Il profetismo di Campana. Un duplice sentimento ti coglie,in - TopicsExpress



          

Il profetismo di Campana. Un duplice sentimento ti coglie,in prima istanza, leggendo i “Canti orfici”: da una parte una musicalità e emozioni mentali dense come l’aggrumarsi della luce acquorea in una perla; dall’altra l’incapacità di capire il nucleo essenziale dell’opera,la sua genesi e il distendersi pacato delle immagini nella tua anima. E’ come se il poeta avesse avuto molteplici e contemporanee visioni che ora si affollano nel suo verso,reclamando ognuna di prendere corpo per prima : nella calca del dire,che non segue più un prima e un poi,ma una linea orizzontale,come se fossero dispiegate in battaglia per un fronte infinito e non serrate in modo ordinate una dietro l’altra per aggredire deliziando il lettore, esse fanno l’effetto dell’acqua che fuoriesce dalla bottiglia,non inclinata il tanto che basta per disciplinarne il flusso,ma in modo precipite tanto da bloccarne la regolarità e darne immagini a singhiozzo. Poi,dopo ulteriori letture,le immagini,nella loro rutilante bellezza,svelano l’arcano del loro canto. Avviene a Dino Campana ciò che avviene ai profeti biblici. E non solo per gli atteggiamenti esteriori che pure connotano il nomadismo e l’andare ramingo del poeta,come avveniva per i profeti,fuori da ogni regola ,in una zona tra l’emarginazione stranezza e pazzia:lo sguardo spiritato,girovagare tra i monti, ecc. fino alle convulsioni isteriche o andare in giro nudi,rompendo qualsiasi schema di comportamento sociale. Ma particolarmente per la modalità della sua poesia,così vicina all’espressività profetica. Il suo verso,infatti, come avviene nelle profezie, non ha una calma compostezza,ma esprime violenza ed eccitazione; è concentrato, in immagini brevi ed icastiche,tanto da non dilatarsi come la maestosità del mare,ma riprenderne nelle onde quello schiumeggiare,pieno di ribollente potenza. Egli è lampo che guizza nella notte,resta sorpreso della sua visione e quello che scorge,all’improvviso, è solamente un punto in cui si concentra la realtà. Perché questo? Quello che ha visto non può sopportarlo, a meno di essere annichilito:la luce che improvvisa guizza dall’alto,nel suo rapimento mistico, abbaglia,piuttosto che illuminare. Perciò, il poeta Campana, profeta ora, “sente” il crepuscolo:egli narra ciò che ha veduto durante l’estasi,con tono misterioso. Questa luce crepuscolare che illumina le descrizioni delle visioni e che ,a mala pena,nasconde i marcati colori(rosso,blu, viola,un bianco lattiginoso e intenso come la scia della luna ecc), si spiega tenendo conto dello sgomento che il poeta sente nell’esprimere l’indicibile,luce accecante. Certamente,la terra del futuro (la città,la donna, Euridice-poesia,la mediterraneità,lo sfumato, la natura, la musicalità) non appare ancora ai suoi occhi illuminata dal sole .Egli coglie forme e suoni,ma subito,di colpo,piomba di nuovo nel buio. Di conseguenza,la prima caratteristica dello stile della visione in Campana è un particolare chiaroscuro,con immagini che accennano, ma,al tempo stesso,nascondono anche. Il tono misterioso della sua poesia è un rabbrividire innanzi alla profondità delle cose viste ed alla grandezza di ciò che sta per accadere. Il suo modo di esprimersi è scattante,impressionistico,ed ha il gusto del superlativo. Perché a lui è successo ciò che il profeta ha sperimentato sulla sua pelle: “tu mi hai sedotto,Yahweh,e io devo seguirti, /tu mi hai afferrato e mi hai preso con la forza”. Il dio di Campana è la poesia,a cui egli sacrifica ,traendone forza “occhi neri e scintillanti come metallo in fusione”, “infinita solitudine”, la prateria che si alza come un mare argentato agli sfondi,ore di profondità mistiche e sensuali come dice in “Dualismo” . A lei sola egli è fedele,per un laico zelus domini comedit me :”io dovevo restare fedele al mio destino”,senza mai piegarsi a sacrificarsi alla mostruosa assurda ragione(l’incontro con Regolo) o all’urgenza del suo bisogno d’amore ,lasciato “nelle mani dei cani senza una parola”,per “volare sopra “ le rupi di Campigno “ con tutta la fierezza e la forza dell’aquila”,seguendo un destino di morte o di gloria ( o d’intrinseca compenetrazione,essendo l’una funzionale all’altra). Quanto detto è presente già a cominciare dal titolo dell’opera. “Canti orfici” è riprendere quel momento ambiguo,di attesa e speranza,di ombra che sta per cangiarsi in riverbero di luce, che Orfeo vive in sé mentre sta per voltarsi e vedere,perdendola per sempre,l’oggetto del suo desiderio,Euridice. Egli non può fare altrimenti:il dono della poesia,il canto è stato solo sospensione momentanea dell’Ade, ma sa che non può infrangere le regole inflessibili cui persino gli dei sottostanno,ricreando la vita per sempre. La vita è quel struggente desiderio che percorre “Crepuscolo mediterraneo”:la mobilità delle acque che conquista , con la sfida all’ignoto, l’imponderabile. L’esplosione dei colori vince la luce cinica,”l’aridità meridiana” di cui il poeta parla in “La notte”. La sua luce è liquida “la melodia docile dell’acqua”,guizzante,dai vividi riflessi,cangiante,nell’armonizzare il paesaggio come riesce mirabilmente a Leonardo,nel suo sfumato:”chiare gore vegliate dal sorriso del sogno,le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi”(La notte). La stessa temperie è in “La Verna”: ..la dolcezza della linea delle labbra….tu gia avevi compreso o Leonardo,o divino primitivo!” Anche quando la luce si rarefa,diventando ombra,ha la malìa della sera che indossa l’abito di gala e senti il fruscio della sua veste di raso,mollemente che scivola dal suo corpo,con sensuale eleganza. La musicalità allora si nutre di silenzi,di balbettii,di suoni in lontananza di violini e chitarre ,organetti, dove “vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra”. Penso che nello scenario della poesia italiana,pochi,forse Tasso,Leopardi,Montale sanno ricreare una musicalità pura come fa Campana. E avviene in modo sapiente: le parole che esprimono già evocazioni suggestive come diceva Leopardi :”e pare il giorno dall’ombra,il giorno piagner che si muore”; o costrutti invertite per arrestarne la musicalità che potrebbe diluirsi,perdendone pregnanza:”sedetti piano”; o con frequenti ripetizioni,come avviene nei poemi omerici, sia per un richiamo dell’oralità della sua poesia,sia perché la visione poetica è così sconvolgente che il ripetere serve all’anima per cominciarla a sentire propria,inserendola nella sua quotidianità “piegate piegate con grazia di cinedo”; si veda come esempio l’incipit della “Piazza Sarzana”. Quando dal “silenzio occhiuto del fuoco” esce nella chiarezza della natura,il suo spirito si dilata,diventa scattante,esempio vivente di futuristica adesione di “rossa velocità”. La natura,invero, ammalia,rasserena,dà sicurezza,sanità interiore al poeta,che si esprime con immagini grandiose,animandola e mitizzandola,nella sua terribilità che ricorda per certi aspetti il sublime matematico di Kant: “l’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole….lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su sé stesso,pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura:la Verna…..Campigno…mistico incubo del caos”. Essa è quasi il prolungamento di quella sospensione dello spirito che la donna gli dà,nella sua ora pacata inaccessibilità:”…puro viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale”. E’ la natura vissuta e costruita del rinascimento fiorentino,nella sua linea ferma e chiara,nella quale i sommovimenti interiori si placano in una sinuosa armonia,non sanguigna nel rapporto natura- donna come avviene in Neruda, ma di delicato canto come in Tagore. Ma non sempre questo idillio con la natura –donna è possibile e subentra allora la disperazione,la consapevolezza della perdita,quando il poeta si avvicina all’altro polo del suo sentire:la città. Perché se la natura seduce,la città è la condanna:attira nella sua turrita difesa come se fosse la terra promessa, ma nel proprio cuore il poeta sa che essa è la necessaria perdizione. Questa vecchia città,”rossa di mura e turrita…”,con i suoi archi enormemente vuoti di ponti che evocano immagini surreali,presenti in Buzzati e in Borges, non è altro che l’impossibilità del poeta di essere,vivere e progettare un viaggio e un ritorno. La città è il segno ambiguo di Campana: la protezione che immobilizza e fossilizza rispetto alla mobilità del suo errare,specie lungo i grandi spazi del mare,della pampa, dei monti .Eppure egli agogna tale protezione,in quella contrapposizione drammatica tra la sua vicenda personale,quotidiana e la sua consapevolezza di essere”altro”,diverso,matto perché egli è l’enigma,parola degli dei,egli è l’ansia del segreto delle stelle,tutto in chinarsi sull’abisso di cui sente il brivido dell’attrazione come avveniva al suo amato Nietzsche. La città –protezione è dunque:la quotidianità,la donna ,il bisogno di amore,il consorzio umano nella sua comunicazione abituale e meschina,fatta di parole ,di chiacchiere. Mentre il poeta è,nella sua sacralità,ciò che dice in modo perentorio,senza possibilità di compromesso,Rebora,parlando di Dio:”E il logos zittì la mia chiacchiera”. C’è una parola chiave nel descrivere questi aspetti surreali della città che si trova in un ideale gemello di Campana,Rimbaud: è la parola “imperiale”. Il simbolista francese la usa nella sua visionarietà ,parlando proprio di città:”il risalto imperiale degli edifici”. Campana ne dà molteplici aspetti, ma sempre visti nella loro sublime irraggiungibilità e che diventa,quindi,estraneità a chi la usa e vorrebbe esperirla:ma è sempre relativa alla donna,alla sua bellezza, in quel rapporto di identità impossibile con la città che protegge: la pura linea imperiale del profilo del collo…giovinezza imperiale…grazia imperiale…la lussuria siede imperiale…così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale(Genova). I Canti orfici portano la dedica a Guglielmo II imperatore dei Germani. Anche se probabile,vista la sua disperazione e il sentirsi tradito dagli amici poeti Papini e Soffici, alla critica non interessa tanto un gesto quasi puerile per avere un’impossibile notorietà. Il richiamo alla germanità,alla bestia bionda ha altre radici:è l’accostamento del suo verso all’entusiasmo dionisiaco di Nietzsche ,alla scrittura del caos, all’innocenza del fanciullo che gioca a dadi. Ed è la sanità dell’eterno presente di Faust che avvince lui,destinato solo al futuro,nel grido “fermati,attimo,tu sei bello”. Trebisacce,li 14.10.2005 Gianni Mazzei
Posted on: Thu, 01 Aug 2013 05:19:41 +0000

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