Di cosa parliamo (noi maschi) quando parliamo di femminicidio? - TopicsExpress



          

Di cosa parliamo (noi maschi) quando parliamo di femminicidio? Sono un uomo, un maschio voglio dire, ma seguo le questioni di genere. Questo per dire che qualche anno fa ero un lettore costante e allibito di Beatrice Busi quanto teneva una rubrichetta settimanale di spalla su Liberazione: 3000 battute, forse meno, per ri-raccontare gli omicidi di donne avvenuti nei sette giorni precedenti che negli altri giornali erano stati rubricati a cronaca nera, delitti passionali, regolamenti di conti, assassini etnici. Messi uno in fila all’altro, facevano impressione, quelli che allora non si chiamavano ancora placidamente femminicidi. Già: se del resto anche solo l’anno scorso parlare di femminicidio era un discorso per pochi, oggi – per fortuna – il termine è diventato di uso consueto (anche se mentre scrivo mi rendo conto che Word non lo riconosce), e la questione ha finito per l’indossare molte pelli: culturale, sociale, politica. Prima ancora della discussione del decreto legge ad hoc, era un item che aveva conquistato lo spazio mediatico come, per dire, l’argomento più discusso della saggistica di quest’anno dopo Papa Francesco: da Loredana Lipperini & Michela Murgia a Cinzia Tani, da Riccardo Iacona a Serena Dandini fino al blog della 27ora del Corriere, finalmente si è affermato nel senso comune che la violenza domestica è una delle prime cause di omicidio in Italia, e che – ovviamente – oltre le donne ammazzate, ce ne sono migliaia di altre che vengono ogni giorni picchiate e violentate, fisicamente e psicologicamente. E c’è da essere soddisfatti se questa vittoria culturale non è un fenomeno di moda ma è stata resa possibile specialmente dalle tanti militanti di associazioni di donne che in questi anni hanno lavorato sulla violenza di genere nella più totale marginalità, proprio fino a riuscire a rendere legittimo l’utilizzo della parola femminicidio – il suo valore concettuale, storico più che giuridico tracciabile attraverso il blog di Barbara Spinelli , per esempio; una rivendicazione di questa legittimità sul blog di Giovanna Cosenza, per esempio, dove per me si bypassano anche le sensate obiezioni sulla debolezza statistica, avanzate tra gli altri da Fabrizio Tonello e da Davide De Luca. Quest’onda rinfrancante di dibattito la si è voluta poi appunto colare nella forma di una legge: il decreto anti-femminicidio. In mezzo all’abulia governativa, al metamorfismo deprimente dell’attuale alleanza Pd-Pdl, questa legge bipartisan ha avuto quantomeno il pregio di tracciare una linea per un intervento politico. Anche se. Anche se, come era successo per le leggi sullo stalking, si è finito per ridurre il problema a emergenza sociale, facendo leva sui dispositivi più pavloviani della politica italiana: normazione e criminalizzazione. Le critiche, proprio da chi aveva aspettato questa legge prevedibilmente non c’hanno messo molto ad arrivare. L’idea che molte femministe si sono fatte è che il decreto non servirà a molto se non si finanziano i centri anti-violenza sul territorio, o più in generale se non capisce come poter realizzare un programma nazionale di educazione sulle questioni di genere. Questo – tra le righe – vuol dire qualcosa di al tempo stesso molto semplice e molto complesso. Molto semplice: serve qualche soldo di più. (Questa conclusione è lapalissiana tanto da essere recepita anche dal New York Times). Molto complesso: questo governo dovrebbe far propria una prospettiva femminista che prevede ovviamente una trasformazione di sé che non si può improvvisare. Arrivato a questo punto dell’articolo, esprimo quella che è la mia opinione: fare propria questa prospettiva, lavorare sul lungo periodo, è comunque l’unica strada. Ora, come dicevo all’inizio, sono un maschio, un maschio assolutamente convinto della bontà della pratica femminista di partire dal sé. E per questo arrivato a questo punto del dibattito, mi sono sentito esplicitamente chiamato in causa qualche giorno fa da un lettissimo articolo di Beppe Severgnini, in cui in ottima fede, ma un po’ come un tizio cascato da un alto pero, si scriveva: Noi maschi dovremmo occuparci di più del femminicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. Anche a costo di dire e scrivere leggerezze. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano le donne, ne scrivono le donne, le fotografie sono quasi sempre delle vittime e non dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo e di cui abbiamo paura. Capita anche a me spesso di scrivere questa specie di articoli che dicono: dovremmo fare questo e quello, nella cultura italiana c’è un gran deficit di questo, perché in Italia nessuno si occupa di. È un primo passo, ma spesso è inutile. Perché resta l’unico: ho individuato una mancanza, la stigmatizzo, passo alla prossima. Ma non è soltanto l’autoindulgenza sul proprio deficit di problematizzazione (perché soltanto ora Severgnini richiede quest’interrogarsi?), è soprattutto invece troppo morbido, diciamo pastello, il ritratto che Severgnini fa degli uomini violenti: creature Jekyll-Hyde di cui non possiamo che continuare a stupirci della morale schizoide. L’errore implicito di Severgnini è però lo stesso che fanno i fanno maschi che si occupano di questioni di genere: non partire da sé. Anche nel pezzo di Severgnini, che cerca di aver un occhio laico e attento, la violenza è sempre descritta come altrui, misteriosa, nascosta, lontana. La sociologia dell’orrore è rovesciata: i mostri non sono semplificazioni lombrosiane, personaggi abbruttiti e abitualmente violenti. Molti studiano, lavorano, guadagnano, si vestono bene. Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi. È chiaro che questo “ tra di noi” dovrebbe essere preso un po’ più sul serio. Che questi altri che si aggirano mascherati dalla loro buona facies affidabile e borghese somigliano a chi vediamo nello specchio. Occorrerebbe sfumare un po’ i confini tra una comunità di persone razionali e perbene (uomini avvertiti, compagni che affiancano le proprie donne nelle loro battaglie, che decidono di accompagnare le loro partner alle manifestazioni sulla violenza domestica) e un’altra massa di uomini potenzialmente violenti, che covano sotto le camicie inamidate e uno sguardo innocuo un impulso alla brutalità pronto a emergere al primo raptus.
Posted on: Tue, 27 Aug 2013 22:17:18 +0000

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