LA CETRA SCISSA di Sergio Lagrotteria Quis furor est atram bellis - TopicsExpress



          

LA CETRA SCISSA di Sergio Lagrotteria Quis furor est atram bellis accersere mortem? Quale follia è quella di provocare con le guerre la tetra morte? (Tibullo, Elegie, I, 10) Secoli di progresso materiale e di trasformazioni sociali di ogni genere non sono riusciti ad allontanare dal nostro orizzonte umano l’incubo e la tragedia della guerra. Lasciamo ad altri il compito di stabilire se essa sia un comportamento innato o frutto di un’elaborazione culturale. Qui si intende compiere una ricognizione, inevitabilmente parziale e incompleta, sul rapporto tra la guerra e la parola poetica, con alcune brevi incursioni nel romanzo e nel cinema. Dire poesia. Dire guerra. Apparentemente non c’è nulla di più antitetico. Eppure la guerra è stata materia poetica in tutti i tempi, a testimonianza del fatto che essa è stata ed è un “esercizio” frequente dell’uomo. Il punto di partenza è il mondo greco in quanto già in esso la guerra si fa mito per il tramite della poesia. Sin dall’Iliade l’uomo, nel suo ruolo di poeta, ha celebrato prevalentemente la guerra, l’eroismo, il coraggio, eternando queste qualità. Bisognerà aspettare più di duemilacinquecento anni per giungere al poeta inglese Wilfred Owen, il quale nei suoi versi forti e nudi ci porta in mezzo all’odore di carne putrefatta, al sangue, ai lamenti disperati, alle agonie dei soldati, smascherando così la secolare menzogna secondo la quale è dolce e nobile morire per la patria (Dulce et decorum est pro patria mori, Orazio, Odi, III 2,13). Ma torniamo ai Greci, perché già in questa cultura la guerra si delinea come modalità tipica dell’Occidente di guardare il mondo e di agire in esso. Eraclito definisce il Polemos (la guerra, il conflitto) padre e re di tutte le cose. Tale principio anche per l’ultimo Nietzsche, in Ecce homo, mantiene un posto privilegiato: «L’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il carattere decisivo in una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla guerra, il divenire, con rifiuto radicale persino del concetto di essere – in questo io debbo riconoscere quanto di più affine a me sotto ogni aspetto sia mai stato pensato finora. La dottrina dell’eterno ritorno, cioè della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe essere già stata insegnata da Eraclito». Questa idea, a livello poetico, trova alcuni interpreti esemplari in Archiloco e Tirteo. Il poeta e soldato Archiloco proclama in un frammento particolarmente importante: «...servo io sono di Enalio signore / e delle Muse l’amabile dono conosco». Questi versi, variamente interpretati, rappresentano una specie di atto di nascita della lirica occidentale: Archiloco dichiara in prima persona la sua appartenenza sia al duro mondo della guerra (Enalio è un Dio guerriero preellenico), sia alla mirabile dimensione della poesia. Questa doppia abilità risale per la verità al modello eroico stabilito dalla tradizione epica: già nell’Iliade Achille, emblema dell’eroe ideale, manifesta grande maestria come guerriero e come cantore. Tirteo, di ambito spartano, è autore di alcune elegie parenetiche cioè di esortazione alla guerra e dei cosiddetti embateria, canti di marcia guerreschi perduti. In un’elegia scrive: «È bello invero che fra i primi cadendo muoia / l’uomo valoroso, per la sua patria pugnando» fissando per la prima volta in maniera consapevole il motivo in base al quale per l’uomo prode è bello morire in difesa della patria; chi invece sopravvive alla sconfitta deve affrontare l’esilio, recando disonore alla propria stirpe. Egli rifiuta tutte le altre virtù e qualità: bellezza, forza, ricchezza, eloquenza, che in Omero erano comunque apprezzate insieme al coraggio: per lui non valgono nulla: l’unica virtù (areté) è il coraggio. Non manca naturalmente qualche voce discorde e dubbiosa: Esiodo, da un lato, afferma ne Le opere e i giorni la vera natura dell’uomo: «Folle, grida alla sua vittima l’uccello da preda, chi vuole resistere a chi è più forte; non ottiene la vittoria e oltre alla vergogna soffre dolori». È questo il linguaggio della hybris, della tracotanza, spinto dall’orgoglio di dominio, che riesce fatale ai potenti come alla gente comune. Dall’altro, è meglio ascoltare la voce della giustizia e abbandonare quella della violenza: «Questa è invece la legge che Zeus ha stabilito per gli uomini: che i pesci, le fiere e gli uccelli alati si divorino tra loro, poiché fra essi non vi è la Giustizia, ma agli uomini Egli ha dato la Giustizia che è il maggiore dei beni». Dopo i Greci, si afferma il genio pragmatico dei Romani: è celebre il motto latino “Si vis pacem para bellum”, affiancato dal ben noto verso oraziano prima citato. Venendo a noi, Hobbes vede la guerra come stato naturale originario: bellum omnium contra omnes. Il nostro Vico ha creduto di scorgere poi nella parola polis, che fonda la politica, la stessa radice di polemos. Nel Novecento il sorgere di guerre su scala mondiale, con l’uso di armi dalla portata sempre più devastante, ha radicalizzato il discorso sulla guerra e la pace. Allo scatenarsi della prima guerra mondiale molti poeti, intellettuali, artisti, critici, erano interventisti e, oltre alle motivazioni di ordine economico e politico, vi era una visione estetica e letteraria della guerra, un vitalismo, un avventurismo, anticipato acriticamente, sia in Italia sia nel resto d’Europa, nel dibattito culturale delle riviste. Basta leggere sulla rivista «Lacerba» l’articolo “Amiamo la guerra” di Giovanni Papini. Molti poeti partono per la guerra col proposito di assaporare chissà quali sensazioni e vivere chissà quali peripezie. Un esempio tra i tanti è Apollinaire, che impiegherà tempo a “inquadrare” il fenomeno guerra. Nei suoi Calligrammi, poesie di pace e di guerra, troviamo diverse poesie in cui, oltre al tema amoroso, la contrapposizione tra ordine e avventura è espressa in sommo grado: il rischio è ciò che dà senso all’esistenza e la proietta in una dimensione fuori dall’ordinario, è la luce, il fuoco, dai risvolti anche gioiosi, che fa uscire dall’ombra. Assai significativa è la poesia Meraviglia della guerra, dove assistiamo a un crescendo di “belle” sensazioni, panismo incluso. Che belli questi razzi che illuminano la notte Salgono in vetta a se stessi e si chinano giù a guardare Sono dame che danzano Coi loro sguardi per occhi braccia e cuore Mi dicono il tuo sorriso e la tua vivacità È anche la quotidiana apoteosi di tutte le mie Berenici dalle chiome fattesi [comete Dorate e ridorate ballerine d’ogni epoca e razza Si sgravano brusche di figli che hanno appena il tempo di morire È bello tutti questi razzi Ma assai più bello sarebbe se ce fossero ancor di più Se ce ne fossero a milioni con un loro senso compiuto e relativo come i [caratteri d’un libro Nondimeno è bello come se la vita stessa uscisse dai morenti Ma ancor più bello sarebbe se ce fossero ancor di più Li guardo come una bellezza che si offre per svanire subito Mi sembra di assistere a un gran convito illuminato a giorno È un banchetto che la terra si offre Ha fame e apre lunghe bocche pallide La terra ha fame ed ecco il suo convito di Baldassarre Un Baldassarre cannibale Essere fino a questo punto antropofagi Chi l’avrebbe mai detto E tanto fuoco per arrostire il corpo umano Per questo l’aria ha un suo odorino empireumatico che davvero non mi [dispiace Ma il convito sarebbe ancor più bello se con la terra ci fosse anche il cielo [a mangiare Il cielo non ingoia che anime Che è poi un modo per non nutrirsi E si contenta di fare il giocoliere con fuochi versicolori Ma io mi sono calato nella dolcezza di questa guerra con tutta la mia [compagnia lungo i lunghi camminamenti Gridi di fiamma annunziano senza posa la mia presenza Ho scavato il letto dove corro ramificandomi in mille fiumiciattoli che se [ne vanno dappertutto Sono nella trincea di prima linea e tuttavia sono dappertutto o meglio [comincio ad essere dappertutto Sono io a cominciar la faccenda dei secoli a venire Ce ne metterà ad attuarsi più della favola d’Icaro volante Lascio in testamento al futuro la storia di Guillaume Apollinaire Che fu alla guerra e seppe essere dappertutto Nelle città felici delle retrovie In tutto il resto dell’universo In quelli che muoiono pestando i piedi nel reticolato Nelle donne nei cannoni nei cavalli Allo zenit al nadir ai quattro punti cardinali E nell’ardore unico di questa vigilia d’armi E sarebbe certo assai più bello Se potessi congetturare che tutte quelle cose dentro le quali sono [dappertutto Potessero anche occupare me Ma in questo senso niente di fatto Perché se io son dappertutto in questo momento dentro di me trovo solo [me stesso Col trascorrere del tempo, il vero volto della guerra, sia pur attraverso la lente del ricordo, apparirà nitidamente, come nella poesia Ombra. Ecco di nuovo accanto a me Ricordi di compagni morti in guerra L’oliva del tempo Ricordi che diventate uno solo Come cento pellicce per un solo mantello Come queste migliaia di ferite per un solo articolo di giornale Apparenza che avete perso impalpabile e scura La cangiante forma della mia ombra Un indiano in agguato per l’eternità Ombra voi mi strisciate accanto Ma non mi ascoltate più Non conoscerete mai le poesie divine che io canto Mentre vi ascolto vi vedo ancora Destini Ombra multipla che il sole vi conservi Voi che amate tanto da non lasciarmi mai E che ballate al sole senza sollevare la polvere Ombra inchiostro di sole Scrittura della mia luce Cassone di rimpianti Un dio che si umilia. Tra le due guerre l’opera che più esprime il senso di un’epoca uscita martoriata dalla guerra è senza dubbio Viaggio al termine della notte di Céline. Opera complessa di un autore difficile, uno dei cui pilastri tematici è dato dal rifiuto totale della guerra. Scrive Céline: «Sarei dunque io il solo vigliacco sulla terra? […] (La guerra) la rifiuto decisamente, con tutti gli uomini che contiene, non voglio averci niente a che fare con loro, con lei. Fossero anche novecentonovantacinque milioni e io solo, sarebbero loro che hanno torto […] e io ho ragione, perché sono il solo sapere quello che voglio: non voglio più morire». Dunque perché crepare? per chi? in nome di cosa? L’umanità appare una bestia impazzita e, nella prospettiva del nichilismo anarchico di Céline, dovrebbe semplicemente scomparire. Nella seconda guerra mondiale perdurano ancora i miti guerreschi, rafforzati dalla devozione per la figura del milite ignoto, nata durante la Grande Guerra e nella quale tutti si possono identificare; miti peraltro accompagnati dall’assunto, certo non nuovo, di essere comunque dalla parte giusta, rappresentata dalla libertà. In tale contesto il poeta che può fare? Il poeta come può pensare a far versi, mentre si consuma la tragedia? mentre vede il suo popolo soffrire schiacciato dal nemico nazista? dallo straniero? La poesia di Salvatore Quasimodo Alle fronde dei salici esprime molto bene questo approccio e questo sentimento del poeta. E come potevano noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. In questa poesia si fondono immagini vetero e neotestamentarie con l’urgenza del momento storico: di fronte al nemico che affligge e perseguita il popolo inerme, il poeta non può stare con le mani in mano, la sua cetra tace perché è il momento dell’azione. Col secondo dopoguerra, la riflessione sulla guerra cerca di dare un senso a tutte la devastazioni compiute, a tutti gli innumerevoli sacrifici umani secondo, finalmente, una definitiva assunzione di responsabilità in ordine alla meta collettiva della pace, di mondo libero e migliore per tutti. Emblematica in tal senso, la poesia 1945 di Archibald Mac Leish. I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno s’odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la veglia [batte le ore. Dicono: Fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci. Dicono: Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ma finché tutto non è [finito la cosa non è fatta. Dicono: Abbiamo dato la nostra vita, ma finché tutto non è finito nessuno [può sapere che cosa le nostre vite diedero. Dicono: Le nostre morti non sono nostre; son vostre; avranno il valore che [voi darete loro. Dicono: Se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e per una [nuova speranza o per nulla non lo possiamo dire; siete voi a doverlo dire. Dicono: Noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si [meritano. Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. A noi tocca dare un significato ai morti. A tutti i morti, come pure possiamo vedere in un’opera filmica del regista giapponese Kon Ichikawa (citata nel nostro Afildipenna a pagina 2). L’ex-soldato, ora monaco buddista Mizushima si allontana dal consorzio umano, persino dai suoi compagni e amici con cui tutto ha condiviso. Essi in fondo possono rifarsi una vita, cercare una qualche forma di felicità, ritrovare i propri cari. Il suo impegno è per il consorzio dei morti, degli uccisi; di chi, amico o nemico che sia, merita un gesto di umanità che ne riscatti l’esistenza. Non possiamo piangere solo i nostri morti, mentre per gli altri conservare solo indifferenza. L’alta testimonianza contro la guerra di Ichikawa, dunque, alla luce di quanto abbiamo appena detto, dovrebbe far apparire il soldato, l’eroe, un residuo del passato. Eppure, un aspetto che viene in parte sottovalutato, ma che tuttavia esiste è quello dell’attrattiva della vita militare: mentre nel passato la figura del guerriero, dell’eroe, era ammantata come si è visto di un fascino poetico, nel mondo moderno del disincanto, tale attrattiva si colora di grigia anonimìa come ci mostra Saul Bellow ne L’uomo in bilico (1944), suo splendido romanzo d’esordio. «Sono in altre mani, affrancato da ogni dovere di decidere di me stesso, liberato dalla libertà», così si esprime Joseph il protagonista del romanzo, terminando il suo ultimo giorno di vita borghese. D’ora in avanti lo attende la costrizione fisica e morale dei regolamenti militari, la totale alienazione. Nell’organizzazione militare ogni cosa è stabilita dall’alto, i rapporti umani sono sostituiti da quello gerarchici e, grazie a queste condizioni, Joseph si sarà svincolato da ogni forma di comunicazione autentica e di responsabilità sociale. Nel corso di nove mesi di pratiche burocratiche, Joseph intanto si è dimesso dal suo lavoro e si è gradualmente isolato dagli amici, dai parenti e dalla moglie stessa. Tutti nella società occupano, in fondo, un posto preciso:o al servizio della patria in guerra, o nell’abituale attività civile. Le circostanze consentono all’intelligente e sensibile Joseph di godere della libertà, ma il prezzo da pagare è la solitudine e l’insoddisfazione. Pertanto egli sottrae se stesso a un qualsiasi uso responsabile della propria libertà e si incasella in un mondo organizzato in maniera ferrea, apparendogli ciò una scelta logica e irreversibile. Vi è infine ultimo aspetto collegato al mondo della guerra e al senso del fare poesia, oscillante nei secoli, come si è visto, sul senso o sull’insensatezza della guerra, che vale la pena di prendere in esame. La guerra, pur nella sua atroce brutalità, aveva anche le sue regole, i suoi rituali, i suoi codici d’onore, che nel Novecento vengono completamente travolti con la comparsa dei Lager. Col Lager assistiamo a qualcosa che va oltre la guerra tradizionale (un crudele scontro armato di eserciti con conseguenze sui civili): assistiamo alla creazione di un male organizzato su scala industriale per la soppressione di esseri umani cui viene negata qualsiasi qualità umana. Si eliminano uomini che non sono giudicati tali rispetto ad altri uomini. Adorno si domandava come si può scrivere una poesia dopo Auschwitz. E in relazione a questo punto compare la figura fondamentale di Paul Celan, senza nulla togliere alla grandezza di altri autori testimoni di quell’immane tragedia. L’itinerario di Paul Celan è estremamente ricco e complesso e conosce significative evoluzioni e involuzioni. Un elemento imprescindibile del suo mondo poetico è dato dalla tragedia della persecuzione e dallo sterminio della sua famiglia. Egli assume il tedesco come lingua della sua produzione poetica. Che significato ha per Celan usare la lingua dei carnefici per rappresentare tutta l’infamia subita? Egli, uomo senza patria, conosceva assai bene diverse lingue, eppure il tedesco diventa la lingua della sua poesia. Con quella lingua si brutalizzavano uomini, donne e bambini, si davano ordini per uccidere esseri inermi. Eppure è a partire da quella lingua che si può far riaffiorare una memoria e un senso dell’umano. A un’umanità straziata e annientata è toccato il destino della Notte. In quella Notte regna il Silenzio e in quel mondo inaudito il poeta cerca le vittime. Il silenzio che egli interroga come poeta, non è un silenzio normale inteso come assenza di rumore, incomunicabilità esistenziale o silenzio primigenio. Questo silenzio è un nero silenzio imposto dal male, dalla distruzione, che va colto e indagato “contro luce”, perché una luce “normale” scoprirebbe che esso è sì fatto di cadaveri innocenti, ma non saprebbe restituirne le infinite voci perdute in mezzo all’inferno. Quell’inferno è una Notte come mai ve ne furono nella storia dell’umanità. Ogni brandello di questa notte racconta di macerie umane indicibili. Argumentum e silentio Per René Char Messa alla catena tra oro e oblio: la notte. Entrambi su essa stesero le loro mani. Ed essa entrambi lasciò fare. Lì, reca anche tu, ora, ciò che albeggiando vuol crescere insieme ai giorni: reca la parola sorvolata dagli astri, sommersa dai mari. A ciascuno la sua parola. A ciascuno la parola che gli fece canto, allorché la muta lo giunse alle spalle, a ciascuno la parola che si fece canto e impietrì. Ad essa, alla notte, la parola che sorvolano gli astri e i mari sommergono, ad essa la parola vinta al silenzio, cui il sangue non cagliò quando trafisse le sillabe quel dente di vipera. Alla notte la parola vinta al silenzio. Contro parole altre che presto – corteggiate dalle orecchie puttane dei boia – s’introneranno anche su Tempo e tempi, essa in estremo testimonia, quando, in estremo, non vi sarà che suono di catene, essa testimonia della notte, che lì giace tra l’oro e l’oblio, stretta all’uno e all’altro, da sempre – Poiché, dimmi, dove mai albeggia, se non in lei, che nelle rive inondate dalle sue lacrime a soli occidui mostra più volte dove è semente? Questo silenzio non è il luogo originario di manifestazione dell’ente o dell’essere, è un profondo abisso collettivo. La ragione hegeliana superava il negativo, la morte e il dolore del mondo, eternandoli nel sapere assoluto. Qui siamo oltre. La storia è sprofondata nell’inarticolato. L’operazione che Celan compie è riarticolare l’inarticolato, pur sapendo che ovunque posi lo sguardo esso è costituito da confini mobili impregnati di dolore, i quali non appena vengono da lui toccati rendono la parola di per sé difficile. Già a partire dalla sola superficie di questo silenzio inarticolato, si scopre la frantumazione sofferta della parola, e più si affonda lo sguardo più si avverte la sete di chi, dimenticato, ha bisogno della parola del poeta. Quindi dalla stessa notte che tutto copre, che accoglie il tramonto del sole, può di nuovo albeggiare la luce della parola poetica. Zakhor è parola ebraica che indica il divieto d’oblio, impegno che Celan sente profondamente. Egli dà voce allo Schweigen, al tacere degli esseri umani, ma questo tacere è figlio della catastrofe, dello sterminio. In una condizione simile la parola riaffiora come contro-parola che emerge con fatica: in tal senso, di straordinario impatto, appare il balbettìo sillabante dei versi finali de Die Silbe Schmerz. Chi ha subito il dolore, colpito dal “mimetico artiglio del panzerfaust”, non può che sillabare, così pure la parola del poeta nel suo tragico dire. Non solo, quanto più il poeta tenta di dire tanto più si allargano i confini dell’Indicibile: «quanto s’inscrisse nel tuo occhio rende più fondo, a noi, il fondo». In Celan il rapporto tra il dire poetico e l’indicibilità dell’oggetto è materia stessa della poesia. Egli ne misura, se così si può dire, la distanza “abitandola”. La parola detta ha attorno a sé il silenzio, che ne è lo sfondo tragico su cui essa si staglia. Mai la parola del poeta potrà mai determinare esattamente quanto accaduto. Il silenzio inflitto è un’ombra agghiacciante che ci insegue, contiene in sé innumerevoli grida e volti sepolti. Il compito è non spezzare il legame eterno dell’uomo con l’uomo. Grata di parole Occhio tondo tra le sbarre. Palpebra, sfarfallante animale, voga verso l’alto, fa passare uno sguardo. Iride, natante, opaca e senza sogni: sarà prossimo, il cielo, grigio-cuore. Storta, nel beccuccio di ferro, la scheggia fumigante. Al senso che la luce prende tu indovini l’anima. (Fossi io come te. Tu come me. Non sottostammo forse al medesimo vento? Siamo estranei.) Pavimento. Sopra, l’una accanto all’altra, le due pozzanghere grigio-cuore: due bocconi di silenzio. Vivere dunque senza guerra: pare un’aspirazione impossibile. Non perché la pace si riduca alla non guerra, ma perché di fatto nelle società umane la condizione meno vissuta è la pace. In base a un calcolo abbastanza verosimile, su oltre tremilacinquecento anni di storia dell’uomo circa trecento sarebbero trascorsi senza guerra, meno del dieci per cento. Ciò pare “confermato” dall’angelo della storia di Paul Klee, ripreso nella Nona tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, che, trascinato per le ali dal vento del futuro, ha dinanzi a sé una lunga scia di rovine e macerie. Questo è lo stato del nostro mondo e della cultura che esso esprime. Da un lato, siamo impregnati di logica di guerra: basti pensare che le nostre istituzioni sono la legalizzazione della violenza, e cioè l’espressione della volontà di chi ha vinto. Dall’altro, ripudiamo la guerra e assumiamo la pace come bene supremo. L’uomo, comunque, continua ad essere causa e vittima della guerra. Ezra Pound, dopo un’esistenza travagliata, in uno dei suoi ultimi versi, scriveva “Siate uomini non distruttori”: sapremo ascoltarlo? in Il Foglio Clandestino, n. 61, 2007.
Posted on: Thu, 08 Aug 2013 06:37:12 +0000

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