Crimini partigiani a Palermo Pubblicato da ITALIANO on 05 Aprile - TopicsExpress



          

Crimini partigiani a Palermo Pubblicato da ITALIANO on 05 Aprile 2013. 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 0.00 (0 Voti) I soldati del primo governo del CLN sparano sulla folla che chiede pane e lavoro. E’ una strage: 30 morti e 150 feriti E’ uno degli avvenimenti della storia italiana di cui non si parla mai, ed è stato cancellato anche dalla memoria dei palermitani allora viventi. Non esiste una lapide, una corona di fiori non viene mai posta davanti al portone della Prefettura, in via Maqueda, dove i fucili e le bombe a mano dei soldati del 139° reggimento di fanteria compirono il massacro. Da alcuni giorni era in corso uno stato d’agitazione dei dipendenti comunali che chiedevano di ottenere la concessione di un’indennità di carovita analoga a quella concessa ai dipendenti dello stato, per cercare di far fronte al continuo aumento dei prezzi di tutti i generi di prima necessità, provocato dall’inflazione e dagli speculatori. Uno sciopero indetto per il giorno 18 ottobre 1944 era stato sospeso nell’attesa dei risultati di un incontro con il commissario prefettizio, barone Merlo, ma la risposta di questi era stata negativa: il Comune non aveva soldi. Il giorno 19 quindi una folla di circa 400 dipendenti comunali si era recata in corteo davanti alla Prefettura, in via Maqueda, chiedendo che il Governo di Roma prendesse qualche provvedimento a loro favore. Ai dimostranti si erano presto uniti altri cittadini palermitani, affluiti dai quartieri più poveri del centro storico, in maggioranza donne, ragazzi, bambini. Quella che doveva essere una manifestazione di categoria divenne in pochi istanti una protesta di popolo. La folla gridava le sue pene, le sue sofferenze di anni, al grido di “pane e lavoro”, chiedeva l’aumento dei salari, la lotta al caro vita, e l’intervento delle autorità contro gli speculatori, che provocavano infiniti disagi alle classi a reddito fisso. Quel giorno a Palermo mancavano tutte le autorità più elevate: l’Alto Commissario per la Sicilia Aldisio era a Roma, assenti pure il prefetto ed il questore. Unico in sede era il vice prefetto Pampillonia. Questi si era limitato a richiedere, a scopo precauzionale, la consegna in caserma di circa 400 soldati del 139° Reggimento di Fanteria, Brigata Sabaudia, in servizio d’ordine pubblico. Davanti all’ingrossarsi della folla le forze di polizia che erano di guardia alla Prefettura si ritirarono all’interno chiudendo il portone, ma dalle cronache dei giornali non risulta vi siano stati tentativi d’assalto al palazzo. Non si riuscì nemmeno ad appurare chi avesse richiesto l’intervento dei militari. Una sessantina di questi, al comando di un sottotenente furono fatti salire su due autocarri ed inviati in Via Maqueda. Tutti erano armati di moschetto 91, 21 di loro erano stati forniti di un caricatore e di due bombe a mano di tipo non precisato, gli altri 35 di due caricatori. Quando furono vicini al luogo della manifestazione, l’ufficiale ordinò di caricare le armi. Al momento in cui il primo autocarro s’inoltrò in mezzo alla folla, si udì un’esplosione presso il primo automezzo, cui seguì da parte di militari l’apertura generale del fuoco. Nessuna inchiesta riuscì a stabilire chi avesse sparato per primo, né se la prima esplosione fosse stata provocata dai dimostranti. Risultò però che 11 militari erano stati feriti da schegge di bombe a mano, probabilmente le stesse che avevano lanciato, considerando la strettezza degli spazi in cui operavano. La folla si disperse subito nelle stradine circostanti e nei portoni, e sul selciato rimasero a decine i morti ed i feriti. La popolazione si diede da fare adagiando i morti ed i feriti su tavole, scale, carrettini a mano ed altri mezzi di fortuna per trasportarli verso gli ospedali ed i posti di pronto soccorso. Le autorità fecero porre in azione gli idranti, e i getti d’acqua cancellarono le tracce sanguinose del massacro compiuto. Un primo immediato bilancio fu di 16 morti e di un centinaio di feriti, di cui 18 gravissimi, ma alla fine i morti risultarono 30, e i feriti 150 (inchiesta del CLN). La maggior parte dei morti e dei feriti era costituita da minori, impressionante è l’elenco riportato il giorno 20 da “Il Giornale di Sicilia”: Frannotta Francesco di anni 10, ragazzo non identificato dell’età apparente di anni 10, Cordone Domenico di anni 15… Damiani Michele di anni 12… Di Gregorio Andrea di anni 15… bambino non identificato dell’età apparente di anni 7 … Balistreri Gaetano anni 11… Bisanti Oreste anni 11… Coppola Pietro anni 11… Esposito Bartolomeo anni 16… Romano Simone anni 12… Ciamba Giuseppe anni 10… Pierano N. anni 8… Reina Luigi anni 11… Nuccio Salvatore anni 16… Rotondi Dorotea anni 10… Morici Gioacchino anni 13… e così via. Non sembrerebbe una folla particolarmente pericolosa quella che si accalcava intorno agli autocarri dei militari, e su cui certamente si era diretto il fuoco dei soldati, i quali, dopo la sparatoria, si erano a loro volta chiusi nella Prefettura. Considerando il numero dei colpi a disposizione (91 caricatori da 6 colpi uguale a 546 colpi, ma probabilmente nessuno dei 35 militari che disponeva di due caricatori usò il secondo, perché la gente nel frattempo era fuggita, quindi il numero dei colpi esplosi realmente dovrebbe essere stato intorno ai 300) il risultato dei 30 morti e 150 feriti è indicativo di una sparatoria ravvicinata e mirata per colpire. Proprio come prescritto dalla circolare Roatta del 26 Luglio 1943 riconfermata integralmente il 31 agosto 1944 dal generale Taddeo Orlando. Ma di questo, naturalmente, nessuno fece parola. Ed iniziò invece subito la danza delle accuse reciproche: da Roma Aldisio accusò i manifestanti di avere assalito dei camion di farina che attraversavano la città, cosa che nessun’altra fonte riporta, se non citando l’Aldisio stesso. Il CLN accusò i separatisti ed i fascisti, chiedendo un’accentuazione dell’epurazione, i repubblicani accusarono i monarchici, il Risorgimento Liberale “la folla ingrossata da elementi estranei provenienti dai bassi strati della popolazione”, i separatisti tutti gli altri partiti, l’Avanti chiedeva di “colpire spietatamente i separatisti…. Che armano la mano dei sicari per provocare le repressioni sanguinose”. La Voce Socialista se la prese con i lavoratori in sciopero che gridavano, si agitavano e occupavano le strade, accusandoli di incoscienza e mancata organizzazione. Fu insomma il solito spettacolo cui assistiamo da allora. Altri erano i commenti della popolazione che emergono dai dati raccolti dagli uffici della censura nelle lettere dei cittadini palermitani, riportate nel volume di Sandro Attanasio “Gli anni della rabbia, Sicilia 1943 – 1947” (Ed. Mursia, Milano, 1984) da cui abbiamo ricavato la maggior parte delle notizie qui riportate. Tra le tante vi riportiamo quella della signora Teresa Morvillo, Via Nigra 7, Palermo, che così scriveva il 21 ottobre, a Franca Morello, via Crati 10, Roma: “…noi dalle finestre dell’ufficio abbiamo assistito ad una fase di esso… se tu avessi visto! La maggior parte era costituita da bambini dai 10 ai 12 anni! C’erano giovanotti imberbi, qualcuno più grande… gridando si sono messi a fare gran baccano dovunque: insomma sciopero. Ma nessun bastone o arma era nelle loro mani… il gruppo più grosso si trovava a reclamare pane e pasta dinnanzi il Palazzo della Prefettura, nient’altro che questo faceva. Quando meno se l’aspettava ha visto arrivare un camion con un gruppo di badogliani, sardignoli, i quali, non si sa perché, appena giunti in mezzo ai dimostranti hanno buttato bombe a mano e sparato con fucili mitragliatori, Hanno fatto circa duecento tra morti e feriti, la maggior parte bambini, giovanottini e, come sempre, altre vittime innocenti che non prendevano pare alla dimostrazione ma o guardavano o si trovavano là vicini!!! Ciò ha prodotto la generale indignazione, e l’indomani mattina sono apparsi manifestini con scrittovi che “la cittadinanza era a lutto per le vittime del piombo sabaudo”. Ma una conseguenza ci fu, ed immediata: il giorno 23 ottobre il capo dei separatisti, Andrea Finocchiaro Aprile, s’incontrò a Catania con Antonio Canepa, nome di battaglia Mario Turri, da poco rientrato dalla Toscana dove aveva guidato una formazione partigiana secondo alcuni a sinistra del PCI, e lo incaricò di organizzare l’E.V.I.S. (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana). Questo diede inizio ad un’altra pagina dolorosa della storia italiana, che continuò per anni oltre la morte del Canepa stesso, ucciso mesi dopo in un agguato, e forse non finì del tutto nemmeno con la morte di Salvatore Giuliano, ma questa, come si dice, è un’altra storia. L’ufficiale, i tre sottufficiali ed i 21 soldati che avevano avuto in dotazione le bombe furono deferiti al tribunale militare, per strage ed omicidio colposo. Il processo fu trasferito a Taranto per legittima suspicione, e la sentenza si ebbe solo dopo quasi tre anni, nel febbraio del 1947. Le imputazioni erano state derubricate a “eccesso colposo di legittima difesa”. Gli storici (vedi c. Oliva “I vinti e i liberati”) si diffondono oggi sui morti provocati dalle repressioni avvenute durante i 45 giorni del governo badoglio, ma glissano su quanto avvenuto al Sud durante il governo Bonomi, che comprendeva i rappresentanti dei partiti del CLN. Notizie su quei fatti possono essere trovate oltre che nelle collezioni dei giornali dell’epoca, (e sul Corriere della Sera che ne parlò pochi giorni dopo gli avvenimenti) nel già citato libro di Sandro Attanasio da cui abbiamo largamente attinto, inoltre nel volume “Una rivoluzione mancata 1940 . 1946” di S. Barbagallo. Più recentemente queste notizie sono state riprese con un breve accenno negli Atti del convegno di studi storici su “Il dissenso clandestino nelle regioni meridionali occupate dagli angloamericani”, ISSES, Napoli, 1999, da cui è partita questa ricerca. Per concludere mi sembra corretto accennare alla situazione generale della regione, come emerge dalle cronache di allora e dalla memorialistica. Lo stato della Sicilia dopo l’occupazione angloamericana era drammatico, per la difficoltà dei trasporti, la mancanza di lavoro, l’inflazione altissima, il brigantaggio nelle campagne era condotto da quanti erano evasi dalle prigioni al momento dell’invasione, la scomparsa della maggior parte dei funzionari dei gradi più elevati, l’epurazione di molti funzionari accusati di fascismo spesso per ragioni non avevano nulla a che fare con la politica, il ritorno nei loro paesi dei capimafia precedentemente al confino. La decisione era stata presa dal governo Mussolini nel 1942, per ragioni umanitarie, anche se sembra assurdo il fatto che si siano voluti riportare in una regione retrovia della guerra dei sicuri nemici del paese. Sempre nello stesso anno il governo volle trasferire i funzionari d’origine siciliana al Nord, e li sostituì con altri provenienti dalle province settentrionali, che al momento dell’invasione abbandonarono le loro sedi per non essere tagliati fuori (per dare un esempio, in tutto il Compartimento Ferroviario di Palermo, era rimasto un solo ingegnere). Le motivazioni vere di queste due scelte non sono chiare. L’Attanasio scrive che l’unico in grado di darne una spiegazione era il prefetto Vicari, allora capo gabinetto al Ministero degli Interni, che poi fece una lunga carriera nel dopoguerra e fu per molti anni Capo della Polizia. Resta che i siciliani si sentirono abbandonati ancora una volta, e la tragedia di Palermo si ripeté pochi mesi dopo, tra il dicembre 1944 ed il gennaio 1945, quando scoppiò nelle province orientali, il movimento dei “non si parte”, a protesta contro la chiamata alle armi delle classi di leva. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo. Fonte: Tratto dalla rivista "San Marco"
Posted on: Wed, 14 Aug 2013 15:29:07 +0000

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