”. Ora che l’America interferisse nelle vicende italiane è indubbio basti pensare alla signora Luce (ambasciatrice negli anni ’50) e alle sue interferenze: il signor Colby direttore della CIA ha raccontato nelle sue memorie quello che fece in quegli anni come capo della sezione italiana della CIA stessa, tra l’altro siccome nel 1952 sembrava possibile una vittoria dei comunisti alla elezioni provinciali per Roma dove presentavano un noto penalista (il prof. Sotgiu) come candidato, egli organizzò uno scandalo detto dei “balletti rosa” per spezzare le gambe alla candidatura del suddetto professore. La cosa riuscì in pieno, anche se si trattava di una montatura, e ciò placò le ansie di papa Pio XII giustamente preoccupato dal fatto che la capitale della cristianità potesse avere un presidente di provincia rosso70. L’America interferiva senza ritegno alcuno: in Grecia la guerriglia comunista fu stroncata, il regime di Arbenz (Guatemala) fu abbattuto , il presidente brasiliano Vargas spinto al suicidio, Peron fu defenestrato ed esiliato, e poi il Vietnam, il golpe anti-Allende in Cile nel 1973 e quello dei militari argentini nel 1977. Per gli USA la libertà è la libertà di fare gli affari propri: un presidente USA non proprio noto per essere un genio, Calvin Coolidge, disse una volta “businnes of America are businnes”, la democrazia americana è una democrazia degli affari (propri). Epperò se questo è vero è anche vero che la logica di Yalta è stata bucata per un numero di volte eguale o superiore a quello in cui è stata affermata. Ad esempio la Jugoslavia non rientrava nella sfera sovietica essendovi un accordo tra Churchil e Stalin per un’influenza occidentale e sovietica al 50%71, ma la vicenda si concluse con la vittoria di Tito che pagò con la scomunica la propria disobbedienza a Stalin. Ancor più grave, per le dimensioni del paese, fu la vicenda cinese che Yalta non assegnò all’URSS, anzi nell’agosto del 1945 vi fu un trattato tra la Cina nazionalista e l’URSS in cui quest’ultima riconosceva la prima e le riconsegnava la Cina settentrionale occupata dai sovietici dopo il crollo giapponese72. Stalin non voleva la rivoluzione in Cina, una rivoluzione che per le sue dimensioni avrebbe messo in discussione il suo predominio sul movimento comunista, quanto a Mao finse di obbedire ma disobbedì e a vittoria conseguita non poté essere espulso dal movimento comunista internazionale come Tito perché la Cina era troppo grande per essere trattata come la Jugoslavia. Peraltro il rancore di Mao contro Stalin esplose negli anni ’60 durante la rivoluzione culturale con una serie feroce di critiche cui le guardie rosse sottoposero l’operato di Stalin. Ancora: a Cuba trionfa una rivoluzione che si dice socialista, Peron esiliato ritorna e con lui torna il peronismo tuttora esistente, in Vietnam l’America rimedia una sconfitta clamorosa e oggi proliferano in America latina governi che non amano gli USA e non ne sono riamati. Un noto sociologo conservatore come il prof. Lipset teorizza che i comunisti estranei alla cultura occidentale non possono vincere le elezioni e partecipare ad un governo nei paesi occidentali73, epperò nel 1981 col programma comune delle sinistre francesi il PCF è al governo in un paese di grande importanza come la Francia. Gli USA, dunque, sono potenti ma non onnipotenti, la logica di Yalta è stata confermata quanto smentita, era, perciò, un condizionamento reale ma non infrangibile. Si pone dunque il problema di capire il perché il PCI di Togliatti non la eluse e in verità non ci provò nemmeno. Per capirlo dobbiamo cercare di comprendere quali fossero i rapporti di forza interni alla società italiana nel 1945, ma prima di fare questa valutazione dobbiamo riconsiderare il brano di Marx prima citato sul fatto che nei paesi capitalistico-industriali la classe operaia sia destinata ad essere una minoranza, ciò che era vero già nell’Inghilterra del 186174. Kautzky, che ben conosceva questo brano di Marx (fu ottimo curatore dell’edizione postuma dell’opera in questione), sosterrà che i partiti operai devono venire a patti e conquistare i consensi delle classi medie e possono farlo in un solo modo: riconoscendo e legittimando i privilegi che la società borghese concede a queste classi75, ciò però implica come corollario di riconoscere la società che produce questi privilegi e la stratificazione sociale che ne consegue. Del resto se sei organicamente una minoranza e fai una politica aggressiva nei confronti della maggioranza, che conta sull’apparato repressivo statale, vai incontro ad una sicura sconfitta, sicché per diventare maggioranza devi conquistare altri gruppi sociali facendo loro grosse concessioni, che concernono i vantaggi che essi ricevono da questa struttura sociale. Si delinea così un partito che mira a ottenere concreti vantaggi per i propri elettori all’interno del sistema sociale esistente e che non ne mette in discussione i caratteri fondamentali: un partito in cui domina una prassi parlamentaristica ed un sindacato, collegato al partito, che si specializza nella vendita della forza lavoro alle migliori condizioni ottenibili sul mercato, che è pur sempre il mercato capitalistico, un partito di parlamentari e sindacalisti organicamente inserito nell’attuale sistema sociale. Tornando adesso al PCI ed a Togliatti, che sbarca a Salerno nel 1944 e sostiene che il PCI deve diventare un partito meno proletario e più popolare76, si pone per essi il problema di aprirsi ai ceti medi: la classe operaia infatti è una forza decisamente minoritaria all’interno del paese77, per cui una politica delle alleanze diventa assolutamente necessaria. Questa esigenza è evidente nel celebre discorso che Togliatti tiene a Reggio Emilia nel 1945 dove affronta il tema dei ceti medi osservando che l’Italia è piena di ceti medi quali i piccoli proprietari agricoli, i coloni, i mezzadri, gli artigiani, i commercianti, i piccoli industriali, gli impiegati etc. essi fanno parte delle “masse lavoratrici” e la Pci deve avere la capacità di realizzare l’unità delle “masse lavoratrici”78. Qui Togliatti fa un passo a destra rispetto a Kautzky per cui i ceti medi sono un’altra classe rispetto agli operai, mentre Togliatti tende ad assorbire i ceti medi all’interno delle “masse della popolazione lavoratrice” assimilandole in sostanza alla classe operaia. Le masse lavoratrici sono formate da coloro che vivono prevalentemente del proprio lavoro; ora è indubbio che vi possono essere dei punti di contatto tra impiegati ed operai, ad esempio perciò che concerne la difesa di salari e stipendi dall’inflazione, ma ciò non toglie che esistono anche enormi differenze da altri punti di vista: i 40.000 della marcia dei quadri FIAT del 1980 erano impiegati della FIAT a reddito fisso ma non erano e non si sentivano operai, erano piuttosto i rappresentanti del potere capitalistico presso gli operai ed assimilarli ad essi era una impresa improba. Lo stesso dicasi per i piccoli artigiani, commercianti e gli industriali, che fanno parte del grande popolo delle partite IVA che realizza, come abbiamo visto, un’evasione fiscale di massa i cui costi ricadono in larga misura sugli operai e i pensionati. Quanto agli statali è appena il caso di notare che statale era anche il generale Bava Beccaris che prendeva a cannonate gli operai milanesi durante uno sciopero, lavoratore dipendente era anche l’ing. Valletta collaboratore principale del senatore Agnelli nella gestione della FIAT e che io avrei qualche difficoltà ad assimilare agli operai, che notoriamente non lo amavano. Lo stesso discorso può farsi per la grande massa dei coloni e dei mezzadri, cui Togliatti dedica una particolare attenzione nei confronti dei quali la sua analisi si pone in chiaro contrasto con quella fatta negli anni dell’esilio da un altro comunista, che si chiamava Giuseppe Di Vittorio: quest’ultimo analizzava la politica del fascismo evidenziando come essa mirasse a creare al posto dei braccianti una piccola borghesia stracciona di coloni e mezzadri attaccati al sogno della piccola proprietà e vaccinati dal bacillo della lotta di classe che caratterizzava i braccianti79. In sostanza Togliatti cancellava le differenze, allora molto rilevanti, tra operai e ceti o classi medie per delineare un partito, il PCI, di carattere ecumenico molto simile alla DC perché si rivolgeva potenzialmente a quasi tutti, ne erano esclusi soltanto una piccola minoranza che viene spesso definita nei documenti di quell’epoca col termine “ceti parassitari”, ma il PCI appare in sostanza un partito di sinistra che marcia verso il centro; tuttavia questa scelta di carattere socialdemocratico trovava il suo fondamento nella debolezza sociale della classe operaia che Togliatti aveva ben capito, una debolezza aggravata dal fatto che la forza della classe operaia era assai mal distribuita: c’erano zone del paese come il meridione, le isole, il Nord-Est in cui la forza della sinistra era estremamente fragile, Milano e Torino erano grandi città operaie ma anche città di ceti medi, inoltre la Resistenza in Italia non era stata opera solo del PCI ma anche di altre forze e l’apparato repressivo dello Stato era di gran lunga superiore all’apparato militare che il PCI aveva realizzato durante la lotta di Resistenza e che nei primi anni del dopoguerra era stato in qualche modo conservato80. Quanto all’URSS era uscita dissanguata dalla seconda guerra mondiale e fino al settembre 1949 non disponeva dell’arma atomica per cui era impensabile che potesse fornire un appoggio, ancorché indiretto, ad un’eventuale ipotesi rivoluzionaria in Italia. In questo quadro si verifica nel luglio del 1948 il famoso attentato a Togliatti, che portò a una forte reazione popolare in Italia e ad una situazione preinsurrezionale in alcune zone d’Italia come Genova o la Toscana81, tuttavia una rivoluzione non si può fare solo a Genova o alle pendici del monte Amiata, i rapporti di forza erano quelli sopra indicati e Togliatti quando fermò, dal proprio letto di ospedale, la spinta verso l’insurrezione compì un gesto oculato: se si fosse andati allo scontro si sarebbe finiti in una mattanza, con il movimento operaio nello scomodo ruolo del “matado”. Non critico quindi Togliatti per quella scelta ma non posso non rilevarne le conseguenze storiche che essa ebbe: il PCI si trasformò definitivamente in un partito parlamentarista di destra socialdemocratica che praticò una mediocre politica riformista e che diventò un partito aperto ad intellettuali borghesi che aderivano ad esso per compiere una carriera parlamentare quanto mai tradizionale. Quando Percy Allum analizzò la struttura del partito comunista a Napoli nel dopoguerra evidenziò che la sua politica e la sua prassi non erano diverse da quelle della DC e che al PCI e alla DC gli intellettuali della borghesia aderivano con un solo fine: fare carriera82. Ciò che io condanno del PCI non è tanto la scelta socialdemocratica ma il fatto che tale scelta fu di livello bassissimo: in un partito come quello laburista dei primi anni del dopoguerra uno come me avrebbe potuto militare sia pure come critico di sinistra, nel PCI assolutamente no, sia perché il suo riformismo era miserabile, come abbiamo visto, sia perché aveva una struttura stalinista e autoritaria che impediva ogni dibattito critico. Inoltre la pretesa di far passare come rivoluzionaria una politica di bassissimo livello riformista era disgustosa, nulla è più ridicolo di un riformista di bassissimo livello che giochi a fare il rivoluzionario nei comizi domenicali. La cosa migliore che un simile partito abbia potuto fare nella sua vita è stata quella di crepare. D) I pretesi limiti della consociazione DC - PCI La consociazione tra DC che esercita il potere e il PCI che gestisce l’opposizione è stata criticata a vario titolo. Si è detto da molti che la nostra era una democrazia bloccata perché mancherebbe l’alternanza dei ruoli e cioè la possibilità per l’opposizione di diventare governo. In realtà questa alternanza è una caratteristica normale ma non essenziale delle democrazie liberali: la socialdemocrazia svedese ha avuto una longevità al potere non inferiore a quella della nostra DC e nessuno la critica per questo, così come nessuno critica Roosevelt per aver vinto quattro volte di seguito le elezioni presidenziali americane. La validità di un sistema politico si valuta dal funzionamento e dai risultati: l’Italia del 1945-70 è il paese della ricostruzione e del miracolo economico, in cui la DC ha avuto un ruolo centrale e fondamentale, non si vede perché il PCI avrebbe dovuta sostituirla al governo in omaggio al principio astratto dell’alternanza. L’altra critica, in voga negli anni ’70, era quella della confusione dei ruoli: un politologo ha rilevato, analizzando la produzione legislativa del periodo 1948-68 che spesso i provvedimenti proposti dall’opposizione erano approvati dalla DC e viceversa, inoltre frequentissimo era lo scambio di emendamenti tra governo ed opposizione83. Ciò avrebbe determinato un’incertezza su chi governasse veramente, tuttavia è facile osservare che questa obiezione avrebbe avuto un senso se il PCI avesse fatto veramente una politica alternativa al sistema, siccome, però, il PCI il sistema lo accettava in pieno e la sua logica aveva moltissimi punti di contatto con quella della DC, non si vede per quale motivo non vi dovesse essere uno scambio a livello di produzione legislativa. Ciò che viene considerato un elemento di debolezza in realtà era un elemento di forza perché era la DC che egemonizzava il PCI. Inoltre nelle democrazie liberali è normale una contrattazione tra governo ed opposizione: in USA , la più grande delle democrazie liberali, è normale che nelle elezioni di mezzo tempo il partito del presidente perda il controllo di uno dei due rami del Congresso per cui tra l’amministrazione e l’opposizione diventa obbligata una sorta di contrattazione permanente. Non si capisce poi per quale motivo una democrazia liberale in cui vi sia un dialogo tra governo ed opposizione sia più debole di una democrazia liberale in cui vi sia un conflitto permanente tra chi governa e chi si oppone. La verità è che negli anni che vanno al 1945 al 1970 il sistema politico italiano ha funzionato e ciò è stato anche nella difficilissima legislatura nel 1953-58, che presentava un parlamento ingovernabile sulla carta, ma in cui la DC spostandosi ora leggermente a destra , ora leggermente a sinistra, riuscì a governare compiendo scelte importantissime dai trattati di Roma al riassetto delle PP.SS., il che significa che quando hai un’ipotesi di sviluppo puoi governare, i guai vengono quando non hai ipotesi di sviluppo e allora anche con maggioranze oceaniche, come è avvenuto in Italia negli ultimi anni con Berlusconi, non riesci a governare84. 4) Atto primo scena seconda. La fine del miracolo economico ed i tremendi anni ’70. La mutazione genetica del PCI Nel 1970 finisce il miracolo economico italiano ed esplode il debito pubblico85, nell’estate di quell’anno viene varato un DL che passerà alla storia col nome di “decretone”, che contiene le prime misure per le quali si comincerà a parlare di “austerità”. Ma di lì a poco la decelerazione delle economie capitalistiche si fa mondiale: “Il tasso di crescita medio annuo dei paesi dell’OCSE scende al 5,2% del periodo 1961 – 69 al 3,9% del 1970-79, al 2,6% del 1980-89, al 2,1% del 1990-96”86. dA SINISTRAINRETE.INFO
Posted on: Fri, 25 Oct 2013 09:01:57 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015