Da "Guerra a sudovest " di Eugenio Caccamo Una luna esagerata - TopicsExpress



          

Da "Guerra a sudovest " di Eugenio Caccamo Una luna esagerata emanava la sua luce d’argento su tutto il paese circostante. Al soldato Garner era toccato il turno di guardia notturna e, lentamente, andava su e giù lungo il camminamento fatto di tavole sconnesse, la canna del suo Sharp sulla spalla. A tratti, dalle colline di sabbia, proveniva l’ululato di un coyote e, a parte i fuochi tremuli nel campo di Chiquito, null’altro si muoveva tutto attorno. La bianca scia d’una meteora disegnò per un attimo la sua traccia siderale. Tutto appariva tranquillo fuori e all’interno del forte. Ogni tanto Garner emetteva un lungo fischio in direzione del soldato Troy, di guardia sul camminamento opposto al suo. Questi replicava allo stesso modo per segnalare che tutto era a posto. Sal Guarneri pensò concretamente a quanto fosse strana e imprevedibile la vita degli uomini a questo mondo. Proprio in una simile notte di luna piena, una splendida notte di maggio dall’aria dolce, dolce come soltanto la sua Sicilia poteva proporre, la sua vita aveva subito una autentica rivoluzione. E questo era accaduto appena due anni prima. Nel mese di marzo di quell’anno, era il 1867, la sua dolce mamma aveva pensato bene di abbandonare questo mondo. Dal momento in cui lo aveva partorito, Mary, Maria Lambert, s’era ammalata di cuore e in tutti quegli anni successivi non aveva mai smesso di cantare le sue canzoni celtiche, di ridere ed occuparsi della casa, di quel figliolo dalla pelle bruna, forte come un sasso e con gli occhi dal colore azzurro intenso, unica eredità genetica che gli aveva trasmesso. Il dolore, la grande mancanza di quella donna così importante per la loro vita, gettarono Vincenzo e Salvatore nella più estrema desolazione. Padre e figlio si chiusero a riccio nei loro sentimenti e quasi si isolarono da tutto il resto, anche da tutto ciò che di grave stava accadendo attorno a loro. L’esercito piemontese in Sicilia, come in tutta la parte meridionale della penisola italiana, s’era ben presto mostrato per quello che in realtà era. Non un esercito di liberazione ma una vera e propria macchina d’oppressione. Dopo il 1860, subito dopo l’unificazione dei popoli italiani in un unico stato, il Regno d’Italia dei Savoia piemontesi, fu subito chiaro che il governo di Torino era troppo lontano, come interessi e come mentalità, dalle terre del sud. Da più parti si era invocata una maggiore autonomia delle regioni “liberate” dal regno precedente. Al contrario, fu mandato il generale Della Rovere, con pieni poteri civili e militari. Suo compito era quello di soffocare nel sangue qualunque rigurgito Borbonico, inevitabile in un popolo che cominciava ad accorgersi che il passaggio sotto il Piemonte, lontano d’essere stato un passo avanti, aveva gettato la Sicilia in un baratro privo di luce. Le condizioni drammatiche nelle quali l’isola era piombata, le pesanti tasse imposte anche alla gente più povera, unite alla resistenza contro l’obbligatorietà della leva militare, istituto del tutto nuovo ai Siciliani, favorirono la crescita di una serie di rivolte locali. Tanto era il malcontento della popolazione, tanta la disperazione che andarono formandosi delle bande armate su tutto il territorio. Il governo piemontese, ignorando le motivazioni politiche e sociali del fenomeno, etichettò col nome di “briganti” tutti gli insorti. Fece fucilare senza pietà chiunque fosse appena sospettato di far parte di una delle bande che andavano formandosi. 14 I generali piemontesi, con la solita “carta bianca” che nelle operazioni siciliane venne sempre loro concessa, agirono spietatamente, arrestando, torturando, uccidendo, bruciando interi paesi e villaggi. I decreti, gli ordini dei generali si susseguirono pieni di spietate minacce e di odio. “ Sarà immediatamente fucilato chiunque, avendo visto dei briganti, non ne avrà dato immediatamente notizia alla forza pubblica ! ; oppure “ Tutti i pagliai devono essere bruciati e le case di campagna scoperchiate, e le loro aperture murate !” Pena, sempre, la fucilazione. “ I contadini potranno avere in loro possesso solo la quantità di viveri necessaria per una giornata !” Pena, ovviamente, la fucilazione. Questi erano i metodi con i quali i “fratelli” piemontesi cercavano di frenare il malcontento dei Siciliani, di dare risposte politiche o sociali. Ovviamente neanche a parlarne ! In Sicilia e per i Siciliani unico toccasana era la fucilazione. La casa dei Guarneri era posta tra il fienile, la stalla ed un laboratorio rustico dal lungo tetto fatto di paglia intrecciata. Il tutto formava una sorta di ferro di cavallo nel cui centro respirava il piano lastricato dell’aia. Il terreno su cui sorgevano le modeste costruzioni stava a circa tre chilometri dall’abitato di Randazzo, sulla strada battuta che portava al paese montano di Cesarò. Tutto attorno vi erano vecchi ulivi contorti dal tempo, coltivazioni di fichi d’india e piccoli frutteti tra i quali spiccava un agrumeto che in quel periodo di maggio inoltrato inondava l’aria dell’inebriante profumo di zagare appena fiorite. Era già scoccata la mezzanotte e Vincenzo Guarneri, afflitto dal recente lutto e consapevole che il tentativo di prender sonno sarebbe stata la solita tortura d’ogni notte, indugiava nel suo laboratorio a dare gli ultimi punti per il restauro di una vecchia sella. Il giovane Salvatore, che univa al suo personale dolore quello del padre, che sapeva essere lancinante, non osava andare a letto prima del genitore e se ne stava a pancia in su, disteso su di un cumulo di fieno, nel pagliaio. Il chiarore della luna sagomava strane forme dappertutto ed il giovane giocava con la fantasia, immaginando la figura della madre ,appena scomparsa, in ogni sagoma. Un prolungato crepitio di fucilate giunse netto nel silenzio argentato della notte. Padre e figlio si affacciarono all’unisono dai rispettivi usci che davano sull’aia. Stettero lì in silenzio, quasi fiutando l’aria. Attesero ancora. Un’altra scarica di fucileria si udì nettamente e abbastanza vicina. Proveniva dallo stradone di Cesarò. “ Sparanu ddà à muntata” Fece Vincenzo, indicando col dito un punto nell’aria di fronte a se. “ E’ vicinu, patri, è vicinu !” Replicò il giovane. “ Si, Salvu, e ppì mmia è troppu vicinu !” Disse il padre con tono ormai preoccupato. “ Senti a mmia, figghiu, vatinni, vestiti subbitu e vatinni !” La voce di Vincenzo, ora, appariva come se lui gracchiasse. “No, patri, iu nun ti lassu sulu, ora…” “ Vatinni !subbitu, vatinni !” Questa volta fu un ordine perentorio e pieno di rabbia. Poi l’uomo si diede una manata sulla fronte. “ U fucili, sangu di giuda! U fucili, pigghia u fucili chi stà nnò pagghiaru, prestu, pigghialu n’semmula a la cartuccera e ammuccia tutti cosi, luntanu, cchiù luntanu chi pòi !” Fece il padre rammentando di possedere un fucile nascosto nel pagliaio. 15 Glielo aveva regalato un suo cliente catanese qualche anno prima, si trattava d’un Dreyse 41, di fabbricazione prussiana, un fucile da guerra a retrocarica con una velocità di fuoco impressionante per l’epoca in cui era stato costruito. Lui ed il figlio si divertivano al tiro a bersaglio su qualche “pala” di fico d’india nei momenti di riposo, mentre la buona Maria cantava, stendendo i panni sull’aia. “ Vestiti pisanti, pigghia la sacca e mmètticci pani e furmaggiu, và a muntata, luntanu di la strata, teniti sempri nnò vuscu….ascutami, subbitu !” Salvatore non potè più fare altro che obbedire, si precipitò in casa e, dopo qualche minuto, ne uscì fuori col tascapane di cuoio grezzo a tracolla, indossava un giaccone di pelle di pecora con la lana all’interno ed in testa una cuffia dello stesso tipo. Nei boschi, a più di mille metri, di notte faceva ancora freddo. Quindi, correndo, si recò nel fienile. In un angolo, tra vecchie gabbie per i conigli, trovò fucile e cartucciera. Tutto ansimante si avvicinò al padre. “Patri, patri, iu…” Balbettò angosciato. “ Và, figghiu, và, chi ccà ci pensu iu, curri prima c’arrivanu…” Fece Vincenzo, questa volta con voce rassicurante, abbracciò il figlio e poi lo allontanò bruscamente. “Và…” Il giovane corse via in direzione del retro della casa, intendeva fare un lungo giro onde evitare lo stradone che portava a Cesarò. Compì un centinaio di metri, poi sentì una penosa fitta al cuore. Avere abbandonato suo padre tutto solo non gli piaceva affatto. Sentiva che un pericolo imminente si sarebbe abbattuto sul genitore. Il chiarore della luna lo aiutò a scorgere l’ulivo più alto tra quelli della sua terra. Mise fucile e cartucciera a tracolla e con un balzo saltò su una grossa nodosità alla base dell’albero, quindi, con la sola forza delle sue braccia, si arrampicò velocemente tra i grossi rami sino a raggiungere la cima celata tra le fronde. S’accomodò alla meglio. Da lì poteva scorgere tutto lo spiazzo antistante gli edifici. Vide l’inconfondibile figura di suo padre stagliarsi alla luce della luna. Attendeva a gambe larghe, con le mani sui fianchi, immobile. Passò poco tempo e cominciarono a vedersi delle luci di torce che si avvicinavano alla casa circondandola, decine di uomini avanzavano a piedi con i fucili spianati e le baionette innestate. Un solo uomo incedeva a cavallo entrando nello spiazzo lastricato: era il famigerato maggiore Roasio, Vincenzo ne aveva sentito parlare, crudele sino all’estremo, fanatico razzista che pareva divertirsi nell’uccidere, incendiare, devastare tutto ciò che poteva. Era felice nell’eseguire gli ordini di Sua Maestà Vittorio Emanuele II°, riferiti ai “briganti” Siciliani: “ Non abbiate alcuna pietà di queste canaglie, trattatele come esse meritano, una lezione, ci vuole una sonora lezione !” E Roasio eseguiva alla lettera. Vincenzo gli si fece incontro lentamente, fermandosi a pochi metri dal cavallo, i suoi occhi orgogliosi incrociarono lo sguardo torvo dell’ufficiale. “ Voscienza mi dici chi vvoli di mia?Iu unn’aiu fattu nenti, sugnu un travagghiaturi pacificu e pensu sulu a li fatti mei !” Gli disse con tono deciso. “ Siete tutti gli stessi, luridi bugiardi e selvaggi, tutti quanti siete feccia in questo mondo !” Urlò il maggiore col sangue agli occhi che, alle luci delle torce, apparivano diabolici sotto un rigido chepì. “ Arrestate questo bifolco !” ordinò secco. Tre bersaglieri si fecero sotto immobilizzando Vincenzo che inutilmente cercava di divincolarsi. Gli legarono saldamente i polsi sulla schiena. “ Dov’è Carnazza, il bandito Carnazza ? Parla e subito ! Poco fa abbiamo accoppato una dozzina dei suoi accoliti, scappavano da queste parti, nella tua direzione. Si è certamente nascosto da queste parti ! Parla dannato..dove s’è nascosto ?” Ringhiò il maggiore all’estremo della collera. “ Iu un sacciu nenti, nentiii…..” Gli urlò in faccia il prigioniero. 16 Una scudisciata, dall’alto verso il basso, raggiunse il volto di Vincenzo che divenne subito una maschera di sangue. “ Figghiu di buttana” Gridò l’uomo e sputò verso l’ufficiale a cavallo. Un grumo di saliva mista a sangue giunse sul ginocchio destro del maggiore macchiando i pantaloni dell’uniforme. “ Un muro, portatelo a un muro” Ordinò secco il comandante con un ghigno malefico sulla bocca. I bersaglieri condussero Vincenzo verso la casa, a passo di corsa. Giunto nei pressi del muro perimetrale fatto di pietre a secco, l’ufficiale gli disse: “ Ti do due minuti di tempo, se mi dici dove si nasconde Carnazza hai salva la vita, altrimenti ti fucilo qui !” Trascorso un attimo il maggiore replicò : “Hai un solo minuto; vuoi parlare ?”. “ Strunzu !” fu la risposta di Vincenzo Guarneri. Da qualche minuto, il mirino del Dreyse era puntato sull’uomo a cavallo. “ Si nun voi anniari, puru cull’acqua n’zino a lu coddu, teniti calmu e respira forti !” Il padre di Salvatore glielo aveva insegnato sin da bambino. Abbarbicato con le forti cosce al grosso ramo d’ulivo, il giovane stava disteso in avanti imbracciando il lungo fucile prussiano. Sentiva dentro di se l’esistenza di due persone. Una avvampava di collera desiderando l’azione a rischio della vita, l’altra era come di ghiaccio, raziocinante e calma. La scarica di fucilate che devastò il corpo di Vincenzo coprì nettamente il colpo del Dreyse, partito in contemporanea. Nessuno tra i soldati si era accorto che il volto del loro comandante aveva mutato espressione, sembrava avvolto in un estremo languore, gli occhi rivolti al cielo, come per una preghiera. Il corpo del maggiore scivolò lentamente sulla sella piombando poi sul piano lastricato dell’aia, tutto intero nell’uniforme tranne che il piede destro rimasto ancorato alla staffa. Il cavallo ebbe un breve sussulto ma null’altro. Il soldato Garner, fermo sul camminamento del forte, ricordò tutto: la pazza fuga verso i boschi, le imprecazioni dei soldati che si erano accorti dell’uccisione di Roasio, il restare acquattato tra i rovi per ore ed ore, ed ancora il correre ansimando tra lecci e roverelle, i giorni di ansia e di paura. L’estrema attenzione necessaria per evitare le pattuglie in perlustrazione, la fame che veniva lenita un poco dal trangugiare ghiande e radici, l’immergere la faccia in pozze d’acqua che nemmeno un cinghiale avrebbe bevuto. Ed il dolore, lo strazio di scorgere ,da lontano, stando nascosto, le esecuzioni sommarie, perpetrate da lancieri, bersaglieri e carabinieri del reale esercito dei Savoia. Il cannoneggiamento sul paese di Cesarò, l’esodo della sua gente disperata. Ed ancora, zigzagando tra i boschi dei monti Nebrodi, l’incendio appiccato alle case di Alcara, che di notte sembrava un secondo tramonto nell’infiammare un cielo offuscato dal fumo e che celava le stelle di giugno. Il miracoloso raggiungere la costa tirrenica, l’aiuto generoso di un pescatore nei pressi di Milazzo, l’imbarcarsi su una tartana diretta a Lipari. E , dall’isola delle Eolie, ripartire per mare alla volta di Napoli. Ancora il ricordo del fratello di sua madre, zio Joe , maestro ceramista a Capodimonte, che gli pagò il viaggio su una nave diretta in America. Quell’America che, aveva sentito, aveva abolito lo sfruttamento degli schiavi e che adesso, per tanti europei, cominciava a rappresentare un sogno. L’arrivo a New Orleans, il perdersi tra le strade dei locali chiassosi che erano sempre bordelli, la decisione di arruolarsi nel nuovo esercito degli Stati Uniti. Salvatore Guarneri, dimostrando una competenza assoluta sui cavalli, venne aggregato al 3° cavalleggeri, destinazione : Arizona ! “ Megghiu porcu cà surdatu !”. Così si diceva dalle sue parti. Ma tra il morire di fame ed il guadagnarsi un pezzo di pane, il saggio Sal scelse la seconda soluzione. Sal non sapeva che avrebbe incontrato il capitano Newton !
Posted on: Sat, 14 Sep 2013 14:30:48 +0000

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