LOTTA DI GIACOBBE CON DIO. (Gen. 32, 23-33) La tradizione - TopicsExpress



          

LOTTA DI GIACOBBE CON DIO. (Gen. 32, 23-33) La tradizione Jawhista per comporre questa scena ha usato elemen­ti molto arcaici, perfino mitici e folcloristici. C’è innanzitutto l’essere misterioso che si presenta innanzi a Giacobbe: alla base ci potrebbe essere un ricordo leggendario legato al fiume Iabbok (che significa: “fiume blu”), e allo “spirito” o al “dio del fiume”. L’uomo cerca di vincerlo ma ne resta colpito. Nella visione antica del mondo, le forze della natura, che spesso erano sentite ostili e minacciose, venivano personifica­te e rappresentate come divinità. Così accade anche per il fiu­me Iabbok: la difficoltà di attraversare il fiume veniva intesa come una lotta che si doveva affrontare contro lo “spirito del fiume”.A questo elemento se ne può aggiungere un altro: i fiu­mi molto spesso segnavano i confini tra territori di tribù diver­se. Lo “spirito del fiume”, quindi, proteggeva i confini stabiliti. Questi elementi fanno da sfondo all’episodio della lotta di Giacobbe con questo uomo misterioso. Il narratore biblico, inserendo questa scena alla vigilia dell’in­contro tra Giacobbe ed Esaù, vuole anche sottolineare le paure e le difficoltà dello stesso Giacobbe. C’è poi il tentativo ben noto di spiegare il nome della loca­lità dove avviene lo scontro : “Penuel” (dall’ebraico: “panim” = “faccia”), quindi “Ho visto Dio faccia a faccia”. C’è poi anche la spiegazione di una prassi elementare (“il nervo sciatico”), per altro ignota al resto dell’A.T. e sembra un’aggiunta ai testi primitivi, che disturba il filo della nar­razione. L’autore coglie l’occasione di tramandare un evento del passato (il divieto di cibarsi della parte della carne animale che contiene il nervo sciatico), che ha però un legame con il presente: l’uomo che si incontra col mistero divino, rappresen­tato sotto spoglie umane (vedi cap. 18), ne esce vinto, zoppicante e trasformato. Ma soprattutto c’è il decisivo mutamento del nome di Giacobbe in quello nazionale di Israele (“sarah” = “lottare” e la parola “El” = “Dio“: lottare con Dio”). Al nome è data una interpretazione amplificata (“e con gli uomini”) per indicare che le lotte di Giacobbe (ed implicitamen­te del popolo ebraico) si concluderanno in vittorie; ma “Israele” indica anche una nuova vocazione e un nuovo destino: quello di capostipite del nuovo popolo della promessa divina. Infatti la richiesta di Giacobbe di ricevere una benedizione, è soddisfatta sommamente in vista della sua nuova missione. Il misterioso lottatore, invece, nasconde la sua identità, ri­manendo avvolto nel mistero. Alla fine sorge l’aurora: essa è l’alba di una nuova era; si apre una nuova fase della storia della salvezza, incentrata su un uomo nuovo: colui che ha lottato con Dio ed è stato benedet­to ed eletto per una grandiosa missione. Uscito da quella straordinaria esperienza, Giacobbe si trova di fronte al fratello e ai suoi 400 uomini. Fa avanzare le donne e i bambini e, alla fine, si presenta lui, in atto di totale sot­tomissione, prostrandosi sette volte fino a terra. Ma ecco la sor­presa: Esaù si precipita incontro al fratello, lo abbraccia e lo bacia tra le lacrime. La tensione è sciolta, l’incubo è svanito: è una scena inattesa, però a lieto fine. L’incontro tra Esaù e Giacobbe si svolge tra una serie conti­nua di gentilezze e si conclude (dopo che Giacobbe avrebbe voluto offrire i donativi preparati: segno della potenza da lui raggiunta con la benedizione divina), con la proposta di Esaù, di marcia­re insieme, ricomponendo quasi un unico clan familiare. Affiora ancora una volta l’indiscutibile astuzia di Giacobbe che abil­mente ricusa l’invito un po’ sospetto, adducendo una scusa fon­data e non offensiva: la sua carovana composta di donne e bambi­ni, animali, è in marcia da molto tempo ed è bisognosa di proce­dere in modo lento. Respinta con diplomazia anche l’offerta di una scorta, avan­zata da Esaù, i due fratelli si separano, fissando un appunta­mento a Seie, il deserto meridionale ove risiedeva Esaù-Edom. Giacobbe, però, si indirizza verso l’area centrale e si sta­bilisce a “Succot” (dall’ebraico “sukkot” - “capanne”, è l’at­tuale “Teli Deir Alla” situata presso lo sbocco dello Iabbok, nel Giordano), ove erige una casa e delle capanne; si spiega così il significato di questa località (Succot). Da lì si tras­ferisce nella famosa città di “Sichem” (sorgeva al centro della regione montuosa a Nord di Gerusalemme, presso l’attuale Nablus), ed è in questo centro che acquista dal principe del luogo un ter­reno per innalzare un altare a “El”, termine noto a una vasta area semitica per indicare la divinità. Ormai, però, “El” è il Dio d’Israele e questo altare giustifica il santuario e il culto che si celebrerà nei secoli successivi a Sichem. GIACOBBE A BETEL (Gen. 35, 1-29) Ora il racconto della Genesi seguirà il filo delle vicende di Giacobbe e dei suoi figli, in particolare di Giuseppe. Il capi­tolo inizia con la menzione del trasferimento, quasi in pelle­grinaggio a Betel, il luogo dove il Signore era apparso a Gia­cobbe che stava fuggendo dal fratello Esaù (cap. 28). Ma per accedere a quel luogo santo era necessario purificarsi. Ecco, allora, l’invito rivolto dal patriarca ai membri del suo clan perché compiano un bagno rituale, si vestano con abiti da ceri­monia e soprattutto rinuncino agli amuleti e agli idoli che si erano portati dalla casa di Labano, dove avevano vissuto. L’ordine di Giacobbe ( “togliete di mezzo gli dei stranieri”) va riferito all’uso di portare con se statuette e amuleti degli antenati e delle loro divinità. Anche Rachele aveva preso con se questi “dei familiari”, quando lasciò la casa paterna. Tra le divinità più venerate dai Cananei, c‘erano “Astarte”, dea della fecondità e “Dagon”, dio dei raccolti. I “pendenti che avevano agli orecchi” (Gen. 35,4), erano degli amuleti portafor­tuna, molto in uso nel mondo pagano, ma non ammessi dagli Israe­liti. Il rifiuto e l’abbandono di questi oggetti indicavano il riconoscimento dell’unico Dio. Seppelliti sotto una quercia a Sichem questi residuati paga­ni, essi s’incamminano verso Betel, dove Giacobbe erige un alta­re dedicandolo al Dio di Betel (El-Betel) che l’aveva protetto nella sua vita di esule. Si esalta, così, l’importanza di uno dei grandi santuari d’Israele, nei cui pressi si levava la “Quercia del pianto”, in memoria della tomba della nutrice di Rebecca. Dio appare in una visione al Patriarca, lo benedice, gli con­ferma il mutamento del nome da Giacobbe in Israele (cap. 32), gli rinnova la promessa di una grande discendenza e del possesso della terra. La stele eretta, cioè la pietra piantata verticalmente, era un segno antico di tante civiltà, per indicare forse la potenza sessuale e la fecondità (simboleggiata anche dall’olio versatovi sopra) concessa dalla divinità. Come in 28,18, qui si vuole indicare la consacrazione del celebre santuario. La carovana, compiuto il pellegrinaggio, si rimette in mar­cia. Mentre si trova a “Efrata”, Rachele è colta dalle doglie di un parto difficile e drammatico. Dal suo grembo esce un bam­bino, l’unico dei figli di Giacobbe nato nella terra promessa. Rachele muore subito dopo il parto. Come spesso si verifica per i nomi biblici, anche “Efrata” può essere nome di persona e nome di località. Come nome di per­sona (Efrat) è all’origine del clan che si stabilì a Betlemme e dal quale proviene “Iesse”, padre del re Davide (l Sam. 17,12). Come nome di luogo, Efrata è la località nella quale morì Rachele, subito dopo aver dato alla luce “Beniamino” (“Ben-Oni” che in ebraico significa: “figlio dei mio dolore”). Giacobbe tras­forma questo nome in “Beniamino”, che potremo tradurre: “figlio della destra” ( il lato destro era considerato dagli orientali come simbolo d’onore, felicità, successo). Il nome “Efrata” in­vece può significare sia “terreno fertile” (“parah”), sia “pol­vere” (“efer”). Rachele dunque muore, ed è sepolta a Efrata; una stele è pos­ta sulla sua tomba. Ancor oggi all’ingresso di Betlemme si erge un piccolo mausoleo dedicato a Rachele, e la sua tomba è meta di pellegrinaggio di molti ebrei. Il profeta Geremia (31,15) immagi­nerà che nel momento della deportazione degli Ebrei a Babilonia (586 a.C.), dopo la distruzione di Gerusalemme, lo spirito di Rachele aleggiasse su quegli uomini e quelle donne atterriti: “Un grido s’è udito in Rama, lamento e pianto d’amarezze! Rachele piange i suoi figli, rifiuta di essere consolata perchè non sono più”. (Rama è l’attuale “Er-Ram” a nord di Gerusa­lemme, situata nei territorio di Beniamino, figlio di Rachele, e nei suddetto territorio si trova anche la sua tomba, cioè a Efrata). La vita continua, anche con le amarezze, come nel gesto di Ruben che si unisce a una delle mogli secondarie di suo padre, la schia­va Bila, violando un diritto ben attestato nell’antico Oriente: quello che tutelava l’harem del capofamiglia, naturalmente nell’ambito della poligamia. Continua anche il viaggio della famiglia di Giacobbe che ora raggiunge, a Mamre-Ebron, il vecchio padre Isacco. Ed è con la morte di Isacco che si chiude il nostro capitolo. LA STRAGE DI SICHEM (Gen. 34, 1-31) A Sichem, si apre una questione piuttosto spinosa circa i rappor­ti con gli indigeni, questione drammaticamente incarnata nella storia di Dina. Sichem, l’omonimo principe ereditario della città, figlio di Camor (in ebraico “asino”, con allusione forse all’animale-totem della tribù), dopo aver violentato Dina, figlia di Lia e di Gia­cobbe, se ne innamora. Cerca allora di stabilire un’alleanza ma­trimoniale con i fratelli della ragazza, per poter riparare al “disonore” inferto a Dina e alla sua famiglia. La legislazione in Israele, prevedeva, nel caso in cui la ra­gazza vergine fosse sedotta o violentata da un uomo, che egli po­tesse prenderla in sposa versando il consueto “prezzo” nuziale. Nel caso però in cui il padre della ragazza rifiutasse la richie­sta, l’uomo era tenuto a versare una somma pari al prezzo nuzia­le, come risarcimento per il danno arrecato alla ragazza e alla famiglia (Esodo 22, 15-16). Nel racconto il ruolo dei due personaggi a volte si contrap­pone. Nel v. 8 è Camor che tratta con i figli di Giacobbe, nei v. 11, invece, è Sichem, che fa la richiesta. Alla vicenda perso­nale di Sichem si sovrappone quella politica, che è condotta dal padre Camor. Sichem è interessato a Dina e Camor stringe un’alleanza con la gente nomade. Si vede come le vicende personali si intrec­ciano a quelle dell’intero gruppo sociale rappresentato da un personaggio. Qui Sichem e Camor rappresentano i gruppi seminomadi. La proposta di Camor era allietante: Israele avrebbe avuto la possibilità di stanziarsi come sedentario nell’area della cit­tà di Sichem e come alleato di una popolazione potente. C’era però, da risolvere anche il danno morale creato dalla violenza. Il padre del giovane è pronto ad offrire, oltre a una ricca dote per la ragazza (il “mohar”), anche un donativo di riparazione. I fratelli di Dina fingono di accettare questa proposta così van­taggiosa; in realtà essi stanno macchinando una tremenda vendet­ta nei confronti di chi aveva disonorato la loro sorella. Alla radice della decisione sta il fatto che Sichem “aveva commesso un’infamia a Israele” e una cosa del genere “non doveva fare” perché immorale. I fratelli di Dina accettano di concedere in matrimonio la sorella a una condizione: quella della circoncisione di ogni maschio di Sichem (per Israele, infatti, la circoncisione assu­me, nel corso della storia, un valore distintivo: è il segno del­l’alleanza di Dio con il suo popolo e quindi della “diversità” di Israele rispetto agli altri popoli). Farsi circoncidere signi­ficava quindi convertirsi ed entrare a far parte del popolo elet­to. Per questo nella prima comunità cristiana, inserita nella “nuova alleanza” con Dio, in Cristo, sorse il problema dell’am­missione nella Chiesa di persone non circoncise. La decisione pre­sa a Gerusalemme dagli Apostoli fu quella di non imporre ai pa­gani (Greci, Romani...) questo segno, per valorizzare invece, l’appartenenza alla comunità attraverso il sacramento del bat­tesimo e la discesa dello Spirito (Atti 10-15). Così i cittadini di Sichem accettano la proposta e si fanno circoncidere. Al terzo giorno, dopo la circoncisione, quando do­lori e febbre sono più intensi e rendono inabili i maschi a qual­siasi reazione, i due fratelli uterini di Dina, Simeone e Levi (figli di Lia, la prima moglie di Giacobbe), piombano in città e compiono non solo una vendetta, ma un vero e proprio bagno di sangue, accompagnato da una razzia e dal saccheggio: greggi, be­ni, proprietà, bambini e donne vengono rapinati. Giacobbe comprende l’eccesso dei due figli e le conseguenti difficoltà per la sua famiglia; egli teme, infatti, la reazione degli altri paesi indigeni della terra promessa: i Cananei e i Perizziti. C’è una nota da segnalare: nella storia tragica di Dina con Sichem, viene inserita la questione, che tormenterà Israele nei secoli successivi, e cioè la proibizione per gli Ebrei dei matrimoni misti, così da impedire anche l’inquinamento religio­so dei popolo eletto; “Tu non ti imparenterai con le altre gen­ti, non darai tua figlia a un loro figlio, ne prenderai una loro figlia per tuo figlio” (Deut. 7,3). I DISCENDENTI DI ESAU’ (Gen. 36, 1-43) In questo arido capitolo genealogico, si elencano i discendenti di Esaù, le loro ramificazioni tribali, le regioni da esse occupate, le dinastie da loro derivate. In questo elenco ci sono nomi noti e meno noti, pur sempre significativi per la storia del suo popolo, anche se si trattava di tribù edomite, imparen­tate con gli Ebrei, ma fieramente ostili. Il filo dei nomi si distende quasi in tre tappe: 1) Si elencano i diretti discendenti di Esaù (vv. 1-19). 2) Entra in scena Seir l’hurrita con la sua discendenza, cioè gli indigeni del territorio occupato successivamente dai fi­gli di Esaù: gli Edomiti (vv; 20-30). 3) Si introduce la lista dei re di Edom, un documento antico, considerato prezioso dagli studiosi (vv. 31-43). Nella tradizione biblica il territorio di Seir (termine ebraico: “peloso”) è associato con Esaù; questo territorio si trova nel­la parte meridionale di Canaan, ai piedi della catena montuosa che si estende lungo la regione del Mar Morto. Sulla montagna di Seir si stabili Esaù, quando si divise da Giacobbe. Poiché Esaù è “Edom”, la montagna di Seir diventa il territorio degli Edomiti, ad Esaù vengono fatte risalire le loro origini (Gen. 36,9). L’interesse della Bibbia, per le origini e la storia degli Edomiti o Idumei, è motivato dal fatto che essi sono imparenta­ti con gli Israeliti. Il loro capostipite è infatti, Esaù-Edom, fratello di Giacobbe-Israele. Nonostante i due popoli si siano spesso affrontati in guerra, il libro dei Deut. 23,8 riteneva questo legame familiare (cioè di clan) molto forte: “Non avrai in abominio l’Idumeo, perché è tuo fratello”. Gli Hurriti (da “hor” = “grotta”, sarebbero gli “abitanti delle grotte”, del territorio di Seir, prima che lo conquistasse il clan di Esaù-Edom. Secondo una tradizione presente nel Libro del Deut. 2,22 “... i figli di Esaù, che abitano in Seir, sterminarono gli Hurriti, davanti a loro”, più probabilmente, però, si trattò di una fusione tra le due razze. I Tematiti (termine ebraico: “Teman” indica il “Sud”) abitavano anch’essi nel territorio di Edom.
Posted on: Tue, 30 Jul 2013 18:38:22 +0000

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