LE ORIGINI DELLA MAFIA - Parte III La grande guerra Per molti - TopicsExpress



          

LE ORIGINI DELLA MAFIA - Parte III La grande guerra Per molti della mafia, la guerra (1915-1918) era stata un buono affare, mentre per i braccianti e i coloni rimasti a casa, e per le famiglie di quanti erano al fronte lo sfruttamento dei padroni e dei gabelloti era aumentato. La bassa mafia aveva sfruttato le nuove possibilità che si aprivano al malaffare: dal mercato nero al più mirato abigeato legato alla fornitura di quadrupedi all’esercito, per non far cenno al traffico, con l’aiuto del personale corrotto dello Stato, degli esoneri e delle licenze militari. Molti piccoli e medi proprietari erano impegnati al fronte e ciò aveva permesso la diffusione delle piccole affittanze, moltiplicando così le opportunità di chi riusciva ad entrare nella rete delle intermediazioni parassitarie. In Sicilia la naturale smobilitazione di molti presidi di polizia per l’impegno bellico, lo spopolamento dei giovani impegnati nella difesa della Patria, la rinascita del brigantaggio, la miseria unita ai lutti provocati dalla guerra, avevano aggravato i fattori di insicurezza e instabilità. La crescita dei partiti e dei movimenti di massa, provocata dal nuovo sistema elettorale proporzionale, introdotto per le elezioni del 1919, attentò alla organizzazione politico-mafiosa delle clientele. La lotta elettorale perdeva i caratteri personali, la vecchia classe politica doveva tener conto dei voti a sostegno delle liste di partito e della distribuzione delle preferenze fra i candidati. Montava, intanto, una inquietudine sociale determinata dalla indisponibilità dei contadini, reduci dal fronte, ad accettare lo stato di cose che avevano lasciato al momento del reclutamento, tanto che alla ricostituzione delle vecchie Leghe socialiste e cattoliche (‘rosse’ e ‘bianche’) si aggiunsero quelle “tricolori” del movimento combattentistico. I decreti governativi del 1919 e 1920 consentivano la concessione di terre incolte o mal coltivate a cooperative e leghe. Una normativa che non era proprio la riforma agraria, ciononostante provocò una dura reazione del fronte agrario-mafioso. Queste si impegnarono a sgretolare dall’interno le organizzazioni cooperativistiche e le leghe. Il massimo attivismo fu dedicato alla costituzione di cooperative di combattenti presiedute e dirette da personale mafioso o da gabelloti. Non tutti i combattenti erano disposti a subire passivamente l’iniziativa mafiosa. Indicativa è l’azione impressa da Nicola Alongi, a partire dal suo paese Prizzi, a costituire leghe nella Sicilia occidentale, contrastate apertamente da una cooperativa cattolica e da quelle dei “combattenti” costituita da un certo Sisì Gristina, grande gabellato, emanazione diretta della “onorata società”. Per meglio rendere visibile la propria contrarietà, ma soprattutto perché non fosse interpretata come debolezza la loro opposizione, ricorsero all’assassinio a Corleone, il 31 gennaio 1919, del capolega Vincenzo Zangara. Nonostante gli ostacoli frapposti l’iniziativa di Alangi incontrò un insperato successo. Per la prima volta i proprietari e i gabelloti si trovarono sulla difensiva. Giunsero, pertanto, alla determinazione di mettere in atto un piano organico tendente all’eliminazione dei maggiorenti del partito socialista. Per prima cosa pensarono di privarli dei principali collaboratori intimidendoli, terrorizzandoli o uccidendoli. Dopo il già segnalato assassinio di Zangara, spostarono la loro attenzione a Prizzi: nella notte del 22 settembre, fu assassinato il principale collaboratore di Alongi, Giuseppe Rumore, segretario della Lega di miglioramento. Seguirono altri atti terroristici: fu sequestrato Giuseppe Cascio (un altro capolega della zona); fu minacciato il contadino Giuseppe Zimmardi (coraggioso attivista del movimento); si attentò alla vita del vice sindaco socialista Giuseppe Macaluso; infine si puntò direttamente su Alongi. Quest’ultimo aveva sfidato a viso aperto in pubblici comizi i suoi probabili assassini. Fu tutto inutile: fu ucciso a lupara il 29 febbraio a pochi passi dalla Lega. Bisognava ora pensare a rendere innocuo il movimento di città per recidere il filo dell’alleanza operai-contadini. Sfruttarono i socialisti riformisti per isolare l’avanguardia operaia che, infatti, fu messa in minoranza nella Camera del lavoro. Tuttavia Giovanni Orcel, ch’era il principale obiettivo, in quanto alla testa delle fabbriche occupate e guida degli operai nella gestione delle attività produttive, non fu toccato nel suo prestigio. Quando quella esaltante esperienza finì, si trovò indifeso a subire le accuse dei riformisti e a pagare il conto al fronte industriale che, nel frattempo, aveva stretto rapporti di complicità con quello agrario-mafioso. Alla fine dell’occupazione del Cantiere navale, la sera del 14 ottobre, un ignoto sicario trafisse a morte Orcel con un terribile colpo di pugnale. L’ignoto killer si sarebbe confidato con suo fratello, operaio militante comunista, indicandogli quale mandante dell’assassinio un (Sisì Gristina). Diffusasi l’informazione nell’ambiente comunista, un gruppo di compagni provvide all’eliminazione del Gristina con una pugnalata mortale il 23 gennaio 1921. A sua volta il killer di Orcel sarebbe stato punito con la morte dalla mafia per aver rivelato il nome del mandante. Il periodo fascista Un vasto schieramento parlamentare portava avanti proposte riformatrici, con diverse indicazioni, per la “questione agraria” che andavano comunque in direzione di uno smantellamento del latifondo siciliano. Latifondisti e gabelloti temettero il crollo del loro dominio. Per scongiurare questa eventualità si disposero ad accettare un alleato settentrionale: il fascismo. Corriamo subito a dire che il ceto politico della borghesia mafiosa non fu unanime su tale scelta. Senza addentrarci nelle pieghe della Storia, non è nostro questo compito, ci limitiamo a segnalare che una parte, in alternativa al fascismo, puntava a rilanciare la protesta sicilianistica contro lo Stato nazionale; l’altra pensava di utilizzare il fascismo intanto contro il “pericolo rosso” per poi divenire a patti con esso perché riconoscesse e tutelasse l’autonomia del sistema di potere siciliano. Mussolini rispose con una politica aggressiva al fine di estromettere la classe politica prefascista, occupando con uomini di sua fiducia gli spazi sociali a tutti i livelli. Si predispose perciò a dare un colpo mortale alla mafia, affidando il compito a un funzionario statale di grandi qualità professionali, già questore di Trapani, il “prefetto di ferro” Cesare Mori. Qui il giudizio storico si sofferma su due diverse valutazioni: c’è chi sostiene la tesi che Mori riuscì ad infliggere un colpo decisivo alla mafia; altri che l’operazione si limitò a colpire e a disperdere la cosiddetta “bassa mafia” cioè la delinquenza più o meno organizzata, lasciando vivere l’”alta mafia” quella dei boss e dei notabili organici al sistema di potere. E’ perlomeno scontato che il regime fascista si fondava sulla difesa degli interessi di classe dei proprietari. Tant’è che il prefetto di ferro si attestò su un’interpretazione del fenomeno che si rappresentava un po’ tutti i proprietari, dai grandi ai piccoli, come vittime della mafia. Molte persone perbene si erano resi complici per uno “stato di necessità” da addebitare al malgoverno. Le prefetture avevano predisposto delle monografie sui vari paesi della Sicilia occidentale nelle quali erano stati censiti i membri della vecchia mafia e quelli della nuova mafia. I dati permisero a Mori dei blitz in ben individuate aree di elevata densità criminale. Procedette con il metodo delle retate. Assicurò così all’arresto centinaia, e poi migliaia, di malavitosi. Numerosi notabili mafiosi collaborarono con il prefetto. Si pensi che a Prizzi Epifanio Gristina, grande gabelloto, fu tra i primi caporioni del fascismo. A Gangi, sulle Madonie, si convertirono i baroni Sgadari e Li Destri, noti personaggi amici e frequentatori di briganti e mafiosi. Il Marino ci assicura che si potrebbero enumerare centinaia di casi simili. Le tante conversioni spinsero Mussolini a fermare il prefetto di ferro, il quale preso alla lettera il primitivo ordine impartitogli, aveva sottoposto ad indagine un importante gerarca, l’onorevole Alfredo Cucco, già autorevole personaggio della mafia di Castelbuono. Il duce si affrettò a chiudere la questione coprendo di onori Cesare Mori, ma di fatto accantonandolo. Traiamo da quanto detto la conclusione che avevano ragione coloro che sostenevano essere l’obiettivo vero quello di debellare la bassa mafia? Ragione solo in parte se si leggono attentamente i documenti dell’epoca. La stragrande maggioranza dei malavitosi sottoposti ad un numero impressionante di maxiprocessi, indubbiamente, era di poveracci, la manovalanza della mafia ma non pochi stavano al di sopra della bassa mafia. Mori colpì duro anche in alto e avrebbe certamente proseguito sui rapporti mafiapolitica se non fosse stato fermato. Non sfuggì, per esempio, ad una dura pena carceraria don Vito Cascio Ferro, il patriarca di Bisacquino (un nome che abbiamo incontrato nel caso Petrosino), morì in carcere sotto i bombardamenti alleati del 1943. Fu trascinato in giudizio l’avvocato Antonio Ortoleva ritenuto capo dell’intera organizzazione criminale della mafia. Molti ex sindaci mafiosi, a partire da Francesco Cuccia di Piana dei Greci, furono condannati a gravi pene detentive. Furono colpite personalità rispettate, come il commendatore Gaetano Bongiorno, l’avvocato Gaetano Salemi e notabili come Antonio Lopez, Antonio Tata, Marcello Milletarì, Stefano Pittari, Placido Stimolo e l’Ortoleva, i Tusa, i Gruccione, i Farinella. Non la fecero franca personaggi di primo piano nel panorama criminale: Calogero Vizzini, “signore” di Villalba, Giuseppe Genco Russo “patriarca” di Mussomeli e il palermitano Carlo Gambino. Questi ultimi sarebbero diventati, poi, il gotha della mafia. La verità è che il fronte politico-mafioso si era diviso al suo interno. Mori e il fascismo usufruirono di una crescente . Il linguaggio mafioso li denominava cascittuni e muffuti, cioè traditori. Il fascismo li avrebbe ‘educati’ ; . 10. I “cugini americani”, il New Deal, Cosa nostra I mafiosi antifascisti potevano contare sulla solidarietà della colonia sicula negli States, anche se non si è mai scoperto quali segreti canali fossero riusciti a mantenere nel corso degli anni fascisti. Si sa, invece, con certezza, che già nei primi anni Venti si era stabilito un interscambio di ‘favori’ consistente nell’usare killer americani per delitti da compiere in Sicilia e killer siciliani per delitti da compiere in America. Infatti, un certo Arnone, delinquente nisseno, già emigrato negli Usa, per sfuggire ad un ergastolo comminatogli per un duplice omicidio, ritornò in Sicilia per compiere un altro assassinio, una vendetta mafiosa. L’’onorata società’ siciliana in un summit organizzò, nel 1925. Il ritorno in America. Bisogno pur dire, i mafiosi della madrepatria erano ascoltati e rispettati dai mafiosi americani, anche se in concreto se ne stavano allontanando. Chi determinò il corso dei radicali cambiamenti fu Lucky Luciano (Salvatore Lucania). Gli incentivi offerti, per effetto del New Deal roosveltiano, agli sviluppi di una società dei consumi di massa, consegnò opportunità di affarismo legale-illegale alla mafia. Anche il campo di potere nel mondo del lavoro per il controllo dei sindacati operai e le facili scalate nella politica e nei partiti tanto a livello di base, nelle città piccole e grandi, quanto negli Stati e negli organismi della Federazione, impressero un’accelerata al profondo cambiamento dell’iniziativa criminale. Intanto, dopo la fine del proibizionismo, si profilava un più ricco business: quello degli stupefacenti. Si era affermato, in particolare nel settore dei trasporti e nei porti, il controllo mafioso del mercato del lavoro attraverso atipici sindacati operai; continuava a fornire sostanzioso reddito il gioco d’azzardo e la prostituzione, perché si era esteso fino alla vicina Cuba. Tutto questo pretendeva, come abbiamo detto, un cambiamento profondo. Lucky Luciano, con Alberto Anastasia, capo dell’”Anonima assassini”, intuirono i nuovi tempi e si adoperarono per la trasformazione dell’organizzazione. Lucky, per l’affermazione della nuova linea, fece pulizia tra le famiglie newyorchese a partire dalla sua Bruccolino – liquidando due boss anziani: Joe Masseria, con l’aiuto di Salvatore Maranzano, nel 1950; poi lo stesso Maranzano l’anno successivo. Conquistato uno spazio di potere, iniziò a costruire una rete di alleanze, guardando a ‘famiglie’ e ai boss che assicuravano un’operazione ben oltre l’orizzonte New York. Si associarono i Genovese, i Bonanno, i Gentile e i Galante, i Bonventre, Di Bella, Garofalo, Sorge, Priziola, Vitale e tanti altri personaggi che negli anni avrebbero costituito il gruppo dirigente, la ‘cupola’ della mafia americana. Nacque così “Cosa nostra” una holding dell’affarismo mafioso, diventata poi una multinazionale criminale con capitali garantiti da una moltitudine di affari sporchi o ripuliti, talvolta persino legali, all’insegna dei ‘favori’ da rendere agli alleati della politica e dell’economia. Il principale precursore di tanta e tale organizzazione ebbe vita difficile, fu incriminato e processato per l’unico reato sul quale la polizia riuscì a raccogliere prove: lo sfruttamento della prostituzione. Fu condannato a trent’anni di carcere, ma gli ‘amici’ e gli interessi nazionali, curati dai servizi segreti, gli garantirono una clandestina “libertà provvisoria”. Insomma Lacky trovò una collocazione nell’organigramma degli agenti segreti, lautamente remunerato con la concessione di una libertà di business in America e fuori, diventando di fatto ambasciatore della mafia Usa, impegnata negli affari del mercato internazionale degli stupefacenti, interessata alla Sicilia come fondamentale base strategica in Europa. “Cosa Nostra” avrebbe goduto del soccorso di potenti coperture politiche e militari, ciò gli avrebbe permesso stabilire organiche alleanze soprattutto con la massoneria. Il riconoscimento ufficioso della mafia nel sistema dei grandi interessi nazionali statunitensi lo si può attribuire, senza ombra di smentita, al ruolo sociale ed economico della comunità siculo-americana e al senso della politica, all’astuzia, alla saggezza che veniva . Don Calogero Vizzini Dice Rosario Mangiameli, profondo studioso della mafia: se negli Stati Uniti nessuno avrebbe potuto essere più americano di Lucky Luciano, in Sicilia, nessuno avrebbe potuto essere più siciliano di Calogero Vizzini . Guardiamo più da vicino, quindi, il personaggio. Mantenendo il parallelismo con il quale abbiamo iniziato questo capitolo, si può affermare che mentre negli Usa si compiva la modernizzazione mafiosa, i tradizionali e antichi interessi parassitari del latifondo in Sicilia stavano conseguendo la loro più significativa espressione nella personalità di don Calogero Vizzini, signore di Villalba. Don Calò aveva una carriera nella quale all’interesse per consolidate speculazioni nel settore agricolo si aggiungevano affari di tipo commerciale-criminale e nel settore zolfifero. Un gabelloto di terre e di miniere. Aveva subito intuito la guerra come un buono affare e si era interessato nei traffici mafiosi con le attività dei distretti militari, dei centri di assistenza e della Commisione di requisizione degli animali e dei prodotti agricoli. Aveva conseguito profitti dal mercato degli esoneri e delle licenze militari per finti invalidi e ammalati. Il meglio lo aveva tratto con il commercio dei cavalli, dei muli e, in genere, degli animali da soma, da tiro o da carne. Non possedendo animali, si era industriato a rubarli. Nel 1917, però, non sfuggì ad un mandato di cattura per reati di corruzione e frode . Nel procedimento giudiziario, svoltosi a Caltanissetta nel 1918, uscì assolto. Essendo già proprietario del feudo Marchesa di 501 ettari (acquistato nel 1916, per appena sessantamila lire, in un’asta pubblica truccata), decise di lottizzarlo e di venderlo ai contadini, a prezzi di solito superiori alle 1500 lire ad ettaro, sicché dovette guadagnare un somma almeno dieci volte superiore a quella che, appena due anni prima, aveva impegnato all’acquisto. E con gli abbondanti mezzi finanziari ormai in suo possesso si era lanciato nel settore minerario. Con un unico dei proprietari, nell’ottobre del 1919, era diventato . In totale, ben dieci miniere, a parte la zolfara “Gessolungo” di cui aveva acquisito da tempo la piena proprietà. Alle soglie del fascismo era diventato un rispettabile industriale. Nonostante ciò non abbandonò mai le sue posizioni nel latifondo. Villalba gli riservava un largo consenso, tanto che il fascismo non riuscì a scalfirne l’autorevolezza, anche se conobbe, a partire dal 1928, l’umiliazione del confino di polizia e quella di un fallimento; nel 1929 in un processo dovette difendersi dall’imputazione per associazione a delinquere come capo di una . In quell’occasione vi fu una mobilitazione, in suo favore, dei ‘galantuomini’ e di un popolo del suo ambiente. Un generale della milizia fascista criticò addirittura le autorità del regime sostenendo che il Vizzini era vittima del fascismo. Il risultato: una trionfale assoluzione. Don Calò era una personalità inossidabile, d’altra parte i fascisti dai quali era circondato erano suoi antichi clientes: aiutati a farsi strada nella politica gli restavano fedeli. Era saggio, tollerante e sapeva aspettare. Il separatismo e lo sbarco degli Alleati Nel 1940 Mussolini lanciò l’, creando non poco allarme nell’area del baronaggio agrario-mafioso, mettendo in crisi consolidate lealtà fasciste. I latifondisti non avrebbero corso dei pericoli relativamente ai diritti di proprietà, a condizione di realizzare (con l’aiuto tecnico e finanziario dello Stato) dei piani di trasformazione per rendere produttive le terre incolte o malcoltivate. Per il vero i provvedimenti minacciati sarebbero rimasti sulla carta. Non si ha notizie, infatti, di avviamento di procedure espropriative. I grandi baroni godevano di ‘amicizie’ e ‘influenze’ per sottrarsi sia agli obblighi di legge che alle sanzioni previste per l’inadempienze. Tuttavia, per quanto inapplicata, la nuova legislazione rimaneva uno spauracchio in particolare per i gabelloti. Bastava, comunque, per determinare una rottura della linea di alleanza della politica nazionale con gli interessi dei latifondisti siciliani. La caduta del fascismo e la previsione di una possibile affermazione, al governo dell’Italia, dei parti della sinistra di classe, rese più acuta la paura dell’”assalto al latifondo”. Nel prenderne atto il fronte agrario-mafioso si convinse che per i feudatari non vi era altra strada se non quella di rilanciare il separatismo. Un gruppo di personaggi guidati da Andrea Finocchiaro Aprile fondò un Comitato d’azione. Il momento sembrò propizio per sfruttare gli interessi strategici nel Mediterraneo delle grandi potenze e le conseguenze della catastrofe fascista sullo stesso organismo dello Stato unitario. : la ricomposizione del fronte mafioso antifascista fu cementata nel giugno 1943 dallo sbarco alleato in Sicilia. L’operazione Husky, come fu detta in codice, era stata preparata da un lavoro dei servizi segreti nel quale la mafia aveva avuto un ruolo di primo piano, sul quale ci fermeremo per miglio chiarirne i contorni. Lucky Luciano fu ‘arruolato’ mentre era ancora in carcere per iniziativa dei servizi segreti della Marina. Fu richiesto alla mafia di sovrintendere al porto per prevenire possibili azioni di guastatori tedeschi. Essendosi rivelato all’altezza della missione, ebbe le credenziali per nuovi incarichi. Nel 1942 un dirigente del Secret Intelligence chiese i servizi di Lucky per organizzare la penetrazione ‘politica’ della Sicilia in vista dello sbarco militare. Nello stesso anno fu costituito, con l’appoggio del Dipartimento di Stato, uno specifico sindacato italoamericano con il compito di . A Luciano fu affidato il compito di organizzare un fronte interno filoalleato in Sicilia, sfruttando tutte le risorse della mafia e i suoi rapporti con la massoneria. In pratica, la mafia veniva legittimata come futura classe dirigente dell’isola, con potenziali compiti di presidio sull’intera Italia. Non è possibile che si costringesse Lucky Luciano a tessere le fila e a impartire le sue disposizioni ai ‘cugini’ siciliani dal chiuso di una prigione. Dovettero ottenere una clandestina liberazione e inquadrarlo, con una falsa identità, nel gruppo degli agenti e dei consulenti che collaborò con i generali al momento dello sbarco. Non poche testimonianze dirette avvalorano questa ipotesi. Sta di fatto che nel 1946 il governatore dello Stato di New York decise ufficialmente di ‘perdonarlo’ e di liberarlo condonando ben due terzi della pena: la libertà gli fu concessa (con il singolare obbligo di rientrare in Italia) per meriti patriottici. Mancando riscontri storiografici sulla vicenda a noi interessa sottolineare che Lacky fu il perno dell’operazione affidata a “Cosa nostra” che vide acquisire l’”Onorata società” siciliana alla strategia della politica americana in Italia. Con Luciano operarono, a vario titolo, i principali esponenti dell’organizzazione mafiosa americana: Joe Adonis, Albert Anastasia, Joseph Antoniori, Jim Balestrieri, Thomas Buffa, Leonard Calamia, Frank Coppola detto “Tre dita”, Frank Costello, Joe De Luca, Peter e Joseph Di Giovanni, Nick Gentile, Vito Genovese, Tony Lo Piparo, Vincent Mangano, Joe Profaci. Nell’estate 1943, tutti i mafiosi inviati dal prefetto Mori nelle colonie penali del regime e gli altri perseguitati tornarono in libertà con la patente di antifascisti. Tutti i ‘cugini’ di Lucky Luciano erano rispettabili antifascisti. Come loro guida apparve subito sulla scena – con il suo – Andrea Finocchiaro Aprile. Il Movimento per l’indipendenza siciliana (MIS) fu la prima forza politica apparsa pubblicamente come rappresentanza democratica nella Sicilia libera. Fu insediato come Sindaco di Palermo un grande proprietario terriero come Lucio Tasca. Sulla stesa linea furono collocati alla guida delle amministrazioni comunali dell’isola: oltre don Calò Vizzini a Villalba, Giuseppe Genco Russo a Mussomeli e Francesco Di Cristina a Riesi, Antonino Affronti, Serafino Di Peri, Giuseppe Giudice, Vincenzo Lanolina, Peppino Scarlata, Alfredo Sorce. A pochi mesi dello sbarco alleato a Gela, in un rapporto, redatto nel dicembre 1943, informava che e che . Fu consegnato al boss Vincenzo De Carlo il controllo degli ammassi del grano e al medico arcimafioso di Corleone Michele Navarra l’organizzazione di una società di trasporti nell’entroterra Palermitano destinato a regolare le attività del mercato nero. . La fine di un sogno – I nuovi briganti – La guerra: onorata società movimento contadino La crescente iniziativa di massa aveva convinto la mafia ad abbandonare il progetto secessionista anche perché le organizzazioni politiche affrettavano i tempi per la concessione alla Sicilia di un’ampia autonomia regionale, dotata di un suo adeguato Statuto. Si trattava, quindi, di ripiegare sulla tradizionale trattativa con lo Stato nazionale. Si offrì subito l’occasione di misurare la propria forza contrattuale proprio sull’”ordine”. Nell’immediato dopoguerra era risorto il fenomeno del brigantaggio, seguito da un consistente numero di bande criminali dedite a rapine, saccheggi, estorsioni e sequestri di persone, tra le quali, a fianco di quella più nota di Salvatore Giuliano nel Palermitano, si segnalavano quelle di Badalamenti nell’Agrigentino, di Rosario Avola a Niscemi (la banda detta, appunto, dei ‘niscemesi’), degli Albanese nelle Madonie, del Trabona nel Nisseno e le altre sparse nelle campagne, dei vari Dottore, Di Maggio, Labruzzo, Li Calzi, Mulè e Urzì. Per assicurarsi un migliore controllo dei briganti, la mafia utilizzò un organismo militare, l’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) che, per la precisione, era nato come organismo dell’iniziativa dei giovani separatisti animati da un autentico patriottismo siciliano. Dopo una serie di drammatiche vicende l’organismo fu affidato a Concetto Gallo, personaggio organico alla mafia, che curò di dare un inquadramento ‘militare’ al brigantaggio, attuando un piano, concordato con Francesco Paternò di Carcaci e Luciano Tasca. Dopo aver assunto al suo servizio Rosario Avola, con la mediazione del barone Stefano La Motta, investì del grado di colonnello dell’Evis Salvatore Giuliano. Era la prima volta di una gestione diretta del brigantaggio da parte delle alte gerarchie baronalimafiosi. Nel 1945 si pose il problema con quale stato la ‘trattativa’ avrebbe potuto essere ripresa. Qui si registrò una decisa frantumazione dello schieramento agrario-mafioso: chi riteneva archiviata l’ipotesi seccessionistica, chi invece la riteneva ancora praticabile, soprattutto come arma per misurarsi con il pericolo dell’avvento della repubblica. Ancora, vi era una parte dichiaratamente filomonarchica e un’altra di agnostici. Vi fu un maldestro tentativo, da parte dell’aristocrazia del latifondo, di ipotizzare una vandea in caso di cambiamento istituzionale (la repubblica al posto della monarchia) e di proporre, direttamente a Casa Savoia, una ridicola tresca, per la verità sdegnosamente respinta dal re Umberto. Aperte le urne della consultazione per l’elezione dell’Assemblea Costituente, si prese atto del fallimento delle liste del MIS. Era la fine del baronaggio come classe. Liquidato il separatismo, la mafia non riusciva a trovare riferimenti politici affidabili che non fossero quelli delle sue ‘amicizie’ negli ambienti americani e dei servizi segreti. Dimostrare di essere capace di mantenere il controllo del latifondo e bloccare la riforma agraria diventò l’obiettivo principale per il fronte mafioso. L’”Onorata società” si impegnò particolarmente a contrastare, con la violenza e il terrorismo, il movimento contadino che, intanto, sembrava aver preso coscienza della sua forza, dei suoi diritti e, quindi, disposto a resistere. Purtroppo la guerra era impari: da una parte si combatteva con la lupara e, dall’altra, con l’arma dell’organizzazione, della protesta, dello sciopero. Il risultato fu che a seminare vittime era la parte mafiosa: decine di caduti, decine di martiri, sindacalisti, dirigenti di vario livello, semplici militanti. Una vera e propria mattanza. La mafia e la strage di Portella della Ginestra Come si è ampiamente documentato, la presenza della mafia, la sua iniziativa, il suo sviluppo sono indissolubilmente legati all’evoluzione politica subita dall’isola. Vi è stato uno sforzo nel raccontarla che ha teso a scindere obiettivamente i fatti criminali da quelli politici, laddove ciò era possibile e non sempre lo è stato. Spesso l’opera degli uni (i politici) e degli altri (i criminali) si confondeva nell’esecuzione, differenziandosi, a volte, negli obiettivi. Per i politici quello del prestigio e dell’autorità; per i criminali quello degli affari e della difesa di una funzione che, almeno apparentemente, li salvaguardava, prima di tutto, dalla condanna della società e poi da quella dei tribunali. Ecco perché a questo punto della storia troviamo difficoltà a raccontare un passo che pure fu altamente strategico ai fini della difesa dell’autonomia nazionale e della stessa sua sopravvivenza come Stato. A tanti anni dall’accaduto, tra l’altro, non è possibile tracciare una tesi che sia definitivamente e legittimamente accettata. Non l’ha fatto la giustizia, la storiografia ufficiale, gli attori stessi di quella drammatica vicenda. Si muovono, quelle sì, le innumerevoli ipotesiiffusamente corredate da prove presentate come concrete, ma spesso delle ipotesi si può anche subire il fascino, ed è il pericolo che non vogliamo correre. L’avvenimento lo racconteremo tendendo sempre fermo quello che è il nostro compito: indicando gli esecutori, per la verità noti da tempo, e coloro che, all’epoca, avevano interesse che l’eccidio suscitasse una forte e irrazionale reazione. Segnaleremo, tutt’al più, confidenze ed eventuali confessioni che però facciano parte del dossier documentale che ha accompagnato per anni la discussione sull’evento. Non vi è dubbio che c’è stata in Italia un’occulta repubblica che in vari modi e tempi ha reagito nell’ombra con gli strumenti della corruzione, della mafia, della massoneria e dei servizi segreti alla repubblica manifesta e ufficiale. Il fatto è noto. Circa tremila, tra contadini poveri della provincia di Palermo, con le loro donne e i loro bambini, riunitisi a Portella della Ginestra, celebravano la festa del lavoro. Festeggiavano i primi successi delle loro lotte e la vittoria elettorale della sinistra nelle elezioni regionali. Alle 10,30, un calzolaio di Piana dei Greci, il segretario della locale sezione socialista, prese la parola per il discorso ufficiale. Dalle montagne circostanti cominciarono a sparare le mitragliatrici. La folla si agitò e si scompaginò per trovare un riparo. Trentaquattro persone (undici morti e oltre ventisette feriti) uomini, donne, bambini restarono sul terreno. I dirigenti politici e sindacali, organizzatori della manifestazione, indicarono subito i ‘baroni’ come esecutori per mano di ignoti esecutori reclutati dalla mafia. Il governo diete immediato conto dell’accaduto dichiarando: . Qualche giorno dopo si dovettero rivedere gli elementi per l’interpretazione dei fatti. L’episodio, tral’altro, non restò un episodio circoscritto. Per questo denunciava l’esistenza di un disegno politico criminale. La sera del 22 giugno fu attaccata, a raffiche di mitra e con bombe a mano e bottiglie Molotov, la sezione comunista di Partinico. A parte i molti feriti, le vittime furono due comunisti. Nel corso della medesima notte, furono assalite e devastate le sedi dei partiti di sinistra a Carini, San Giuseppe Jato, Borgetto, Montelepre e Monreale. Questa volta i criminali firmarono le loro azioni: un volantino firmato Salvatore Giuliano invitava i giovani siciliani alla riscossa e informava della costituzione di un quartiere generale della lotta armata. Il 21 giugno le indagini indicavano in Salvatore Giuliano, con venti uomini della sua banda, l’autore materiale della strage di Portella. Lo stesso ministro degli Interni riconobbe che il fuorilegge si era fatto . In altri termini la versione ministeriale era che la strage non sarebbe stata altro che una tragica operazione compiuta ai danni del governo da parte di un fuorilegge intenzionato a ricattare lo Stato per ragioni di sopravvivenza personale. Per una spiegazione approfondita e definitiva occorrerebbero le informazione che, come abbiamo detto, né i giudici del processo di Viterbo alla banda Giuliano con le settecento pagine della loro sentenza, né i parlamentari della Commissione d’inchiesta sulla mafia nelle sue varie edizioni, sono riusciti ad acquisire. Vi furono, è vero, le indicazioni di un seguace di Giuliano, il brigante Rosario Candela che rivelò: . Uno di più informati testimoni, il bandito Salvatore Ferreri, detto fra’ Diavolo, che aveva partecipato alla riunione nel corso della quale era stata organizzata la strage del primo maggio, era stato eliminato dalla polizia. Tutti episodi che indicano che se si avesse avuto interesse a giungere alla verità, vi erano strade percorribili. Lo stesso bandito Giuliano restò in bilico tra la tentazione di vuotare il sacco per dare una risposta al rigore della polizia, e l’esigenza di non parlare, perché soltanto con il silenzio avrebbe potuto continuare a sperare nell’aiuto di quelle forze da cui dipendeva la sua stessa sopravvivenza. Puntava tutte le sue carte sulla conquista della libertà, era ben consapevole che senza la protezione della mafia non avrebbe potuto continuare la sua latitanza. Non solo, che si sarebbe salvato soltanto se fosse riuscito a trovare un clandestino asilo all’estero e che, date le specifiche relazioni internazionali dei suoi protettori, la sua terra promessa era negli Stati Uniti d’America. Da parte sua il fronte agrario-mafioso si pose il problema di come ottenere maggiori vantaggi possibili prima di consegnare allo Stato, Giuliano. E’ lecito supporre che alla partita partecipassero sia le personalità politiche indicate dai briganti ai giudici di Viterbo come mandanti della strage; sia i vari ispettori di polizia e gli agenti segreti italiani e stranieri. Ma il ruolo principale era svolto dalla mafia. Nell’ambiente mafioso si svilupparono contrasti radicali: da una parte i portatori della continuità e, quindi, la riconferma del ruolo dei gabelloti nei latifondi; c’erano però quelli convinti di puntare sulla prospettiva dei nuovi affari urbani legati alla fase della ricostruzione del Paese. La mafia, del resto, capiva di non poter pretendere un trattato, aveva bisogno di comportamenti e atti concreti. Il ministro degli Interni (il siciliano Scelba) aveva necessità di rendere evidente agli stessi mafiosi la forza del nuovo regime repubblicano. Intatti, utilizzando anche l’esercito sottopose in stato di assedio Montelepre e i paesi vicini. Attribuì un ruolo preminente ai carabinieri, nacque il Comitato forze repressione banditismo (CFRB). La soluzione adottata avrebbe consentito di giustificare eventuali accordi operativi con la mafia. Di fatto aveva legittimato la “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Secondo una prima versione ufficiale, il bandito Giuliano, in procinto di espatriare con un aereo, sarebbe stato ucciso la notte del 5 luglio 1950 nel cortile di una casa di Castelvetrano, vittima di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Un giornalista de “L’Europeo” avrebbe scoperto che il conflitto a fuoco era stato una volgare sceneggiata: il bandito, in realtà era stato ucciso, per ordine della mafia, forse dal suo luogotenente e cugino Gaspare Pisciotta. Secondo un’altra versione dei fatti, Giuliano sarebbe stato già consegnato cadavere a Pisciotta dalla mafia di Monreale, diretta dal boss Ignazio Miceli, che avrebbe provveduto a farlo uccidere dal ‘picciotto’ Luciano Liggio, per ordine di Gaetano Badalamenti. . . La fine del latifondo Il rispetto del ‘patto’ con “Cosa nostra” fu l’omertà di Stato: la decisione di nascondere con il silenzio il fenomeno siciliano, tanto che i funzionari centrali e periferici del ministero dell’Interno, in particolare i prefetti, quando erano costretti a riferire o proporre su fatti delinquenziali evitavano la parola ‘proibita’ (mafia) ricorrendo a complicate circolocuzioni. Coerente con questo comportamento fu il governo bloccando ogni proposta avanzata d’istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta, schierandosi, poi, apertamente contro ogni ipotesi di provvedimenti eccezionali per la Sicilia. Su una linea simile si sarebbe attestata la stessa magistratura, testimoniata dalle relazioni pronunciate in apertura degli anni giudiziari. Non solo, il ministro dell’Interno ebbe più volte a dichiarare pubblicamente la sua soddisfazione per la crescente normalizzazione della Sicilia, fino a giustificare la presenza del boss Giuseppe Genco Russo in una lista elettorale democristiana per le amministrative, in quanto in possesso di un cartellino penale pulito. Nel 1950 vi fu il via libera per l’attuazione della riforma agraria. Non ci soffermeremo sui suoi contenuti, per non appesantire questa monografia ma soprattutto perché non è il nostro compito, aggiungiamo solo che essa conteneva varie norme e contraddizioni che davano spazio a interpretazioni restrittive a vantaggio dei grandi proprietari. Inoltre con il lavoro dell’Ente per la Riforma Agraria in Sicilia (ERAS) si sarebbe avviata la corruzione spicciola. Basti pensare che l’Ente passò da 266 impiegati ad oltre duemila, fu nominato suo Commissario un certo Arcangelo Cammarata, che gli americani, a suo tempo, avevano nominato prefetto di Caltanissetta. Questi nominò come suo consulente il già nominato boss Giuseppe Genco Russo, altro consulente fu il boss Vanni Sacco. . Ciononostante non si può non sottolineare la portata storica della riforma in quanto fu smantellato l’intero sistema del latifondo. Segnò anche la ‘modernizzazione del sistema mafioso’ per le nuove e spregiudicate opportunità di investimento per il denaro liquido intascato dai proprietari con gli indennizzi e le vendite. Tra l’altro, nel marzo 1950, nacque la Cassa per il Mezzogiorno, che offriva . C’era poi, in particolare a Palermo, la massiccia attività speculativa che si apprestava ad allestire la Regione autonoma con i suoi assessorati e con i suoi enti pubblici. Insistendo necessariamente, per mettere a fuoco la riqualificata presenza mafiosa, ricordiamo: il 10 luglio 1954 morì, nel suo letto, Calogero Vizzini. Gli resero onore con un trionfante funerale, presieduto da monsignori, autorità pubbliche e dignitari dell’”Onorata società” provenienti da tutta l’isola, accolti da un enorme epitaffio collocato sulla porta della chiesa. Si inchinarono anche magistrati del livello del procuratore capo Giuseppe Lo Schiavo. Nel marzo 1961 un altro epitaffio, collocato sempre sulla porta della chiesa, annunciava un altro trionfante funerale quelle del ‘padrino’ di Riesi Francesco Di Cristina. Il bello è che le roboanti parole le scrivevano i preti e gli intellettuali di paese. 16. La trasmigrazione dalla campagna alla città Genco Russo, succeduto nella guida suprema della mafia a don Calò, restò nella sua Mussomeli, alla testa del Consorzio di bonifica del Tumarrano. Il sistema mafioso della campagna continuò a funzionare e ad assassinare un’altra decina di dirigenti contadini, tra i quali Salvatore Carnevale nel 1955 e Carmine Battaglia che avrebbe chiuso la lista nel 1966, in un’area atipica delle attività mafiose, a Tusa, nel Messinese, dove si era recentemente insediata una mafia che controllava il sistema della pastorizia e della zootecnia sui Nèbrodi. . Per essere didascalici: i meriti per accedere all’avventura urbana erano conquistati in campagna. Prendiamo la carriera criminale di Luciano Leggio, detto Liggio. Egli è il capostipite del feroce gruppo mafioso detto dei “corleonesi”. Come conquistare la ricchezza con il malaffare gliela aveva suggerito Vincent Collura, formatosi negli States, rientrato a Corleone nel 1936. Il maestro divenne suo complice. Il capo della mafia corleonese era il medico condotto Michele Navarra. A seguito degli ordini impartiti dal medico, Collura, con Lucianuzzu (così chiamavano Luciano Leggio) il 10 marzo 1948 fece fuori Placido Rizzotto, sindacalista che guidava nella zona le lotte contadine. Il Collura, comunque, mordeva il freno, dotato di altra mentalità attendeva l’occasione per liberarsi della presenza del medico. Tra l’anziano dottore e il ‘picciotto’ Lucianuzzu si ingaggiò una battaglia. Una società costituita dal padre del ‘picciotto’ per l’esercizio di attività armentizie – in realtà una banda che si occupava soprattutto di macellazione clandestina – entrò in contrasto con un agricoltore locale, protetto da Navarra, titolare . Il conflitto, per il vero, era molto più radicale. La reale posta in gioco era la sorte del progetto per la costruzione di una diga destinata ad irrigare la valle del Belice. Navarra si opponeva perché l’eventuale costruzione comportava l’espropriazione delle sue terre; Luciano Liggio, titolare di una piccola impresa di trasporti, intravedeva nella realizzazione dell’opera un’occasione di grandi affari. Si può dire che vennero in contrasto le cautele conservatrici dei nostalgici del latifondo e lo spirito innovatore. Lucianuzzu capì tutto: il Navarra doveva essere eliminato. Fu giustiziato il 2 agosto 1958. Nasceva un nuovo tipo di mafia. Il primitivismo criminale si fondeva con le vocazioni manageriali. Nasceva, così, una nuova scuola che avrebbe allevato i vari Riina, Brusca e Provenzano. Del resto il crollo del sistema del latifondo imponeva decisi cambiamenti. Vanni Sacco si può dire che sia il migliore esempio per cogliere i processi di transizione. Era un autorevole capocosca dell’entroterra. In provincia di Trapani non si faceva una vendita di terreni senza il suo consenso. Il tratto agricolo non era per Sacco esclusivo, era, infatti, impegnato nel contrabbando dei tabacchi che avrebbe aperto l’orizzonte verso i narcotraffici, di cui Sacco fu il precursore. Il che avrebbe posto problemi di perfezionamento della macchina criminale, che vide impegnati altri personaggi di scuola tradizionale come i Rimi, i Greco, i Badalamenti, i Di Maggio, i Bontate e i Buscetta.
Posted on: Wed, 02 Oct 2013 19:41:55 +0000

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