Ci scrive Løve: Ora, quella tratteggiata qui da Bernardo, in - TopicsExpress



          

Ci scrive Løve: Ora, quella tratteggiata qui da Bernardo, in questo settimo capitolo del De diligendo Deo, è una fenomenologia del desiderio (appetitus). Anzitutto, dice Bernardo (VII, 18), ogni ragione ben dotata appetisce, secondo natura, le cose di maggior valore (potiora) e non si contenta di nessuna cosa preferendo ciò di cui difetta. Così colui che è congiunto a una bella donna volgerà lo sguardo e l’animo a una più bella. Poi questo appetitus è insaziabile, non est finis. All’esca degli oblectamenta abbocca l’animo vagabondo. Ma qui bisogna intendersi: non v’è cosa che lenisca quest’ansia cupida, famelica, divoratrice. E se nessuno potrà mai ottenere tutte le cose (universa), quand’anche le ottenesse non ne sarebbe sazio; perché le cose del mondo non sono la (il) fine del desiderio. Fine (finis beatus) del desiderio è solo l’auctor degli universa, Dio (VII, 19). La delectatio speciei, dello spettacolo, dell’apparenza, delle figure, dei fantasmi e delle idee (species sta anche per l’idea), consuma, estingue corrompe il desiderio per vederlo risorgere, come l’araba fenicie dalle sue ceneri, un po’ più in là: vacuus labor. Solo in Dio il desiderio è consummatus, compiuto, perfezionato: «Desiderium ipse consummat» (VII, 22). Eppure non vi sarebbe nulla di più naturale di questo appetito che, saziato, riapparisce, di questo ciclo, di questa regolarità, di questo τέλος (nel suo senso più proprio di ciclo della φύσις). La perfezione, la consummatio, abiterebbe piuttosto questo circolo dell’appetito, del desiderio animale. In quest’ultimo la cattura immaginaria, per dirla con Lacan, è assoluta. Tuttavia per l’uomo è un po’ differente. Qui sulla soglia tra l’animalitas e l’humanitas, sorpreso in limine, l’uomo si fa uomo perché «s’y repère», si situa, si scopre e si nasconde, si segnala, fa dei segni e, dice ancora Lacan, gioca di maschera (masque). Con ciò l’uomo ha già spezzato il cerchio e quella sua inutile perfezione (il τέλος); collocando dei segni traccia un cammino che, tendenzialmente, evita le curve; dietro un albero fiuta il momento opportuno, il καιρός. E così, situandosi e disallontanandosi, giocando a rimpiattino (o di maschera), divenendo altro per desiderio, per amore, raggiunge il suo σκοπός (skopós). (Ho citato sopra Lacan, ma avrei potuto citare a buon diritto Aristotele). Bernardo lo sa bene (VII, 18), il circulus percorso dagli uomini, dagli iniqui, è piuttosto una via lata o impervia (devia), una via di scopi, di mire, di mete parziali. Apprezzabile è che, per via, la volontà umana voglia cose sempre migliori, che si appuntisca nella trascelta; e questo, d’altra parte, la distingue dall’appetito animale. Ma Bernardo non può accontentarsi di una volontà umana, di scopi posti da volontà umane; Bernardo vuole lo scopo posto da una volontà onnipotente divina – vuole l’ἔσχατον (l’éschaton). In Dio, l’ho già detto, il desiderio è consummatus, compiuto, lo scopo attuato. In Dio l’uomo quiescit, si acquieta. La quies divina è irrevocabile e insuperabile (VII, 19). Questa quies è il premio, il compenso riservato da Dio a chi vuole il suo scopo (l’ἔσχατον). Ma chi vuole lo scopo di Dio (lo vuole perché) vuole Dio, lo ama, lo desidera e in Lui vuole acquietarsi. La quies, lo scopo e Dio coincidono. Ma come può l’uomo con-formarsi allo scopo di Dio, all’ἔσχατον, all’amore divino? La risposta di Bernardo mette in rilievo la profonda asimmetria dello scambio amoroso: «Deus meus, adiutor meus, diligam te pro dono tuo et modo meo, minus quidem iusto, sed plane non posse meo: qui, etsi quantum debeo non possum, non possum tamen ultra quam possum [Dio mio, mio uditore, ti amerò secondo il tuo dono e il mio modo, meno certamente del giusto, ma chiaramente non meno di quanto è in mio potere: con che, pur se non posso quanto debbo, non posso tuttavia oltre quanto posso» (VI, 16). Questa insufficienza del credente, in ambasce nella tensione di ciò che può e di ciò che dovrebbe, ritma l’attesa dell’ἔσχατον. La Presenza, il Pane, per ora, non sazia. È, in certa misura, inassimilabile. Eppure c’è: promessa, certezza, se vogliamo, di sazietà. Il credente vive la condizione desiderante, appetente, dell’incredulo. In più ha questo: la fede nell’ἔσχατον che lo colloca alla fine o, il che è quasi la stessa cosa, lo fa contemporaneo del Cristo: consolazione che viene dal futuro e dal passato (memoria): «Dei ergo quaerentibus et suspirantibus praesentiam, praesto interim et dulcis memoria est, non tamen qua satientur, sed qua magis esuriant unde satientur [Dunque ai ricercanti e sospiranti, la presenza di Dio è per ora a portata di mano e dolce, non tuttavia per saziarli, ma piuttosto per affamarli onde saziarli]» (IV, 11). Ora, ciò che importa è proprio questo riverbero ‘prepotente’ dell’ἔσχατον sull’esistenza. In virtù di questo riverbero τέλος e σκοπός non sono più gli stessi, smarriscono il loro senso originario. Adesso celebrano il risveglio postremo, la Resurrezione, la quies in Dio; coniugati nell’ἔσχατον consolano l’attesa, addormentano «donec transeat iniquitas [finché non passi l’iniquità]» (IV, 12). © 2013 LØVE EX UNGUE LEONEM
Posted on: Tue, 05 Nov 2013 14:36:36 +0000

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