I nuovi atei Dopo l’antireligione, si fa strada un pensiero - TopicsExpress



          

I nuovi atei Dopo l’antireligione, si fa strada un pensiero laico aperto al dialogo Il picco del successo editoriale i «missionari» dell’ateismo lo hanno raggiunto nel decennio passato, tra il 2004 e il 2007, quando uscirono l’uno vicino all’altro La fine della fede di Sam Harris, il Trattato di ateologia di Michel Onfray, La delusione di Dio di Richard Dawkins, Rompere l’incantesimo di Daniel Dennett e Dio non è grande di Christopher Hitchens. A conclusione del ciclo, nel 2009, la campagna pubblicitaria di Dawkins arrivò sugli autobus annunciando che «probabilmente Dio non c’è, adesso smettila di preoccuparti e goditi la vita». Il biologo inglese suggeriva contemporaneamente di sostituire negli alberghi di tutto il mondo la Bibbia con La fine della fede. Ma la cosa non si fece. Ora questa fase sembra passata e l’aggressione antireligiosa lascia il passo a riflessioni più moderate. Parlo di «aggressione» perché la linea di attacco dello scienziato del gene egoista è esplicita: il suo bersaglio sono proprio gli agnostici o anche gli atei tiepidi, che manifestano un senso di rispetto per le credenze religiose «degli altri». È quel rispetto che, per Dawkins, va contestato sul piano del discorso, non attaccando certo la libertà religiosa, ma negandone la dignità intellettuale. Sul settimanale inglese Spectator, il teologo Theo Hobson ora tira le somme del decennio e può scrivere che «Dawkins ha perso»; la fase più acuta della febbre «dawkinsiana» è passata, per lasciare il posto, anche tra gli atei, a una nuova interessante conversazione. L’onda lunga della predicazione antireligiosa era cominciata indubbiamente l’11 settembre del 2001: un attacco terroristico di quelle dimensioni, condotto nel nome del Dio dell’Islam, provocava una catena di reazioni all’insegna della frustrazione dei laici che avevano scommesso sulla liquidazione delle tradizioni di fede. Con l’attacco a Twin Towers fu subito annusato il «cattivo odore» (Nietzsche) della religione: Harris dichiarò di aver cominciato a scrivere il suo pamphlet quel giorno stesso. Ma ora una serie di editorialisti inglesi, sempre atei, non accetta l’eredità del «duro» Dawkins, è imbarazzata dall’idea, arrogante, di definire bright (brillante, sveglia, intelligente) la propria posizione contro l’«idiozia» della fede, rifiuta insomma l’attacco generalizzato. Lo scatenato polemista Hitchens, scomparso un anno e mezzo fa, non aveva alcuna difficoltà a dichiararsi, come Dawkins, furiosamente ostile alla religione non solo perché falsa e non solo contro il male commesso in suo nome, ma perché essa è un male in sé: la religione uccide, danneggia la salute, avvelena ogni cosa, addestra alla malvagità e abusa dei minori. E così, secondo lui, tutte le religioni, compresi i buddisti, il Dalai Lama e Madre Teresa di Calcutta, in particolare, contro la quale promosse una campagna denigratoria, accusandola di amare e sfruttare la povertà degli altri. Dawkins, con piglio più analitico, si scaglia contro tutti tentativi di provare o sostenere l’esistenza di Dio da Sant’Anselmo a Pascal fino ai simposi contemporanei della Fondazione Templeton sulla compatibilità tra scienza e fede. E si addentra fin nel calcolo sperimentale dei rapporti tra le preghiere per gli ammalati e le percentuali di guarigione, dimostrando «scientificamente» quel che, per altro, si sospettava: che la preghiera non funziona come un antibiotico. Dawkins non prende seriamente in considerazione l’idea che, invece, si affaccia in una pubblicistica filosofica più recente in forma popolare con Julian Baggini (la rivista Prospect) e Alain de Botton (Del buon uso della religione, 2012), secondo i quali i tentativi di dimostrare la non esistenza di Dio sono un gratificante intrattenimento per atei, ma ancora più interessante è, una volta deciso che Dio non esiste, spostare l’argomento e cercare di riconoscere le buone ragioni per cui abbiamo inventato la religione. Con la religione la nostra specie ha affrontato problemi che la società secolare non è stata capace di risolvere con particolare abilità: elaborare il dolore che nasce dalla nostra vulnerabilità, dalla morte dei nostri congiunti, alimentare la coesione delle comunità, controllare gli impulsi egoisti. Guardando a come la religione funziona, nel definire spazi architettonici per la spiritualità, nell’ispirare arte, gentilezza, metodi per imparare, per concentrarsi, cerimonie e riti che aiutano la vita delle comunità, potremmo ricavarne anche qualche insegnamento. In questi ultimi anni una serie di interventi sulle riviste americane e inglesi (Ian Buruma, Zoe Williams, Tanya Gold) ha ridicolizzato l’idea che le religioni in se stesse siano responsabili di iniquità verso le donne o di maltrattamenti per gli omosessuali. La pretesa avanzata dalla scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali che solo diventando atee le donne musulmane possano scrollarsi di dosso la sottomissione al tutoraggio maschile è stata criticata a fondo dalla iraniana Shirin Ebadi: più forte e concreta la ribellione femminile dall’interno della propria cultura musulmana, contro l’eredità di una tradizione sociale oppressiva. Certo il tema di tutte le tradizioni religiose del Medio Oriente (ebraismo, cristianesimo, Islam e altre ancora) che si sono definite attraverso il disprezzo per il corpo della donna (Polly Toynbee) rimane aperto, ma è una sfida capace di modificarle: si sconsigliano progetti di ateizzazione forzata in stile giacobino o bolscevico. Ai nostri giorni la atea British Humanist Association promuove non gare verbali sulla esistenza di Dio, ma la sua offerta educativa e riti e servizi (matrimoni, funerali, «battesimi») in competizione con quelli religiosi e con officianti non credenti. Il cambiamento di stagione, che la stampa inglese registra, ha alle spalle non solo questi aspetti di cultura diffusa, ma anche lavoro filosofico e pensiero politico. È stato John Gray, il più noto allievo di Isaiah Berlin, a definire «atei evangelici» gli adepti di Dawkins, attribuendo così una impronta missionaria e paradossalmente «religiosa» alla loro predicazione della miscredenza, dietro la quale ricompare l’aspetto monista dell’Illuminismo: una sola è la risposta giusta a tutte le domande della storia del pensiero umano. Quella forma di ateismo, in realtà, in una prospettiva pluralista e berliniana, finirà forse accademicamente per trovar posto nei Dipartimenti di studi religiosi, come una setta contemporanea, non meno di quella dell’intelligent design. Del resto, sullo sfondo degli ultimi dieci anni, a partire dal dialogo tra Jürgen Habermas e Ratzinger nel 2004, la riflessione «post-secolare» si è affermata largamente in Europa, suggerendo un atteggiamento più prudente, da parte laica, nei confronti delle fedi, possibili depositarie di una «riserva semantica», e cioè di risorse di senso che potrebbero tornare utili a una società liberale che ne scarseggia. Così come pensiamo giusto tutelare la varietà delle lingue, anche la varietà delle religioni contiene una valore di pluralità da difendere: è un principio di precauzione per la tutela della specie. Se poi cerchiamo le cause di questo calo della popolarità dell’ateismo missionario, troveremo forse qualche risposta nel cambiamento generale di spirito, sotto i colpi del crash economico del 2008. La più grande ricerca mai fatta sul piano globale circa l’ateismo nel mondo è quella di Ronald Inglehart (Human Values and Beliefs) e mostra una correlazione significativa tra ateismo e sicurezza sociale: a parte i regimi laici autoritari, le percentuali di non credenti sono più alte dove più forte è lo stato sociale, più basse dove è più debole. I tempi di crisi e incertezza sul futuro non si addicono dunque ai brights. di Giancarlo Bosetti Repubblica
Posted on: Sun, 07 Jul 2013 14:13:26 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015