IL VITELLO D’ORO (Esodo 32, 1-35) In mezzo alle leggi - TopicsExpress



          

IL VITELLO D’ORO (Esodo 32, 1-35) In mezzo alle leggi rivelate a Mosè si apre ora nel libro dell’Esodo una specie di sosta spirituale che è però segnata da toni oscuri e drammatici. Al dono dell’alleanza e della parola divina Israele reagisce con quel peccato capitale che macchierà spesso la storia del popolo ebraico: l’idolatria. Il disordine nel cap. 32 ha indotto gli studiosi a sostenere che la narrazione dell’apostasia è un’aggiunta al teso della Tradizione Jahwista, introdotta per giustificare la condanna del culto istituito da Geroboamo I a Dan e a Betel (1 Re 12,28). Tra i problemi che solleva il cap. 32, vi sono quello del ruolo di Aronne e quello della punizione che è inflitta. Nel v. 4 è Aronne stesso che fabbrica il vitello d’oro, mentre nel v. 24b la sua responsabilità appare senz’altro minore. Nel v. 20, Mosè punisce gli orgiasti facendo bere loro l’acqua in cui aveva sparso la polvere del vitello minutamente frantumato. I vv. 26-29 descrivono la vendetta per mano dei Leviti (un’aggiunta della Tradizione Sacerdotale che vorrebbe spiegare la futura importanza dei Leviti). Infine, nel v. 34, il castigo non è specificato ma siamo avvertiti che Jahwè punirà il popolo a suo tempo. Il TM (“Testo Masoretico” da “masòra” in ebraico “tradizione” è l’insieme degli studi filologici e critici condotti sul testo ebraico dell’A.T. da dotti rabbini (masorèti) durante i sec. V-X d.C. al fine di fissare e assicurare la retta pronuncia nella lettura sinagogale. Si distinguono due tipi di “masora”: quello orientale o di Babilonia e quello occidentale o di Tiberiade (Palestina). Il testo masorèta ha grande importanza nella tradizione del testo biblico e per la sua interpretazione. Tra le varie scuole si è imposta quella palestinese di “Ben Asher”, che dà il testo comunemente accolto) menziona con chiarezza la richiesta del popolo ad Aronne, perché egli faccia “degli dèi che vadano innanzi a noi”, (sia il nome sia il verbo sono al plurale). Gli Israeliti, poi, si prostrano in adorazione davanti a questo idolo, esclamando: “O Israele, questi sono – plurale nel TM – i tuoi dèi che ti hanno tratto – plurale nel TM – fuori dalla terra d’Egitto”; il plurale usato sembra senz’altro una polemica contro i due vitelli installati da Geroboamo, quando alla morte di Salomone, diede inizio allo scisma politico e religioso di Gerusalemme, introducendo in Israele questo culto idolatrico. Difatti i “due vitelli” furono posti, l’uno al confine settentrionale del regno da lui inaugurato e strappato a quello di Gerusalemme (fondato da Davide e Salomone) e l’altro collocato alla frontiera meridionale. Le sue parole, riferite in 1 Re 12, 29-29 (“Ecco il tuo Dio, Israele, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”), sono, infatti, citate anche nel nostro racconto e messe in bocca al popolo. Violando il primo e principale comandamento del Decalogo (Es. 20, 3-6), Israele si abbandona al fascino dei culti della fertilità, praticati dai popoli circostanti, e un toro d’oro forte e fecondo come il simbolo del dio cananeo Baal o come il toro egiziano Api, incarnazione di Osiride, sostituirà Jahwè. Vitello e toro, infatti, erano considerati, dalle popolazioni dell’antico Oriente, simboli di forza e di fecondità e perciò associati alla divinità. In Egitto era molto diffuso il culto del bue (o toro) Api. Questa immagine si trovava nel tempio della città di Eliopoli, presso l’attuale Cairo, mentre l’immagine del toro Mnevis era venerata nella città di Melfi. Il toro, chiamato nel racconto spregiativamente “vitello”, è preparato con materiali preziosi offerti dal popolo e – contrariamente a quanto si ritiene – non è l’immagine di Jahwè, ma solo il piedistallo della divinità invisibile, com’era l’arca. Si tratta, quindi, della riduzione del Signore alla forma magica di in idolo. Jahwè “informa Mosè del peccato del popolo”. Questi versetti provengono necessariamente da una fonte diversa da quella del v. 18 in cui Mosè sembra ignaro di ciò che sta succedendo nell’accampamento. La narrazione si trasforma in una dura requisitoria contro il peccato d’apostasia (cioè di abbandono della propria fede) dalla purezza religiosa e, indirettamente contro la classe sacerdotale rappresentata da Aronne, dimostratosi incapace di tutelare questa purezza. Il gesto di Israele, accompagnato da una liturgia idolatrica, scatena l’ira divina che vorrebbe distruggere il popolo ribelle. Mosè, allora, si riveste della funzione di intercessore, il cui compito è quello di “addolcire il volto del Signore”. Egli lo fa attraverso una supplica che contiene tre argomenti per placare la giustizia divina. Due ragioni sono “storiche”, cioè appellano alla promessa divina fatta ai patriarchi e alla liberazione dell’esodo, segni di un amore indistruttibile per Israele: neppure il peccato più grave potrà eliminare l’impegno della salvezza assunto solennemente da Dio a favore del suo popolo. L’argomento più curioso è, invece, di tipo “apologetico”, cerca cioè di difendere l’onore di Dio presso gli Egiziani. Costoro, infatti, qualora vedessero Israele sterminato nel deserto, crederebbero che il Dio d’Israele è inesistente e crudele, incapace di salvare il suo popolo: “Li ha fatti uscire con malizia, per ucciderli sui monti”. Mosè riesce, così, a convincere Dio di non applicare la sua rigorosa giustizia e s’avvia verso l’accampamento in festa. Presso gli antichi la danza accompagnava le feste e le celebrazioni sacre. Mosè, scendendo dal monte, stringe tra le mani le due tavole, “scrittura di Dio” sacra e intoccabile. Lo accompagna il suo futuro successore, Giosuè, quest’ultimo illuso che i canti che si odono siano di guerra e non rituali idolatrici. Di fronte alla festa sguaiata del popolo scatta la reazione veemente di Mosè che spezza le tavole sulla roccia e queste tavole infrante sono il segno evidente della rottura dell’alleanza tra il Signore e Israele. Poi Mosè frantuma e polverizza il vitello d’oro, dissolvendone i resti nell’acqua, dove il popolo si disseta, simbolo questo della loro incorporazione col peccato, penetrato nelle loro più intime fibre. Dopo il delitto del vitello d’oro, Mosè e Aronne si affrontano in un incontro serrato in cui il Sacerdote Aronne cerca di giustificare il suo comportamento remissivo nei confronti del popolo, desideroso soltanto di rappresentare il Signore in modo concreto e immediato, così come facevano le altre nazioni circostanti. Il popolo, anche adesso che ha sperimentato la collera di Mosè non riesce a frenarsi sulla china dell’idolatria. Mosè, allora, fa scattare il giudizio sul peccato ostinato. Chiama a raccolta tutti i fedeli alla purezza della religione. Al suo fianco si schierano i Leviti, custodi dei santuari locali e poi del Tempio di Gerusalemme. Esodo 32,26 mette in risalto la loro fedeltà a Dio e a Mosè, mentre Esodo 32,29 allude al loro importante ruolo nella comunità religiosa di Israele. C’è, quindi, una distinzione tra il sacerdozio in senso stretto e gli altri membri della comunità liturgica, i Leviti, appunto. Questi ultimi si rivelano zelanti nel difendere la causa della fede pura. La distinzione qui suggerita rimanda a un’epoca successiva in cui esisteva una separazione di grado e di funzione tra sacerdoti e leviti. Si assiste, secondo lo stile orientale, a una strage santa: senza guardare in faccia a parenti o amici, i Leviti passano a fil di spada uomini del popolo. L’enfasi che si nota nel racconto, e che ha lo scopo di esaltare l’assoluta e inviolabile integrità della fede biblica da ogni contaminazione, ci fa capire che questo evento macabro ha un valore simbolico. Il senso forte della giustizia divina e della lotta all’idolatria è espresso in maniera esasperata. Il numero delle persone uccise dai Leviti è di 3.000. La volgata traduce 23.000 (per influsso di 1 Cor. 10,8). Si capisce chiaramente che questi vv. 25-29 sono da interpretare in chiave eziologica: l’episodio servì per giustificare la posizione dei Leviti nel culto d’Israele. Certo, il cammino verso il perdono divino è ancora lungo, ma è già aperto. Infatti subito dopo Mosè sale sul monte per impetrare da Dio il perdono pieno per il popolo, pronto a desiderare per se la morte, qualora non fosse esaudito. L’essere cancellato dal libro” della vita, significa semplicemente morire. Era convinzione degli antichi che Dio avesse un libro sul quale erano segnate le opere, buone o cattive, di tutti i viventi (Salmo 87,6) e le azioni dei giusti, meritevoli di ricompensa, e quelle degli empi, meritevoli di castigo (Salmo 69,29 “Siano cancellati dal libro dei viventi e tra i giusti non siano iscritti”). Anche nel N.T. è presente questo simbolismo: Lc. 10,20; Apocalisse 20,12. Il Signore, placato da Mosè, invita gli Israeliti a proseguire nella marcia verso la terra promessa, guidati dal suo angelo. Dio non smentisce l’impegno assunto con i padri d’Israele. La giustizia divina concede, dunque, una tregua ma avrà la sua attuazione nel “giorno della visita” . Con questa espressione si vuole alludere all’intervento definitivo che il Signore compirà all’interno della storia, quando egli condannerà il male in maniera conclusiva e offrirà in pienezza la sua salvezza. Una distanza ormai s’è frapposta tra il Signore e il popolo di “dura cervice”, cioè ostinato nella ribellione e nel peccato. Dio, infatti, per ora non vuole camminare accanto a Israele ancora impuro, sarà rappresentato solamente dal suo angelo. Gli Israeliti, intanto, si rattristano facendo sbocciare il seme della conversione. Decidono, così, di abbandonare gli ornamenti, segno della festa peccaminosa a cui si erano abbandonati.
Posted on: Wed, 21 Aug 2013 19:08:33 +0000

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