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© Guia Besana MANIGOLD HOTEL COTACACHI - ECUADOR Mercoledì 10 Ottobre 2012 Questa è la storia di una lavatrice. Di come la crisi economica dei paesi cosiddetti avanzati esporti se stessa in luoghi incontaminati, magnifici, e di come attecchisca e si propaghi come un tumore. Mi sono impoverito, dunque espatrio e impoverisco qualcun altro. Una fuga che colonizza e abbrutisce sempre nuovi pezzi di mondo: come se chi viaggia portasse da casa limmondizia con sé, limmondizia del tempo in cui viviamo. Una storia di panni sporchi, in effetti. Il cugino di Leonardo DiCaprio, Michael dAddio, dopo aver lavorato trentanni a Hollywood come produttore di serie tv (Marco Polo, Anno Domini), in teatro con Cabaret e New York New York, dopo aver inciso un certo numero di dischi di jazz romantico e aver posato nudo con fisico scolpito per le copertine dei medesimi, ne ha avuto abbastanza. Un lutto, dice. Un caro amico scomparso. Depressione, trenta nuovi chili addosso. «Avevo avuto una vita prima delluragano di Hollywood, ne volevo una dopo». Era ricco, ma non abbastanza per trasferirsi in Italia. Lui dice: tornare. A San Prisco, il paese dei nonni. «Non avrei potuto mantenere in Italia lo stesso tipo di tenore di vita che avevo a Los Angeles, la villa, la piscina e tutto il resto, soprattutto se avessi smesso di lavorare come intendevo fare, come ho fatto. Volevo ritirarmi. Mi avevano parlato dellEcuador. Ho cercato un posto, ho trovato questo». Questo è Cotacachi. Villaggio del cuoio e del grano, cittadina popolata da indigeni Quichua, uomini e donne minuscoli (gli uomini più piccoli delle donne, un metro e quaranta di media), poche case nella valle tra due vulcani attivi, uno - il Cotacachi, appunto - innevato. Appena fuori dal centro non cè acqua corrente né luce: nelle case di barro, fango, i bambini nel numero di dieci per famiglia vivono scalzi tutto lanno, le donne scalze coltivano i campi, gli uomini sonnecchiano in attesa di un ingaggio a cottimo come muratori. Due dollari la giornata di lavoro, un euro e sessanta da spendersi in vino poco dopo. Qui il cugino di Leonardo DiCaprio - cugino secondo, i nonni erano fratelli, documenta con orgoglio esibendo i certificati di nascita di una ricerca araldica fatta fare a regola darte: Elisabetta DiCaprio, la nonna - ha disegnato, edificato e arredato una villa come quella che avrebbe voluto a Malibu. Con dentro una delle due copie autentiche dei bronzi di Riace («laltra ce lha Murdoch»), letti a baldacchino, riproduzioni di quadri di Matisse e vasi Ming, tempio di Budda e wifi, piscina a raso, divani bianchi e soprattutto lavatrici. Due lavatrici americane alte un metro e larghe uno di quelle che si caricano dall’alto e tengono cinquanta chili di panni ciascuna. A cosa servano cento chili potenziali di panni da lavare a un uomo solo non è dato sapere, ma lui dice che «nessuno, negli States, va a vivere in una casa che non abbia due lavatrici ». Perciò ecco, per prima cosa le lavatrici. Esposte in mostra, tra i coppi di rame monumentali della cucina all’americana, naturalmente, vista soggiorno con Riace. Era il 2009, e Michael d’Addio DiCaprio ha fiutato il business. Coi risparmi delle produzioni hollywoodiane ha ingaggiato una squadra di indigeni e ha fatto costruire in un terreno comprato per due soldi sei villette identiche, in miniatura, a casa sua. Ha recintato il villaggio con un muro di cinta che lo separa dal nulla e l’ha battezzato: Shambhala. «More than Olimpo», spiega. Il paradiso degli dei indu. Attualmente ha 180 famiglie in lista d’attesa per affittarlo. Le sei coppie che ci vivono vengono da Seattle, Nashville, Ohio, Oklahoma. Bruce and Claudia Liljegren sono gli ultimi arrivati. Posano felici per una foto davanti alle loro due lavatrici di ordinanza, enormi cubi bianchi intonsi. Porgono, al congedo, un biglietto da visita che dice “retired and loving it!”, segue telefono e mail. Hanno in casa cinque schermi, tre postazioni computer e due tv. Coi figli parlano su Skype. Davanti alla tv principale, un divano bianco meccanico consente loro di vedere i 600 dvd della collezione domestica con i piedi più in alto del bacino, «per la migliore circolazione del sangue», dice lei. Retired in Cotacachi. Sono Settecento i nuclei familiari arrivati dagli Stati Uniti a Cotacachi. Dato in crescita esponenziale e costante. Si avviano a diventare più numerosi della popolazione locale. Quasi tutte coppie anziane, pensionati piegati dalla crisi che cercano qui l’Eldorado triste dei loro ultimi anni. Arrivano col cane di pelo bianco grande come un piccolo orso, i bambini del posto ne hanno terrore, l’amaca da uno da appendere in veranda, le tute da ginnastica, i semi dei loro fiori preferiti da piantare in giardino. Non parlano una parola di spagnolo, non intendono impararlo. Comprano il cibo per corrispondenza, surgelato. La quinoa e l’amaranto, grani andini di strepitoso apporto nutrizionale, non sanno cosa siano. Studiano la Bibbia, avvertono che i grandi della terra sono in verità dei rettili, la regina d’Inghilterra è una specie di iguana, sostengono che il governo americano sta narcotizzando l’intera popolazione in accordo con una multinazionale della pasta dentale, mette il narcotico nel dentifricio. Una di loro ha aperto un piccolo consultorio medico: sostiene che è in grado di parlare alle cellule ammalate e convincerle a guarire, in caso di infermità. Anche per telefono, naturalmente in inglese. Esportano le loro ossessioni e le loro paure. Scappano e si insediano qui. Filo spinato mimetizzato nel roseto e catene alle chaise longue, naturalmente, perché è ovvio che qualcuno, da fuori, potrebbe arrivare in ogni momento a rubare. A rapire, a uccidere. Il mostro andino è là fuori. È in corso una raccolta di firme perché in paese, finalmente, si apra un McDonald’s. I più influenti stanno lavorando al progetto aeroporto: Cotacachi- Los Angeles sarebbe la rotta ideale, si può fare. La valle si è riempita di condomini costruiti dalla misteriosa Lola Young, un’ereditiera californiana che con la sua socia Carolina ha costruito decine di villette in stile “messicano-alpino”, baite di alta montagna con veranda, e “toscano”, condomini con la Gioconda in trompe-l’oeil, per un equivoco leonardiano. In questo caso Da Vinci, non DiCaprio. Jorge Espinosa, direttore del Relais & Chateaux La Mirage, un sogno di lusso e di bellezza che compare come unoasi surreale alla fine di una strada asfaltata solo per la metà che conduce al buen retiro - a destra siepi di alloro e pavoni, a sinistra favelas -, è un ecuadoriano dotato di foulard cache-col, studi in Germania e curriculum in studi di alta amministrazione, che da 26 anni gestisce con profitto il suo cinque stelle lusso in questo luogo sconosciuto alle mappe del turismo, dove tuttavia prendono albergo la regina di Spagna e i divi di Hollywood, i miliardari nordamericani e in una piccola percentuale, da qualche tempo, anche latini. «La comunità statunitense che si è stabilita qui - dice - non ha i mezzi economici per venire neppure a mangiare da noi una volta ogni molto. Sono due mondi paralleli. Qui arrivano a vivere persone che non hanno denari per sopportare il peso della crisi nel loro paese. Nelle nostre suite, invece, prendono alloggio clienti che hanno i mezzi per passare a rilassarsi qualche giorno dopo una gita, poniamo, alle Galapagos. Molti sono clienti abituali. Tuttavia, noi al Mirage abbiamo una straordinaria cura della relazione con le popolazioni locali. Tutto il personale è indigeno, io stesso sono nato qui e conosco bene il valore di unimpresa come la nostra per leconomia e la cultura del posto. I nostri cibi, le nostre usanze di accoglienza sono plasmati sui costumi locali. Ci scontriamo, però, con qualche problema». E veniamo alle lavatrici. «Qui da noi le donne lavano per pezzo. Lo so bene. Le mie nonne lo facevano. Ingaggiamo lavandaie che lavorano a dozzina. Di lenzuola, di camicie. Quello che sia. Per dodici pezzi un compenso. Poco, ma per loro molto. La vita. Lavano a mano. La biancheria profuma di sapone e di civiltà. La comunità nordamericana che si è insediata in città, davvero come lei dice una moltitudine di persone, tra breve la maggioranza, vorrebbe aprire in centro una lavanderia allÕamericana. A gettone. Non contenti delle loro gigantesche macchine domestiche vorrebbero anche una laundry a gettone. Credo che sia un errore. Credo che si debbano pagare le donne di qui che lavano a pezzo, perché questa è la nostra tradizione. Credo che ci impoveriremmo se gli americani ci imponessero le loro lavanderie, e che le popolazioni locali ne sarebbero incattivite. Credo che così si importi il peggio della civiltà, il suo residuo di sporcizia senza speranza». Sporcizia senza speranza. Robert e Diana Donnell sono venuti a vivere qui a 70 anni, entrambi al secondo matrimonio. Vivono in paese, hanno imparato un po di spagnolo, seguono la messa del pastore protestante, un ragazzo con gli occhi verdi e la pelle scura, e fanno la spesa al mercato. «Prendiamo 1500 dollari di pensione», dice lei, «e a casa nostra, in Florida, avremmo concluso la vita in miseria. Qui siamo signori. Io ho studiato da bibliotecaria, ho lavorato tutta la vita tra i libri. Credo che il declino delle civiltˆ occidentali abbia la sua remota origine nel peccato originale: abbiamo tradito i valori fondamentali e primari della terra. Questa gente ce lo ricorda ogni giorno. Penso che nei miei ultimi anni, nei nostri», indica il marito, più volte infartuato, «dobbiamo portare rispetto a chi ha vissuto di poco e di niente, in armonia con la natura. Non possiamo imporre qui la nostra presenza da coloni. Siamo ospiti. Ma certo, è unidea stravagante, lo capisco. La maggior parte dei nostri connazionali non la pensa così, e non ci parla. Noi siamo gli amici degli indigeni. Pazienza. Io studio lAntico Testamento. Se dovessi ritrovare il contatto con le origini, a dio piacendo, sarebbe il miglior congedo. La casa dove abitiamo labbiamo presa in affitto da una famiglia indigena: 300 dollari al mese. La lavatrice non cera, ne abbiamo comprata qui una piccola. Per noi due basta, e quando non basta lavo a mano da sola. Una novità della nostra nuova vita anche questa», sorride. Concita De Gregorio
Posted on: Mon, 04 Nov 2013 11:54:53 +0000

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