Il golpe inglese: la lunga disfida italo-britannica ☞ Marco - TopicsExpress



          

Il golpe inglese: la lunga disfida italo-britannica ☞ Marco Valle del 2 aprile 2012 ✎ 1 Commento Per una singolare eterogenesi dei fini, proprio nell’anno in cui si celebravano solennemente i primi quindici decenni unitari, la questione dell’indipendenza nazionale è tornata drammaticamente in primo piano. In molti hanno scorto nella guerra civile libica, nell’aggressione finanziaria e nei diktat europei culminati con il commissariamento “montiano”, un disegno di ridimensionamento della nostra sovranità politica ed economica. Tutte fantasie? Semplici ubbie? Riteniamo di no. Al netto del complottismo e delle paranoie, l’Italia berlusconiana, nonostante tutte le sue contraddizioni e tutti i suoi ritardi e ingenuità, aveva incrinato collaudati equilibri geopolitici, rotto schemi economici pluridecennali, insidiato mercati sino a ieri preclusi. Un’Italia non più subalterna ma moderatamente protagonista non poteva non infastidire; da qui le manovre delle cancellerie europee e transatlantiche, l’ostilità dei potentati finanziari e delle centrali speculative straniere. Quando si traccerà — speriamo presto — un bilancio onesto ed equilibrato dell’attivismo internazionale dei governi Berlusconi, avremo finalmente una lettura chiara degli eventi di questi mesi e tanti lati — ancora oscuri e confusi — potranno essere decifrati e interpretati compiutamente. Rileggendo le vicende di oggi probabilmente ritroveremo nomi, sigle, bandiere, strategie di ieri e dell’altro ieri: una somma di presenze straniere ingombranti quanto incombenti nell’intera nostra storia unitaria. In attesa della scrittura di uno dei capitoli più intriganti della saga berlusconiana vale perciò la pena di leggere “Il Golpe inglese” (Chiare Lettere, Milano), l’ultimo lavoro di Giovanni Fasanella, già autore di libri inchiesta sulle ”dimensioni nascoste” della politica nazionale come “Segreto di Stato” (con G. Pellegrino), “Che cosa sono le BR” (con A. Franceschini) e “Intrigo internazionale” (con R. Priore). Il libro è importante e, non a caso, dopo una prima ondata d’interesse (“Corriere” in primis) su di esso è sceso il tetro silenzio dei recensori. Ma andiamo per ordine. Con la collaborazione di Mario Josè Cereghino, il giornalista di “Panorama” ha cercato di ricostruire le ingerenze britanniche nelle vicende di casa nostra dagli anni Venti all’omicidio Moro. Frutto di una lunga ricerca degli autori negli archivi di Stato britannici di Kew Gardens — lettere e informative della diplomazia e dell’intelligence, rapporti top secret — l’opera si sforza di chiarire alcuni lati nascosti (e spesso terribilmente spiacevoli) della nostra vicenda interna e dei rapporti con gli alleati occidentali e cerca d’offrire chiavi di lettura innovative su alcuni passaggi nodali del Novecento italiano. Il “Partito inglese” Indagando le politiche albioniche verso l’Italia, Fasanella e Cerenghino hanno ricavato un quadro inquietante: dal primo dopoguerra agli anni Settanta l’approccio britannico si è rivelato un susseguirsi continuo d’interferenze, pressioni, ricatti, operazioni segrete e guerra dichiarata, tutte miranti a “satellizzare” lo Stivale patrio. Dall’analisi dei documenti londinesi, a giudizio dei due ricercatori, si delinea «quello che si potrebbe definire il colpo di stato più lungo della storia, perché durato oltre mezzo secolo: il “golpe inglese” attuato in Italia dal 1924 (anno del sequestro e dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti) fino al 1978 (anno del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro) […] il tentativo complesso e multiforme, per la durata e le tecniche utilizzate, attuato da una nazione straniera, come la Gran Bretagna, per condizionare la politica interna ed estera di un altro paese. Con l’obiettivo di trasformarlo in una sorta di protettorato, una base da cui favorire e proteggere le proprie rotte commerciali, a cominciare da quella più strategica: quella petrolifera». Nulla da obiettare. Di fronte all’enunciato fasanelliano — magari eludendo le iperboli giornalistiche che inevitabilmente rischiano di svilire la serietà di un lavoro in ogni caso interessante —, chiunque si sia interrogato sui limiti della nostra sovranità trova spunti e conferme ai propri ragionamenti, ai propri dubbi. Gli esempi non mancano. Tra i tanti punti analizzati nel libro vi sono gli squarci aperti dagli autori — a riprova delle tesi tracciate decenni addietro da Franco Bandini e Giorgio Pisanò e rimbalzate negli anni Ottanta da Marcello Staglieno su “Storia Illustrata” — sui mandanti stranieri dell’omicidio Matteotti, il terribile delitto politico che scosse nel 1924 l’Italia intera e fece vacillare il primo governo Mussolini, e le rivelazioni sulla sorprendente sordina imposta in piena guerra (nel 1941) da Churchill sull’assassinio del deputato socialista e l’inedito profilo, ricavato sempre dalle carte di Kew Garden, dell’ambiguo Amerigo Dumini. La vita del capo dei sicari di Matteotti è — parafrasando madame Bovary — un vero romanzo: nato in America, volontario in guerra, fascista, massone, agente doppio o triplo, ricatta Mussolini che lo fa arrestare più volte e, infine, lo spedisce in colonia con una lauta pensione. Nel 1941 è in Libia, dove gli inglesi lo arrestano e lo condannano a morte. Viene fucilato, ma sempre i britannici — o, secondo il morituro, Santa Rita da Cascia — riescono a resuscitarlo. Fortunosamente Dumini rientra in Italia e aderisce nel ’43 alla RSI, contrabbanda armi e diventa nel ‘45 un’interprete dei comandi alleati; viene arrestato, condannato e amnistiato nel ’53 (nel pieno della crisi anglo-italiana per Trieste, coincidenza che gli autori dimenticano…) dalla Repubblica antifascista. Con la seconda redenzione della città giuliana, Dumini torna in libertà e s’iscrive (o almeno sembra) al MSI; muore nel 1967, per un banale incidente domestico, nella sua casa romana. I suoi segreti lo seguono nella tomba. Ma accanto al caso Matteotti — e l’assoluzione postuma di Mussolini e nuovi (antichi) sospetti sul mondo affaristico nazionale e anglo-sassone e sulla casa regnante —, Fasanella e Cerighino aprono, forti dei documenti ritrovati, un capitolo ancor più scottante: i terminali italiani del “partito inglese”. Con molti imbarazzi, Filippo Ceccarelli, recensendo il libro su “Repubblica” del 20 settembre scorso scrive: «È pure una storia così ombrosa e intricata, questa tra l’Inghilterra del tardo imperialismo e l’infida Italia prima fascista e poi democratica, comunque proiettata nel Mediterraneo e perciò vissuta come una minaccia agli interessi petroliferi britannici in Medio Oriente, da potersi anche raccontare come una lunga vicenda che spinge Londra a cercarsi qui nello stivale una incredibile varietà di potenziali alleati. Anch’essi tuttavia più o meno leali, anglofili sinceri e improvvisati, fascisti della fronda e mercenari, Ciano, Grandi, casa Savoia, il generale Badoglio, il Duca d’ Aosta, poi aristocratici siciliani, separatisti con le dovute appendici mafiose; e sempre dignitari della massoneria, anche loro probabilmente con le avvertenze e le riserve di cui sopra. E poi, a seconda delle vicissitudini e dei rivolgimenti storici, è la volta di combattenti repubblichini come Borghese, di partigiani anticomunisti come quelli della “Franchi” o di iper-comunisti alla Moranino; per non dire degli imprenditori di genio come Olivetti, o di avventurosi e controversi uomini d’azione tipo Sogno, quindi intellettuali cosmopoliti alla Barzini, e spie, scrittori, ambasciatori, mestatori, salottisti, extraparlamentari e giornalisti borghesi cui far arrivare riservatamente – in qualità di “clienti”: questa la definizione di una struttura, l’Ird (Information Reserch Departartment) , che opera negli anni 50 e 60 – materiali da rendere pubblici sui loro giornali. È questo dunque il variegato “partito inglese”, gente rispettabile e lestofanti: tutti o quasi contattano gli uomini della diplomazia, della propaganda e dello spionaggio di Sua Maestà alimentando un brulichio di contatti intessuti con l’ambigua certezza che il controllo geopolitico, commerciale ed energetico della penisola è comunque determinante ai fini del grande gioco ad alto rischio della Guerra fredda». Il colonello Mieli Ceccarelli scrive bene (è un buon giornalista) ma dimentica “casualmente” alcuni nomi segnalati dagli autori. Uno in particolare: Renato Mieli, il padre di Paolo, uno degli uomini più influenti del panorama editoriale italiano odierno. Il babbo dell’ex direttore del Corriere è il “colonello Merryl”, tra il 1943 e il 1947, uomo di punta dei servizi segreti britannici in Italia è uno dei responsabili, nell’Italia sconfitta, della riorganizzazione dell’industria dell’informazione, dell’editoria e dell’arte. Un potere enorme. Basandosi sulle carte desegretate, Fassanella rivela che l’ufficiale inglese è «in realtà un raffinatissimo e italianissimo intellettuale di origine ebraiche che risponde al nome di Renato Mieli (…) Renato è un fisico matematico laureatosi a Padova nel 1935, un militante del partito comunista che si rifugia in Francia a causa delle persecuzioni razziali. Poi, scoppiata la guerra, ad Alessandria d’Egitto si arruola nell’Esercito inglese, con il quale sbarca in Italia. Dove, su mandato britannico, fonda alcuni giornali e, nel 1945, la più grande agenzia di stampa italiana, l’Ansa (…)». Terminata tra il 1945-46 l’esperienza dei governi d’occupazione alleata in Italia, il “colonnello” smette la divisa britannica e si riscopre comunista e subito Togliatti — uno dei terminali di Stalin in Occidente — gli affida la direzione milanese de “l’Unità”. Un osservatore acuto come Enzo Bettiza scruta i percorsi di Mieli senior e annota: «mistero e clamore accompagnarono nei primi anni del dopoguerra il suo improvviso trasloco dall’esercito di Sua Maestà al partito di Ercoli-Togliatti. Nessuno, né allora né poi, seppe darsene una ragione definitiva. Un raptus emotivo? Un colpo di testa idealistico? Oppure un doppio gioco lungamente tessuto dietro alle quinte e guidato, a freddo, verso lo sbocco?». Fatto è che Renato Mieli, alias colonello Nerryl, abbandona il PCI nel 1956. La giustificazione (nobile) è l’invasione sovietica dell’Ungheria, i comunisti che sparano sugli operai, i tanks sovietici contro un intero popolo. Ma, proprio in quegli stessi giorni, la Gran Bretagna, la Francia e Israele invadono l’Egitto nasseriano. È la crisi di Suez, il canto del cigno del colonialismo anglo-francese. L’Italia di Gronchi e Segni rifiuta ogni coinvolgimento militare, il PCI solidarizza con gli arabi e Mattei prepara il suo aereo per il Cairo. Gli inglesi devono ripiegare malamente mentre la mai sopita rivalità mediterranea si riaccende e — per una volta — gli italiani sono in vantaggio. Probabilmente, per il “colonnello” la sua missione behind the ennemy lines era giunta al termine. Con quali risultati? Una domanda ancora aperta. E ancora, le carte di Kew Garden sulla convivenza tra settori del regime fascista e del neofascismo con l’intelligence alleata, confermano una volta di più le ricerche di Giuseppe Parlato, ampiamente illustrate nel suo fondamentale libro “Fascisti senza Mussolini” (il Mulino, 2006), ma Fasanella e Cereghino dimenticano altri aspetti di segno opposto ma non meno interessanti. Come ricordava Marco Tarchi, recensendo il lavoro di Parlato su “Diorama Letterario”, dopo il ’45 «gli ex fedeli di Mussolini s’imbarcarono nelle avventure più sconcertanti: molti intensificarono l’abbraccio con i nemici di solo pochi mesi prima – statunitensi e monarchici in testa – offrendo disponibilità per qualunque progetto controrivoluzionario, da chiunque diretto, mentre in qualche caso si andò addirittura oltre, come quando (le carte scovate da Parlato non lasciano dubbi) un gruppo di ex marò della Decima Mas collaborò con l’Irgun Zwai Leumi per far giungere di soppiatto imbarcazioni italiane agli attivisti sionisti, affondare una nave egiziana, realizzare un attentato contro l’ambasciata britannica a Roma e poi fornire armi detenute clandestinamente ai servizi segreti del neocostituito stato di Israele, atti non esattamente scontati da parte di alleati fino all’ultimo giorno del Terzo Reich». Casi isolati? Forse, ma a fronte dei contatti tra gerarchi “venticinqueluglisti” o “irriducibili” e gli agenti di Sua Maestà, è doveroso ricordare la lunga lotta intrapresa tra il 1946 e il 1954 dagli attivisti del MSI — sigillata dai caduti del ‘53 — contro le truppe britanniche nella Trieste occupata dagli alleati: la pagina più intensa e sincera scritta dagli “esuli in patria” nel lungo dopoguerra italiano. Un lavoro importante ma incompleto Alla luce di tutto sopra accennato, vale la pena di fare qualche considerazione e, magari, tracciare qualche ipotesi di lavoro alternativa. Andiamo per ordine. Matteotti, Dumini, Mussolini, Borghese, Sogno, Mieli e poi Mattei, Moro, sono nomi, episodi, interrogativi che gli autori rimbalzano dai polverosi archivi britannici all’attualità, fornendo spunti per discutere — oggi, soprattutto oggi — e fissare dei punti di discussione. Sul nostro passato, sul nostro presente. Eppure il minuzioso lavoro di Fasanella e Cereghino non ha sollevato alcun dibattito serio, non creato alcuna tensione critica. Nemmeno nelle aree culturali irregolari o eterodosse. Perché? Il “Golpe inglese” è forse un libro sbagliato, da proibire, da interdire oppure da relegare nel sensazionalismo? No. Con buona pace dei complottisti (quelli che intravvedono ovunque “la congiura demo-pluto” etc.…) e/o degli anglofili, riteniamo che l’opera rappresenti semplicemente una (bella) occasione perduta. Scorrendo le pagine, il lettore avvertito rischia di rimanere deluso: vi è molto, moltissimo da aggiungere e più di qualcosa da correggere. E ancora, l’impianto è insufficiente e inficia materiali importanti che invece potrebbero offrire spunti per una rilettura forse parziale ma finalmente onesta della nostra storia nazionale. Non sbaglia Fabio Andriola quando, sulle pagine di “Storia in rete”, definisce l’opera “un libro monco. Vuole essere un intero palazzo e invece rappresenta solo qualche piano. E tra questi piani, non ci sono né l’attico né il piano terra o il primo piano…”. Riprendiamo allora le coordinate “architettoniche” di Andriola e cerchiamo di fissare qualche piccolo mattone a sostegno (e critica) di una costruzione ambiziosa quanto incompleta. Il libro dei due giornalisti sembra ridurre l’aspro contrasto che contrappose nelle decadi centrali del Novecento, un’Italia — prima troppo ambiziosa poi rovinosamente sconfitta, ma ancora non del tutto rassegnata — e il declinante ma sempre potente Regno Unito, a una somma di pesanti interferenze, ricatti, guerre aperte e segrete. Certo, vi fu tutto questo, ma vi fu anche altro, molto altro. In quegli anni cruciali tra Londra e Roma si giocò una partita complessa sottile, spesso ambigua, sempre durissima. Uno scontro asimmetrico tra due giocatori: l’uno ancora altero e possente, ma cinico, esangue e spesso miope, l’altro debole, velleitario ma capace d’alternare machiavellismi e fellonia a sprazzi d’orgoglio e visioni coraggiose. Fu uno scontro evitabile poiché gli interessi e, soprattutto, i fini erano diversi, e non obbligatoriamente contrapposti. Ma, soprattutto per Londra, la posta in palio era troppo alta: il controllo del Mediterraneo. Il concorrente italiano Nel grande disegno imperiale l’Italia, sin dalla sua unità, rappresentava un elemento di disturbo. Per gli occhiuti strateghi d’oltre Manica la penisola— nonostante l’anglofilia di parte della sua classe dirigente, — rimaneva un dilemma: poco affidabile per essere eletta, come il Belgio e o l’Olanda, a junior partner, ma sufficientemente solida e ambiziosa per rifiutare un ruolo da satellite marginale come la Grecia o il Portogallo. Da qui le contraddizioni e le ambiguità che, dal 1814 in poi segnarono i rapporti anglo-italiani. Qualche esempio. Mentre il regno Sardo ambiva (in visione antiaustriaca) a un rapporto privilegiato con Londra e i gruppi dirigenti settentrionali fissavano nell’Inghilterra il loro paradigma politico-economico, il governo britannico — nonostante la simpatia di settori dell’opinione pubblica e l’ostilità diffusa verso il Papa re — rimase a lungo scettico sull’ipotesi unitaria e lesinò il suo appoggio alla causa unitaria. Come spiega Eugenio di Rienzo ne “Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee” — il nuovo saggio (ben più solido de “Il Golpe inglese”) dello storico romano su cui presto torneremo — al netto delle non disinteressate aperture fatte al congresso di Parigi del 1856, sino alla vigilia della seconda guerra d’Indipendenza gli interessi albionici rimasero concentrati sul Regno di Napoli, sulla Sicilia e sul suo zolfo, al tempo prezioso come oggi il petrolio (1). Preoccupata dalle politiche protezionistiche e filo russe di Ferdinando II, dagli anni Trenta dell’Ottocento al 1860 la Gran Bretagna cercò ripetutamente di destabilizzare la monarchia borbonica, e nel 1840 — quando Ferdinando minacciò le concessioni minerarie britanniche nell’isola — si sfiorò una guerra aperta. Solo l’esito vittorioso della campagna del 1859, l’attivismo di Napoleone III e il timore di un erede di Murat sul trono napoletano, convinse Londra a giocare apertamente la carta italiana e appoggiare la spedizione di Garibaldi. Il generale seppe essere riconoscente e, nel periodo della sua dittatura, tutelò con attenzione le concessioni britanniche sull’isola. E a Bronte, feudo della famiglia Nelson, i garibaldini di Bixio si dimostrarono implacabili… Nel marzo del 1861, sempre in un’ottica antifrancese e anti papista, il Regno Unito riconobbe immediatamente il neo costituito regno d’Italia, ponendo una sorta d’ipoteca sulle sorti e i destini del giovane Stato. Un errore di valutazione. Nel segno della “terza Roma”, il gruppo dirigente post-cavouriano, costruì — sfidando l’irritazione delle cancellerie europee (Londra compresa)— una politica estera spregiudicata, spesso confusa ma certamente autonoma. Ma non solo, malgrado le debolezze strutturali, dall’indomani dell’Unità i governi italiani immaginarono strategie mediterranee, diedero inizio alla costruzione di una grande marina militare e di una moderna flotta mercantile e posero le basi per un’espansione oltremare. Sulle coordinate (ma senza l’abilità) di Cavour gli eredi del grande conte fissarono quelle che Carlo Jean definì «le due costanti della politica estera nazionale persistenti dal Risorgimento al terzo dopoguerra»: anzitutto il divario tra le aspirazioni dello Stato e la sua effettiva potenza; inoltre il tentativo di mediazione e bilanciamento fra Est e Ovest (cioè tra Germania e Francia), nonché fra Nord e Sud (ovvero tra Triplice Alleanza e Gran Bretagna). Con pragmatismo la Gran Bretagna cercò di gestire e di contenere le ambizioni e velleità del protagonismo nazionale — certamente non ostile ma nemmeno subalterno agli interessi inglesi — e di moderare gli appetiti coloniali di Roma. Sebbene sino agli inizi del Novecento Londra considerò il nuovo regno un utile contrappeso all’espansionismo francese, l’impero rifiutò all’Italia nel 1863 la cessione delle isole Ionie e dal ’64 in poi neutralizzò a più riprese le sue ambizioni sulla Tunisia. La nostra stessa presenza nel Mar Rosso e in Africa Orientale fu attentamente monitorata dai governi inglesi che diedero il loro benestare a una limitata espansione solo dopo l’insurrezione mahdista del Sudan. L’accordo del Foreign Office si rivelò determinante anche per l’impresa della Libia nel 1911, ma la parallela conquista del Dodecaneso fu considerata un’intrusione nell’Egeo e una minaccia alle basi cipriote; da qui, nel primo dopoguerra, l’appoggio del Regno Unito alle rivendicazioni anti italiane di Atene e le manovre per limitare drasticamente la nostra influenza nei Balcani e nel Levante. Assieme a questi passaggi che nella loro ricostruzione Fasanella e Cereghino trascurano, sarebbe valsa la pena di (almeno) accennare a un altro aspetto poco noto (al punto che gli autori lo ignorano del tutto) ma centrale dei rapporti bilaterali negli anni Venti: la questione del debito di guerra anglo-italiano. Come spiega Roberto Festorazzi nel suo documentato saggio “Sterline, dollari e cannoni” (Il Silicio, 2011), la regolamentazione del delicato dossier fu l’occasione per un primo scontro — felpato ma durissimo — tra il primo governo Mussolini e gli esosi e disonesti banchieri britannici. E ancora. Rintuzzate le esorbitanti richieste albioniche, la battaglia finanziaria tra Roma e Londra si riaccese attorno alla ventilata riforma del “gold exchange standard” voluta dalla City, una vera e propria “macelleria monetaria” che avrebbe eroso ogni sovranità statuale. Rifiutando ogni subalternità e sfidando con successo la speculazione mondiale a regia britannica, nel 1926 la Francia di Poincarè e l’Italia fascista difesero con successo il franco e la lira. Una pagina di storia monetaria che — anche alla luce degli avvenimenti odierni — andrebbe rivista e studiata.
Posted on: Sun, 15 Sep 2013 17:24:06 +0000

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