I FONDAMENTI TEORETICI DON LUIGI STURZO Luigi Sturzo fu una - TopicsExpress



          

I FONDAMENTI TEORETICI DON LUIGI STURZO Luigi Sturzo fu una figura geniale, eclettica, e, per certi versi, potremmo dire profetica, cui vanno riconosciuti importanti meriti per il contributo pratico e teorico offerto sia a livello nazionale che internazionale. Com’è noto produsse una considerevole quantità di scritti dalla quale si evince l’ampiezza dei suoi interessi che spaziavano dalla filosofia alla sociologia, dal diritto alla teologia, dalla storia alla politica senza trascurare altri settori del sapere. Nonostante lo spessore e la raffinatezza delle sue riflessioni teoretiche, tuttavia, egli è stato a lungo vittima di un imperdonabile pregiudizio che ha portato gli studiosi a considerarlo più un uomo d’azione che di pensiero, mentre, in realtà tutte le sue scelte, le sue valutazioni e i suoi comportamenti politici hanno alla loro base dei principi che ben possono inquadrarsi in un sistema filosofico di riferimento frutto di una sua originale elaborazione, anche se non mancano suggestioni di pensatori del passato o a lui contemporanei. Soprattutto non va trascurato il ruolo avuto dal fratello Mario, altra personalità di enorme ingegno e sensibilità, il quale, come si evince da un fitto carteggio intercorso tra i due, ha condiviso con don Luigi un profondo e complesso percorso di riflessione teoretica e di elaborazione filosofica[1]. Non è infatti possibile comprendere appieno l’opera del fondatore del PPI se non lo si inserisce nel rapporto dialettico che egli aveva instaurato con il fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina, nell’ottica di un progetto di rinnovamento politico e religioso[2]. I due auspicavano una rinascita culturale del cattolicesimo[3] che doveva riguardare i diversi aspetti della vita: filosofico, sociale, politico, artistico ed ecclesiale. Ciò nel segno di un’antropologia tesa ad esaltare il rapporto basilare immanenza-trascendenza che guardasse ad una prospettiva escatologica della salvezza. Il sistema filosofico che i due fratelli hanno sviluppato può essere definito con l’espressione neosintetismo[4] e fornisce una risposta ad uno dei problemi più avvertiti del periodo, vale a dire il tema del rapporto individuale-universale. A fronte delle posizioni più correnti che esaltavano l’uno o l’altro dei due poli, i due fratelli ritenevano che occorresse operare una connessione tra universale ed individuale tale da favorire la nascita di una società costruita su un sistema di relazioni e di sintesi che si sviluppa in virtù di una coscienza unificante, artefice del movimento che produce le suddette sintesi e relazioni. Si tratta di una filosofia frutto di una concreta esperienza di vita che ha portato gli Sturzo a considerare inadeguata sia l’epistemologia scolastica sia le posizioni idealistiche[5]. La soluzione che essi trovano in relazione al rapporto soggetto-oggetto risente di un’ansia di concretezza che le posizioni idealistiche sembravano voler risolvere in termini del tutto interni al pensiero. Né del resto la teoria scolastica delle facoltà poteva essere accettata in quanto essa, a loro giudizio, dissolveva l’unità del soggetto in un mosaico di potenze agenti autonome e indipendenti. Mario Sturzo contesta l’idea secondo cui ciò che all’inizio viene riconosciuto come separato possa, in un secondo momento, essere congiunto da potenze che sono a loro volta separate. Infatti l’intelletto agente che svolga la funzione unificante e sintetizzante altro non sarebbe che un’altra potenza esterna alle facoltà che sono già in partenza distinte e disgiunte e ciò vorrebbe dire differire ulteriormente il problema perché l’intelletto agente non è in grado di spiegare l’atto inizialmente concreto e sintetico della conoscenza. Anche il tema del rapporto teoria e prassi, molto dibattuto all’epoca, viene risolto dai fratelli Sturzo in termini di sintetismo. L’oggetto della loro riflessione è dunque il concreto, per comprendere il quale, sostiene don Luigi, è necessaria una nuova teoria della conoscenza. Egli scrive che tutta la nostra conoscenza comincia con la intuizione dell’oggetto reale ed esterno, cioè con la diretta cognizione del concreto… La difficoltà centrale che è alla base delle difficoltà di tutte le filosofie, antiche e moderne, va ricercata nella maniera nella quale senso ed intelletto sono congiunti nel singolo atto di conoscere il concreto, cioè nell’operazione della sintesi cognitiva e nel valore che dobbiamo attribuirle… Questo quindi è il problema fondamentale[6]. La conclusione cui i due fratelli pervengono è che «non è il senso che sente, né l’intelletto che conosce, né la volontà che vuole, ma il soggetto, l’uomo, che in unità sintetica sente con i sensi, conosce con l’intelletto, e vuole con la volontà»[7]. In altre parole non può essere ammessa una conoscenza senza sensazione e senza una volontà, così come non può aversi una volizione senza sensazione e conoscenza. La base della conoscenza, infatti, è un’esperienza simultaneamente sensitiva e classificatoria, affettiva e volitiva, teoretica e pratica. E tale base […] viene chiamata “esperienza”; è una sintesi poiché è esperienza del molteplice ridotto ad unità[8]. In sostanza il neosintetismo sturziano si fonda sulla priorità della sintesi sull’analisi. Quest’ultima, infatti, non è altro che un’indagine su una sintesi, ragion per cui assume significato solo finché vive nella sintesi. Occorre perciò superare la teoria delle facoltà[9] elaborata dagli scolastici ed abbracciare il punto di vista di S. Tommaso secondo il quale il conoscente è l’uomo e non le facoltà[10]. Ma che cos’è l’uomo? L’uomo è una sintesi di elementi che agiscono secondo una relazione rapportuale: tali elementi attengono alle sfere della fisiologicità, della sensitività e dell’intellettività. Il centro della teoria del neosintetismo è proprio l’idea della rapportualità, del soggetto come creatore di relazioni. L’armonia e il progresso del creato è possibile in quanto il mondo non è un sistema di realtà chiuse e indipendenti le une dalle altre, ma è un’unità organica in cui ogni ente si pone in relazione con gli altri enti e stabilisce rapporti che danno vita a diversi processi di sintesi. L’uomo è il soggetto cui compete guidare il progresso del creato perché la sua coscienza è in grado più di qualsiasi altro ente terreno di operare una sintesi elevata in quanto, non essendo risolvibile nei suoi elementi conoscitivi, possiede i caratteri più evidenti di unità e rapportualità. L’intelletto umano in sostanza obbedisce ad una legge fondamentale per cui è spinto a pensare le cose nelle loro relazioni costitutive. Secondo i fratelli Sturzo ciò non è altro che una manifestazione dell’assunto universale secondo il quale vi è una connessione organica di tutto l’esistente cosicché la conoscenza risulta essere un’interiorizzazione oggettiva di rapporti relativi, poiché il soggetto è in grado di conoscere solamente ciò che è in grado di rapportare a se stesso per mezzo di un atto di cognizione creativa. Don Luigi, a tal proposito, si mostra critico nei confronti degli idealisti, i quali avevano sì affermato con convinzione che senza immanenza non è possibile la conoscenza, ma «non trovando alcuna relatività fra un mondo esteriore esistente e la mente e lo spirito che conosce, essi negarono il mondo esterno; per loro tutto è spirito». Al contrario il neosintetismo riconosce il mondo esterno come obiettivo e quindi distinto dal soggetto, e nello stesso tempo lo riconosce come relativo al soggetto, poiché entrambi trovano un principio di omogeneità nella natura fisica, egualmente presente in entrambi. […] Secondo il neosintetismo l’oggetto al contatto fisico col soggetto diviene in esso immanente, cioè a dire attua la propria relatività come oggetto in sintesi col soggetto[11]. Per cui il mondo si presenta come ampio e complesso sistema di sintesi e relazioni, cosicché ogni essere è una sintesi e tutti gli esseri sono relazionali. Da queste considerazioni discende la visione organica del mondo enunciata da don Luigi: «esso è organico perché ogni sintesi che completa il mondo prende e dà, prende risolvendo in sé le attività affini che emanano da altre sintesi; dà emanando intorno a sé parte della sua attività»[12]. In queste riflessioni sono rintracciabili anche influssi di kantiani, se il soggetto può conoscere se stesso come soggetto soltanto conoscendo l’oggetto. Perché l’individuo possa avere una piena concezione di sé, secondo la visione kantiana, è necessario che egli abbia un’intuizione della molteplicità delle sensazioni. Sposando queste tesi, i fratelli Sturzo sostenevano che è proprio l’attività creativa dell’intelletto umano a dare vita all’atto conoscitivo e a sostenerlo. Se la prima legge del neosintetismo è quella della rapportualità, la seconda è quella della storicità. Il metodo storico è alla base dell’elaborazione filosofica di don Sturzo e segue un’impostazione diversa da quella comunemente accettata: la novità che egli apporta consiste nel tentativo ‹‹di innestare il tema della storicità dell’essere umano sul tronco di una nuova teoria dell’agire sociale››[13]. Egli, in altre parole, predilige uno studio che non si fondi sulla storia tout court, bensì su una “fenomenologia della processualità”. La premessa è una concezione secondo cui l’uomo si configura come un essere essenzialmente storico, che si forma e si struttura nella storia e perciò può essere compreso soltanto attraverso una sintesi fra il metodo storico-sociologico e quello filosofico. Occorre a questo punto una precisazione: Sturzo procede ad un ribaltamento del metodo classico di ricerca tipico della sociologia, della storia e della filosofia: secondo la sua visione è storico il vedere le cose – i fatti sociali – così come queste fenomenologicamente si danno, mentre è meramente teorico, nel senso astratto della parola, mantenerle là in un loro presunto passato sottratto esso stesso alla processualità storica e sociale[14]. Perciò la storia, a suo avviso, non può essere soltanto una collocazione statica dei fatti del passato secondo un criterio cronologico, ma va intesa come la capacità di porsi nella situazione e nel momento del passato che si sta analizzando. Secondo Sturzo il contesto in cui ha avuto luogo un evento può spostarsi nel presente all’infinito e non può mai essere statico. Scriveva, infatti, che ogni momento del processo, intanto è realtà in quanto è presente. Il passato non è che l’accumulo di esperienze umane che danno valore al presente. Il presente è pertanto l’esistenza o coesistenza degli esseri e il passato è il processo che li ha resi esistenti nella concretezza della loro attuale realtà. Ma il presente umano non è un che di statico e definitivo[15]. Dunque la storia deve essere intesa come processo, come sistemazione, ma anche come coscienza, tant’è che la storicizzazione si configura come un fatto della coscienza collettiva. Ecco la definizione che Sturzo stesso dà del suo storicismo: ‹‹per noi lo storicismo è la concezione sistematica della storia come processo umano, realizzantesi in virtù di forze immanenti, unificato nella razionalità, però da un principio e verso un fine trascendentale assoluto››[16]. Il neosintetismo si rintraccia nell’idea secondo la quale l’attività umana deve per l’appunto essere analizzata con un approccio storico-sintetico che abbraccia i risultati delle varie epoche, dell’antica, della medievale e della moderna. La soluzione di ogni problema attuale perciò, secondo questa impostazione dei fratelli Sturzo, deve essere il risultato di una sintesi storica. Occorre domandarsi quali siano le fonti da cui don Luigi ha maggiormente tratto ispirazione per le sue elaborazioni filosofiche. Fu egli stesso, in una lettera privata che spedì ad Alfred Di Lascia, a rivelare i nomi dei pensatori che sono stati per lui motivo di particolare suggestione: si tratta di Sant’Agostino, Leibniz, Vico e Blondel[17], ma si avvertono nella sua riflessione molteplici echi idealistici rivissuti quasi per contrasto. S. Agostino e Vico, in particolare, hanno fornito a Sturzo il sostrato sul quale sviluppare il suo storicismo. Essi, infatti, estranei all’impostazione tomista ufficiale, ritenevano che le verità di fede possedessero un’intima connessione con l’esplicarsi della vita degli uomini, i quali conducono la loro esistenza in una dimensione storica, espressione del loro tempo esistenziale, che non coincide affatto con il parametro temporale risultante dal movimento ciclico della natura. La filosofia della storia di Vico e in particolare il suo assunto secondo cui occorre ricercare la legge dei fatti esteriori nella legge interna delle facoltà umane, rappresentano la testa di ponte da cui Sturzo ha preso le mosse per la sua elaborazione[18], così come l’idea agostiniana secondo cui la storia è indirizzata dall’azione di Dio che intende perseguire attraverso di essa i suoi imperscrutabili fini affidandosi alla libertà e all’iniziativa degli uomini. Riferendosi al pensatore napoletano, Sturzo scrive che il grande filosofo moderno della storia non è Hegel, è Vico, colui che meglio ha visto la relazione intima tra il fare e il conoscere, che ha rilevato il valore del pensiero vissuto negli avvenimenti, l’involucro della realtà nella leggenda e nella poesia; colui che ha intuito per primo la processualizzazione storica. Le due demarcazioni moderne della teoria della storia, la immanentistica pura e la immanentetrascendente, non possono non prendere il punto di partenza da Vico[19], il quale, afferma il sacerdote siciliano in altra sede, ‹‹emana fasci di luce su tutto il moto del pensiero della sua epoca, sulla storia, sulla filologia, sul diritto naturale, sul problema della religione naturale e della rivelazione, sull’etica e sulla politica››, nonostante ‹‹vi sono tanto nel suo pensiero quanto nel suo stile delle opacità che lasciano perplessi e delle lacune incolmate››, in particolar modo nel campo della filosofia politica, dove egli si pone l’imperativo di ‹‹non urtare il regime del suo tempo›› spingendosi fino ad ‹‹indulgere un poco all’adulazione, che nel periodo di Carlo III di Borbone rispondeva ad uno stato di euforia nazionale e paternalista del nuovo regno autonomo delle due Sicilie››[20]. Inoltre, secondo Sturzo, Vico ha offerto un contributo non trascurabile per il superamento dell’astrattismo razionalista di Cartesio, del naturalismo sentimentale di Rousseau nonché della corrente antistorica dell’illuminismo enciclopedico[21]. Per quanto concerne S. Agostino, don Luigi si lasciò affascinare non solo dalle sue riflessioni sulla storia, bensì anche dal suo approccio alla dimensione mistica, polemizzando per taluni aspetti con il fratello Mario. I due, infatti, avevano una diversa concezione dell’intuizione di Dio: per il vescovo di piazza Armerina l’uomo può arrivare a concepire l’Altissimo soltanto operando una dissociazione di anima e corpo, poiché l’anima conosce sempre attraverso l’intelletto e la volontà e non attraverso i sensi. Don Luigi, invece, ripudiava una simile impostazione in quanto, a suo avviso, non si può concepire il composto umano che sinteticamente. Se la funzionalità di un organo o complesso di organi è sospesa a vantaggio di altri, ciò è insito all’economia del composto e non è affatto una dissociazione. Per mio conto – affermava – non ammetto la possibilità dei concetti puri senza qualsiasi aiuto sensibile. Per me ogni concetto si incarna. Quindi io sono per la impossibilità naturale della intuizione pura di Dio[22]. Egli, tuttavia, operava una distinzione tra la cognizione che l’Altissimo infonde direttamente nell’anima e la cognizione mistica: nel primo caso le facoltà intellettive e volitive dell’individuo non cessano di funzionare, ma affinché si possa raggiungere l’unione spirituale con Dio è necessario che esse vengano ridotte ad uno stato che il sacerdote siciliano definisce “di morte mistica”, cioè senza che avvenga una dissociazione tra anima intellettiva e sensi. Nel secondo caso, invece, ammetteva un’interruzione delle facoltà sensibili, un’alienazione dei sensi. Don Luigi meditò a lungo anche sulla riflessione di S. Agostino in merito alla teoria della guerra giusta. Il diritto bellico e la sua liceità furono temi centrali nella riflessione del prete calatino. Egli, sostenitore del superamento del diritto di guerra e dell’illiceità del ricorso alle armi in qualunque situazione, si scagliò contro la dottrina classica della guerra giusta che vedeva come principale ideatore proprio S. Agostino, il quale aveva gettato le basi di quella che fu poi l’elaborazione dei canonici e degli scolastici. Sturzo scrive che il santo di Tagaste proclama il concetto della guerra giusta per una causa di giustizia intrinseca e non formalistica, cioè la resistenza alla violenza e la difesa del diritto; esclude le guerre di conquista che chiama brigantaggi (grande latrocinium); sostiene che non si debbano fare le guerre per necessità e, assurgendo ad un principio di autorità morale, sostiene che la guerra sia l’esercizio di un potere punitivo contro coloro che fanno il male[23]. Partendo da queste premesse, osserva ancora don Luigi, gli scolastici hanno esperito un tentativo di studio degli elementi morali della guerra attraverso cui individuare i casi in cui essa fosse da ritenersi lecita. Eppure, rileva, la teoria della guerra giusta è sorretta da un insieme di assunti e valutazioni a suo avviso decisamente deboli, a cominciare dall’idea stessa di giustizia su cui dovrebbe fondarsi. Vi è chi ha ricollegato questo concetto a quello di necessità, misurando la giustizia di una guerra con il grado di necessità manifestatosi in una determinata controversia; vi è chi lo ha ricollegato alle cause che hanno scatenato l’evento bellico; vi è, infine, chi lo ha individuato nell’autorità di colui che proclama la guerra. Sturzo mette in luce l’illogicità di tutti e tre questi tentativi: nel primo caso, infatti, la necessità può scaturire anche dall’ingiustizia, come nel caso di uno stato che venga aggredito per non aver voluto provvedere alla riparazione della violazione di un diritto; nel secondo caso, invece, occorre secondo Sturzo tener presente che a scatenare le guerre non sono le cause remote, cioè quelle motivazioni che sono realmente alla base del verificarsi di un conflitto tra stati ma che non costituiscono mai il casus belli, bensì sono le cause prossime, cioè quelle situazioni occasionali che danno vita al conflitto. Ora, osserva il sacerdote di Caltagirone, se si tratta di cause occasionali non è difficile trovare ad esse una soluzione se c’è una reale volontà di farlo[24]. In altre parole non vi è connessione determinante e necessaria fra guerra e le sue cause senza l’intervento della volontà di scatenarla. Nel terzo caso, infine, a suo modo di vedere, l’illogicità dell’assunto è ancora più evidente: quando si verifica un conflitto, infatti, ci sono almeno due autorità contrapposte aventi pari dignità a rivendicare ciascuna per sé la legittimità dell’azione militare promossa, ma una sola può essere dalla parte del giusto, quindi il criterio che ricollega la giustizia di una guerra all’autorità che la proclama possiede un punto debole insormontabile. Inoltre, conclude Sturzo, occorre respingere l’idea che la guerra giusta sia un mezzo legittimo per punire uno stato responsabile di un’aggressione o di un qualsivoglia comportamento scorretto nei confronti di un altro stato o della comunità internazionale: ciò risulta assurdo proprio dal punto di vista giuridico perché è sempre necessario che vi sia un soggetto sopra le parti che svolga queste funzioni che evidentemente non può essere lasciata ad una delle parti in causa. Questa critica alla teoria della guerra giusta che don Luigi sviluppa, costituisce la premessa a ciò che rappresenta uno dei contributi filosofici più suggestivi della riflessione sturziana, ossia l’elaborazione della sua teoria sulla eliminabilità del diritto di guerra. Egli afferma che la guerra avviene in quanto fa parte di determinate strutture sociali; e in quanto parte di queste non può non essere reputata legittima se siano adempiute quelle formalità e condizioni che rispondono alla prevalente coscienza generale del tempo e del luogo e alle consuetudini e convenzioni prestabilite[25]. In altre parole la guerra risulta intimamente connessa alle condizioni concrete della società. Però attenzione: secondo il fondatore del PPI il fatto sociale non si identifica con le esigenze fondamentali della natura umana, che potrebbero configurare la guerra come istituto avente il carattere della necessità; va identificato, invece, con il processo storico, sicché la guerra viene caratterizzata come fenomeno di determinate strutture sociali. Se queste cambiano o si o evolvono, anche la guerra può non solo cambiare ed evolvere, ma decadere, in quanto vengono a mancare i fattori di rapporto fra la struttura sociale e la guerra[26]. Per Sturzo, dunque, occorre respingere l’idea secondo cui sussisterebbe fra natura umana e guerra un rapporto sostanziale avente i caratteri della necessarietà e della fatalità. Tale rapporto va piuttosto interpretato come storico ed evolutivo per cui, al mutare di tutta una serie di elementi per l’appunto di tipo storico e sociale, ‹‹muta la coscienza generale di cui sono riflesso gli istituti storici e le loro particolari concretizzazioni››[27], compresa la guerra. Egli osserva come la storia offra numerosi esempi di istituti che nel corso del tempo sono andati scomparendo in quanto non ritenuti più rispondenti alla coscienza generale del tempo: la schiavitù, la poligamia, la vendetta privata, la tortura, solo per citarne qualcuno. La domanda che occorre porsi allora, afferma, è se possa darsi una coscienza generale che accetti o propugni la proscrizione della guerra come un crimine per tutti i paesi e se tale coscienza si possa concretizzare in un’organizzazione internazionale che la escluda dagli istituti giuridici riconosciuti, in modo tale da garantirsi dai casi criminosi che potessero accadere[28]. Egli è convinto che ciò sia possibile perché la storia testimonia di un cammino dell’uomo, seppur tra mille difficoltà ed indugi, verso una piena razionalità che, con il passare dei secoli, lo porta a ripudiare numerose tradizioni, usanze ed istituti giuridici che da un certo momento in poi reputa contrarie alla sua coscienza, e a sviluppare, invece, istituti, organismi e tradizioni che ritiene maggiormente rispondenti al suo essere razionale e dunque più in grado di garantire il suo benessere e la sua sicurezza. Probabilmente, afferma Sturzo, ciò che non sarà mai possibile eliminare dalla vita dell’uomo e quindi anche dalla comunità internazionale, è l’elemento della lotta, ma che essa debba per forza estrinsecarsi nella guerra non è un assunto accettabile, potendo l’uomo con la sua razionalità sviluppare numerosi altri mezzi pacifici per la soluzione delle controversie[29]. Pare opportuno sottolineare come queste prese di posizione di Sturzo discendano dalla sua specifica concezione del diritto naturale che egli contrappone a quella classica, polemizzando principalmente con Grozio che ne fu il fondatore. Don Luigi, infatti, ritiene che il diritto naturale non debba essere considerato come qualcosa di astratto, di oggettivo, fuori dal tempo e dallo spazio. Ecco riemergere il suo neo-sintetismo e il suo storicismo: scrive che è impossibile pensare l’uomo e la natura umana fuori della relatività e concepire le esigenze e le leggi di natura astratte da ogni rapporto: sarebbe l’inesistente e l’inconcepibile. Uomo, natura, leggi, esigenze naturali ci appaiono sempre nel concreto esistenziale e, quindi, in una forma individualizzata e concreta di rapporti. Questa forma la diciamo storica, non perché la storia a noi nota ci dia i dati del passato, ma perché indica i fatti che, messi in essere, si sviluppano e si esauriscono nel tempo e nello spazio. Entro questo concreto storico noi indaghiamo quelle che si dicono leggi naturali, cioè quelle esigenze fondamentali che corrispondono ai dati caratteristici della natura umana che è insieme sensitiva e razionale; leggi che in una forma o in un’altra appaiono essere costanti, se non come realtà vissute, certo come aspirazioni e norme ideali[30]. In sostanza il diritto, secondo Sturzo, per essere tale deve assolutamente essere riferibile al fatto concreto. Inoltre, attraverso il processo con cui le conquiste del pensiero e della vita umana penetrano nella coscienza, le leggi della natura svelano la loro razionalità che risulta essere l’elemento centrale di ogni esigenza umana. Egli afferma che ‹‹tutto lo sforzo dell’umanità, nel complesso del movimento che noi chiamiamo civiltà, tende ad assimilare ed attuare le leggi di razionalità nel superamento delle leggi di animalità››[31]. Di conseguenza quanto più ogni atto o rapporto umano si configura come rispondente a razionalità, tanto più sarà rispondente a natura. ‹‹Ma il diritto in quanto rispondente a natura è, senza altra qualifica, il diritto che si concretizza storicamente nella società››[32]. Tornando alla riflessione del prete calatino sul diritto di guerra, occorre allora precisare che egli, d’accordo in questo con Grozio, lo considerava parte del diritto di natura, ma di un diritto di natura inteso nel senso poc’anzi descritto ossia in chiave storicistica e neo-sintetica. L’errore dei naturalisti e in genere delle scuole di diritto naturale – affermava – sta nel confondere i termini etici di un diritto con i termini storici di esso e di immobilizzarne l’istituto, quale si trova in un dato momento del processo storico, attribuendo ad esso un diritto oggettivo derivante dalla natura sol perché, in una data epoca della storia, la coscienza comune trovava in esso elementi di razionalità o perché non ripugnava a questa, proprio per mancanza di un’esatta valutazione degli elementi interiori di irrazionalità[33]. Quanto appena messo in luce consente di cogliere lo slancio ottimistico di Sturzo e di svolgere un ulteriore confronto con S. Agostino. Don Luigi, infatti, non è pervaso dal pessimismo agostiniano e, pur condividendo con il santo di Tagaste la visione drammatica dell’esistenza umana, è convinto che il processo storico possa portare a degli sviluppi positivi, quali la conquista del bene, il raggiungimento di una nuova condizione di libertà e la vittoria del razionale sull’irrazionale. Come ha rilevato Felice Battaglia, per il sacerdote di Caltagirone la storia, che si contrae nell’atto, che si raccoglie nella sintesi, è il teatro di un recupero umano-divino. Perciò e da ciò l’aperta speranza sturziana di un mondo liberato, di un uomo che si renda immune dalla alienazione in cui il diritto e la legge, la morale e il dovere trionfano sulla violenza e sulla guerra[34]. Nell’elaborazione del suo neo-sintetismo, il fondatore del PPI, come abbiamo sopra precisato, intende illustrare una stretta connessione tra universale ed individuale sul piano storico, ma senza rinunciare al ruolo della realtà, in special modo all’idea della realtà di Dio. In queste sue riflessioni è possibile scorgere tracce dello spiritualismo contemporaneo soprattutto italiano: egli seguì con molto interesse il contributo della scuola cattolica di Lovanio, principalmente attraverso l’opera di Padre Maréchal, che propugnava il carattere essenzialmente dinamico della conoscenza ed evidenziava la spontaneità del soggetto che rende possibile il passaggio dalla potenza all’atto. Sturzo affermava l’idea ‹‹non solo di una conoscenza che non si scompagna all’amore, pervenendo quindi all’unità di teoria e prassi, bensì anche all’accettazione, nettamente idealistica, del circolo di filosofia e storia››[35]. Queste considerazioni sono senz’altro un lascito di Gentile e Blondel che lo spingono a sostenere l’assunto secondo cui il pensiero è azione, un’azione volta alla concretezza. Del filosofo francese[36], in particolare, Sturzo accoglie il concetto dell’insufficienza dell’ordine naturale per la comprensione dell’essere; tale deficit deve essere colmato dalla trascendenza, l’unica a poter consentire la comprensione sia dell’essere che del proprio io nell’infinito. A ben guardare la “legge di trascendenza”[37] elaborata dal prete calatino si rifà alla dialettica della discesa a spirale enunciata da Blondel: entrambi, infatti, affermano che l’uomo perennemente e totalmente insoddisfatto delle proprie conquiste, intraprende un percorso che, seppur costellato di numerose insoddisfazioni, lo conduce attraverso vari gradi di esperienza alla percezione che il proprio cammino è teleologicamente orientato verso un appagamento che può essere fornito solo da un ente trascendente e assoluto. In questa comunanza di vedute fra i due pensatori c’è però un punto di divergenza che consiste nel fatto che mentre il filosofo francese considera l’agire umano come scollegato dalla complessità ed imprevedibilità del processo storico, Sturzo etichetta il percorso umano teleologicamente teso verso il trascendente e l’assoluto come radicalmente storico ed indiscutibilmente concreto. Al di là di questa differenza, tuttavia, ambedue sostengono l’esistenza di un conflitto che, all’interno di ogni atto umano, svolge un’azione di sviluppo e conduce l’individuo ad una consapevolezza sempre più alta del fatto che, per quanto egli possa sforzarsi, da solo è incapace di raggiungere una totale attualizzazione del suo essere. Inoltre, entrambi si sono schierati contro la convinzione secondo la quale soltanto la ragione nozionale sarebbe capace di produrre un’azione feconda e hanno avanzato la tesi dell’insufficienza dell’azione umana per soddisfare la totalità dei bisogni individuali, rilevando come ciò implichi un’esigenza del trascendente che va accolta in duplice chiave: dal più piccolo al più grande insieme di propositi umani (un genere immanente di trascendenza) e il soprannaturale (un genere trascendente di immanenza). Sturzo, in sostanza, assorbe da Blondel il suo indagare a trecentosessanta gradi l’azione umana comprendendovi sia le convinzioni che i concetti religiosi del credente nell’ambito di un piano rigidamente fenomenologico. Ed occorre rilevare che il pensatore francese concepisce un fenomenologismo che pur essendo principalmente di tipo metodologico, lascia spazio anche alle categorie ontologiche. Come ha messo in evidenza Di Lascia, Blondel è particolarmente teso a proteggere il filosofo da ogni prematura fissazione in un qualunque schema ontologico che anticipi l’intera evidenza fenomenologica. Ed è bene notare che sia il rispetto per l’atto umano positivo, sia la concorrente sospensione di giudizio finché non appaia tutta l’evidenza fenomenologica, sono idee che Sturzo ha di fatto utilizzato per i suoi scopi filosofici, sociologici e storici[38]. Tra i quattro filosofi che Sturzo ha indicato come i suoi autori di riferimento vi è, infine, Leibniz[39]. In particolare ciò che il fondatore del PPI apprezza e riprende della filosofia del filosofo tedesco sono il suo approccio ottimistico, alcune sue riflessioni sui concetti di forza e di sostanza e la sua impostazione storicistica. Quanto all’ottimismo, occorre precisare che esso è di matrice prettamente teologico-religiosa e che non esclude o sottovaluta affatto la costante presenza del male e della sofferenza nel mondo. Del resto l’ottimismo di Sturzo è funzione del suo storicismo, perciò non può essere assoluto, ma deve contemperare la necessità della dialettica del conflitto e la inevitabilità della sofferenza con l’assunto che l’uomo e il mondo hanno tendenzialmente una natura positiva. In sostanza si tratta di un ottimismo moderato frutto di una sintesi dialettica fra ottimismo e pessimismo, sorretto dall’idea secondo cui vi è un dinamismo sociale che produce un processo attraverso cui si perviene al raggiungimento progressivo della razionalizzazione dei fini umani. Ora, nel parlare di processo, Sturzo preferisce non riferirsi ai concetti di progresso o di evoluzione considerando il primo troppo deterministico e il secondo storicamente involontario. Piuttosto ricollega il processo all’idea di sviluppo e così facendo svela chiaramente il suo debito verso Leibniz che fa del concetto di sviluppo il suo tema centrale. Per entrambi ‹‹la concretezza della storia viene colta nel suo sviluppo e comporta quindi un rifiuto del buio e delle vuotaggini dell’astrattismo››[40]; sia Sturzo che Leibniz osservano tutto attraverso la lente di ingrandimento della storia e pongono la massima attenzione nel descrivere la realtà attraverso la realtà stessa senza creare confusione fra gli strumenti concettuali. È il progresso che presuppone lo sviluppo e lo sviluppo la continuità, per cui Sturzo, seguendo Leibniz, è convinto che la legge di progresso debba essere sussunta sotto la legge di continuità, in quanto dovunque troviamo attività, mutazione, sviluppo con una continuità perenne. La legge di progresso rivela uno sforzo perenne di svolgersi, di elevarsi, di perfezionarsi che domina ogni monade, mentre la legge di continuità rafforza l’affermazione che lo sviluppo è radicalmente storico[41]. Il fondatore del PPI, sostenitore della filosofia dell’azione, non può non rimanere colpito dalle considerazioni leibniziane sui concetti di forza e sostanza: il filosofo tedesco, infatti, aveva operato una sostituzione del concetto di sostanza con quello di forza, affermando che ogni corpo, e quindi la natura nel suo complesso, si caratterizza per un insieme tale di attività che il concetto di corpo non deve essere più inteso come estensione, ma piuttosto come forza e attività. Da queste considerazioni nasce il dinamismo concettuale leibniziano che tanta presa ebbe su Sturzo e che si racchiude nell’affermazione secondo cui tutto in natura è attività e la forza è il principio. Nessun corpo può esistere senza moto, né alcuna sostanza senza sforzo[42]. Oltre ai quattro filosofi di cui si è detto, che don Luigi riconosce espressamente come “suoi”, non v’è dubbio che un ruolo importante nella sua formazione abbia avuto anche Kant, il quale con le sue teorie liberali, le sue riflessioni sui nuovi assetti internazionali e i suoi postulati federativi, ha costituito un’essenziale fonte di studio e di ispirazione per il fondatore del PPI. Il kantiano Progetto per la pace perpetua del 1795 ha di certo rappresentato per Sturzo il punto di partenza del suo cosmopolitismo, ma anche dei suoi assunti autonomistici e federalisti. Negli Scritti storico-politici egli afferma che ‹‹il liberalismo del secolo XIX aveva in Kant il suo primo e più grande filosofo››[43] del quale condivide l’idea secondo cui i singoli stati per costituire una federazione dovevano avere un proprio governo popolare libero e accettare i principi di non intervento di uno stato nell’altro; uno statu quo internazionale garantito dalla volontà popolare di non farsi guerra per cupidigia di conquiste o violazione di diritti[44]. Sono questi concetti che Sturzo ribadirà con forza nel secondo dopoguerra inserendosi nel dibattito sull’unione europea assai vivace in quegli anni: scriveva che andava affermato il ‹‹principio che la federazione europea debba includere solo gli stati a regime democratico sulla base delle libertà politiche›› e avanzava l’auspicio che essa potesse ‹‹efficacemente concorrere ad evitare una nuova e più tragica guerra››[45]. Ciò che lo affascinava in modo particolare della proposta kantiana, era l’affermazione di uno Stato di diritto nel quale gli individui si trovassero in una condizione di uguaglianza e libertà resa possibile da un vincolo giuridico in grado di rappresentare lo strumento del benessere e il grimaldello per garantire la libera iniziativa dei singoli. Trasferendo dal piano statuale a quello internazionale tali considerazioni, Sturzo immagina un sistema nel quale ‹‹la federazione fra gli stati non si concepisce più in base ad interessi egoistici da far valere gli uni contro gli altri, ma in base al diritto e alla libertà dei singoli reciprocamente riconosciuti e rispettati››[46]. Ritroviamo queste considerazioni, oltre che in numerosi articoli pubblicati da Sturzo su diverse riviste nazionali ed internazionali, nelle sue due monografie La comunità internazionale e il diritto di guerra e Nazionalismo e internazionalismo[47]. A conclusione di questo saggio, con il quale non ci si propone di fornire una panoramica completa delle fonti filosofiche di Sturzo, ma soltanto di accennare ad alcune di esse, pare opportuno svolgere alcune considerazioni sul legame intercorrente tra il pensiero di Sturzo e la filosofia di Antonio Rosmini. Nei primissimi anni giovanili don Luigi aveva assunto una posizione nettamente antirosminiana, richiamandosi al neotomismo ufficiale. Ciò è testimoniato anche dalla sua collaborazione al periodico “La Favilla”, rivista che si ispirava ai principi della neoscolastica e che si era schierata a favore della condanna del Roveretano, sulla quale Sturzo scrisse al tempo in cui era studente presso il seminario di Caltagirone. Com’è noto, tuttavia, nell’ultima fase dei suoi studi seminariali, egli si discosta dal neotomismo ufficiale: è quello il periodo in cui comincia a manifestare un certo interesse per la gnoseologia rosminiana da cui trae ispirazione per sviluppare la sua concezione dell’uomo quale soggetto agente, sintesi di razionalità e moralità che si manifesta attraverso l’operare pratico. Negli Scritti inediti è presente un suo appunto intitolato La filosofia neotomista e il movimento moderno della filosofia cristiana[48], nel quale egli, seppur in maniera piuttosto sommaria, tenta una ricostruzione dell’evoluzione della filosofia cattolica del XIX secolo. In questo documento esalta la metafisica di Gioberti, Rosmini, Ventura, Mamiani e Conti, definendola il cuore della filosofia italiana dell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Nonostante questi apprezzamenti riteneva che tale metafisica, pur rappresentando certamente ‹‹il lato profondo della verità››, risultava priva ‹‹dell’elemento psico-razionale a posteriori››[49] o operava una confusione fra i mezzi della conoscenza, oppure non riconosceva il giusto valore della vita mentale dell’uomo. A Sturzo premeva fornire una prospettiva moderna della filosofia cattolica tradizionale, un obiettivo che la neoscolastica non era stata in grado di conseguire. Essa, infatti, non aveva saputo aprire un confronto serio e sereno con la filosofia moderna e aveva sottovalutato l’apporto che questa aveva dato alla conoscenza della verità. Bisognava, in definitiva, riconoscere il giusto peso ai risultati cui erano pervenute le scienze moderne, storiche, scientifico-naturali, psicologiche, fisiologiche e biologiche nella conoscenza della natura dell’uomo e della sua attività sociale. Occorreva insomma rivalutare il legame esistente tra l’antropologia e la morale, perché solo così, a suo avviso, era possibile raggiungere il necessario obiettivo di elaborare una filosofia ‹‹come scienza fondamentale della vita, propedeutica al domma nella sua espressione scientifica, mezzo precipuo della riforma sociale dei nostri giorni››[50]. Si trattava di valutazioni e prospettive che costituiscono senz’altro un lascito di Rosmini. Lo studio che Sturzo ha svolto della gnoseologia rosminiana ha rappresentato per lui il superamento del neotomismo ufficiale e l’approdo verso una conoscenza che fosse aperta alle nuove esigenze della società contemporanea, alle nuove istanze culturali, ideali, sociali e politiche, nell’ottica di una filosofia libera da preconcetti fissati da una “filosofia ufficiale”. Alla base del pensiero e della spiritualità di Rosmini vi era il disagio per il dualismo esistente tra la cultura moderna e il tradizionalismo puramente formale cui attingeva il cattolicesimo. Si tratta dello stesso disagio che avvertiva Sturzo, il quale riproponeva l’invito del Roveretano al dialogo tra Chiesa e modernità in modo da produrre un sostanziale rinnovamento della cultura tradizionale cattolica, che avrebbe così potuto acquisire gli strumenti per la comprensione dei nuovi problemi e delle nuove esigenze e proporre per essi soluzioni coerenti con la verità e i principi cristiani. Muovendo dalle suggestioni rosminiane, il sacerdote siciliano sviluppa le sue teorie sulle società dinamiche, le sue riflessioni sulla lotta come principio del progresso sociale e definisce la sua prospettiva di inquadramento storicistico delle diverse forme di processo. È bene sottolineare che Sturzo mostra legami con Rosmini anche nell’ambito della riflessione politica. In particolare iniziò ad interessarsi delle tesi politiche del Roveretano quando, durante la seconda guerra mondiale, decise di dimostrare all’opinione pubblica internazionale che in Italia, nonostante la presenza in quel momento del regime fascista, erano radicate le istanze e i valori democratici. Per far questo ricostruì le origini del pensiero democratico cristiano italiano, analizzando il contributo di alcune figure illustri, tra cui, per l’appunto, Rosmini, del quale fino a quel momento non aveva mai approfondito l’impegno filosofico-politico. Ecco infatti cosa scrisse in una lettera a Nicola Fusco: Ricordo che [Rosmini n.d.r.] era contrario ai partiti in regime costituzionale e mi sembra che piegasse dal lato del conservatorismo di classe. Dico mi sembra, perché mai mi sono occupato di proposito di Rosmini politico, ma della gnoseologia solo di Rosmini filosofo; io per qualche tempo ne adottai certe vedute insegnando la logica[51]. Sturzo all’epoca cercava di capire il grado di inclinazione democratica del Roveretano; l’idea che se ne fece, pur basandosi, a quanto sembra, sulla lettura di una parte sola dei suoi scritti[52], era che Rosmini ‹‹fosse costituzionalista ma non democratico››[53]. Evidentemente, come è stato rilevato[54], Sturzo non ebbe modo di leggere La costituzione secondo la giustizia sociale con un Appendice sull’unità d’Italia[55], altrimenti avrebbe senz’altro colto sia la critica rivolta da Rosmini alle costituzioni francesi, sia, soprattutto, che il suo progetto costituzionale si fondava sulla rappresentanza degli interessi con un suffragio limitato, ma anche sul suffragio universale per l’elezione dell’Assemblea costituente e per la nomina dei membri del Tribunale politico, il quale avrebbe dovuto svolgere le funzioni di controllo sulla costituzionalità delle leggi e di soluzione dei conflitti fra potere esecutivo e potere legislativo. Si sarebbe in sostanza reso conto che Rosmini aveva a cuore un ordinamento che conciliava il principio liberale con quello democratico. Tuttavia è interessante osservare come Sturzo, pur non avendo un’approfondita conoscenza del contributo filosofico-politico del Roveretano, riprenda la sua concezione del primato della giustizia e del diritto sulla politica. L’idea del sacerdote siciliano, infatti, è che gli attori politici non possono arrogarsi la facoltà di stabilire quali debbano essere i valori assoluti che devono regolare le società che governano o che vorrebbero governare: tale ruolo, a suo avviso, spetta alla religione e alla morale. Essi tutt’al più possono fissare quei valori relativi e contingenti necessari alla soluzione delle questioni di carattere politico, giuridico, economico e sociale. In queste considerazioni non possiamo non scorgere gli echi delle riflessioni espresse da Rosmini nei volumi La società ed il suo fine e Filosofia della politica[56]. Sturzo sosteneva che la democrazia possiede un fondamento etico-religioso ed etico-politico che si regge sul valore metaempirico della persona e della dignità umana ed affermava che alla sua base doveva esserci il primato della giustizia e del diritto sulla politica. In quest’ottica egli recupera la critica al perfettismo svolta da Rosmini[57] secondo cui andava respinta l’idea che le società possano trovare la soluzione ad ogni loro problema solo se i governi lo vogliono. Il Roveretano, come Sturzo, fu un instancabile difensore dei cittadini e dei corpi intermedi contro le prevaricazioni di uno stato onnipotente. I due condividevano la repulsione verso quelle forme di statalismo che portano ad una monopolizzazione dell’attività politica e ad un indebolimento dell’istituto della rappresentanza e contestavano il sistema partitocratico che produce una serie di disfunzioni del sistema costituzionale democratico e una forte commistione fra pubblico e privato. Don Luigi, in fondo, nello svolgere la sua riflessione sui rischi della partitocrazia[58] e sul primato del diritto sulla politica, segue con passo deciso la linea tracciata da Rosmini. ‹‹La coscienza morale, il senso della responsabilità, l’avvertenza del limite, sono per Sturzo, rosminianamente, i principi costitutivi lo “spirito”della costituzione democratica-rappresentativa, che “esercitano” un continuo controllo sulla politica per mantenerla ed eventualmente riportarla nell’ambito delle norme e dei fini della costituzione››[59]. [1] Cfr. Gabriele De Rosa (a cura di), Carteggi Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1985. Oltre che da questi carteggi è possibile ricavare i capisaldi della riflessione filosofica di Mario Sturzo anche dalle sue seguenti opere: Il neosintetismo come contributo alla soluzione del problema della conoscenza, Vecchi e C., Trani, 1929; Il pensiero dell’avvenire, Vecchi e C., Trani, 1930; Il problema della conoscenza: lezioni di filosofia per i licei secondo i nuovi programmi, Società editrice libraria italiana, Roma, 1925; La filosofia in azione: dramma in tre atti; idealismo applicato, Vecchi e C., Trani, 1928; Intorno all’estetica di Benedetto Croce, Letture domenicali, Palermo, 1921; Problemi di filosofia dell’educazione, Vecchi e C., Trani, 1929. Mario Sturzo era di circa dieci anni più grande di don Luigi e fu nominato nel 1903 vescovo di Piazza Armerina da papa Leone XIII, carica che ricoprì per trentotto anni, fino al 10 novembre 1941, data della sua morte. Fu uno stimato pastore della Chiesa, dedito agli studi scrisse più di trenta volumi nei quali affrontò temi filosofici, teologici, letterari e pastorali. Fu anche poeta ed autore di drammi sociali. [2] Va osservato che per molti anni il carteggio intercorso tra i fratelli Sturzo è stato colpevolmente sottovalutato dagli studiosi che non hanno colto la forte rilevanza che esso aveva ai fini di una ricostruzione della speculazione sturziana. Il merito di aver riscoperto il valore di questi documenti va ascritto ad Alfred Di Lascia, il quale utilizzò tale materiale (più di duemila tra lettere e cartoline) come base per la stesura della sua opera Filosofia e storia in Luigi Sturzo, edita nel 1981 da Cinque Lune, che ancora oggi rappresenta uno dei più alti contributi nella ricostruzione del pensiero del sacerdote siciliano.
Posted on: Wed, 10 Jul 2013 19:30:39 +0000

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