La Dignità è il canone con cui pensare il mondo. Lintervento di - TopicsExpress



          

La Dignità è il canone con cui pensare il mondo. Lintervento di Gianni Cuperlo alla convenzione nazionale: 24 novembre 2013 Qualunque sia la vostra opinione io prima di tutto vorrei ringraziarvi per essere qui.E con voi vorrei ringraziare chi tutto questo lo rende possibile, oggi come in tanti altri momenti. Sono quelli che aprono i circoli. Che montano i gazebo. Se gli va di lusso, può capitare un giornalista che gli chieda perché lo fanno. Ma questa non è una cosa che a loro interessi granché. Rispondere al giornalista, intendo. Però se solo li ascolti passerebbero ore a discutere di politica e del PD. Magari criticando. A volte infuriati per una scelta che non condividono. E capita che abbiano ragione. Loro sono l’umanità che ci fa essere quello che siamo. Un partito. Non un’altra cosa. Ma un partito.Il ‘900 li ha battezzati militanti. E in fondo per la sinistra – per le forze popolari – è stata una bella invenzione. Perché gli altri avevano le risorse finanziarie. Di qua si è replicato con le persone. Comunque sia, se noi siamo qui – se tutto questo c’è: primarie, candidati, mozioni – è perché esistono loro. E nessuno tra noi – ma davvero nessuno – può immaginare di cavarsela da solo senza questa umanità. Mentre quell’umanità da sempre ha forza e passione per affrontare il mondo anche senza il migliore di noi. Per questo –vedete – non è una buona idea annunciare che di loro si può fare a meno. Perché è più facile accada il contrario. E se a un partito togli gli iscritti è come levare le gambe al tavolo. Semplicemente non è più un partito. E nasce un’altra cosa, che non per forza sarà migliore. Il punto è che inventarsi un nome o un simbolo tutto sommato è più facile. Invece i militanti non li inventi. Si formano nel tempo. E sono con te – a dispetto di tutto – fino a quando ci credono. Il giorno che quella fiducia si incrina, si rompe anche la magia e rischi di non trovare più un popolo che ti cammina di fianco. Microfoni e televisioni sì. Per un po’. Ma un popolo no. Però senza un partito di popolo – senza un nuovo centrosinistra popolare – l’Italia repubblicana oggi è in pericolo.Io lo penso perché ogni generazione, al fondo, è figlia del suo tempo. Ad altri – prima di noi – è toccata la prova orribile della guerra, e poi quella travolgente della Liberazione. A noi tocca condurre il Paese fuori dalla crisi più profonda della sua storia. Crisi dell’economia. Del patto costituzionale. Di un’etica pubblica. Crisi della dignità per milioni di donne e uomini. Crisi delle élite e delle classi dirigenti responsabili di una regressione civile e culturale che nonostante tutti i suoi malanni questo Paese non meritava. E invece un giorno ci toccherà spiegare, magari a chi oggi non ha l’età per capire, come sia potuto accadere che la politica abbia raccontato un giorno che Eluana avrebbe potuto partorire. O che la corruzione del denaro e l’impunità del potere si siano spinte dove non avresti mai pensato di trovarle: anche tra di noi. E’ stato come distogliere lo sguardo dalle persone. E in fondo anche dal mondo. Che abbiamo finito a lungo col commentare meno, lasciandolo sullo sfondo. A meno che non ci entrasse in casa, senza neppure riuscirci, come nel canale di Sicilia meno di due mesi fa. Allora riflettori, lacrime, il giuramento di non vivere più tragedie come quella. La “globalizzazione dell’indifferenza” l’ha chiamata Papa Francesco quando è sceso a Lampedusa.La verità è che tutte le grandi crisi rovesciano gli equilibri. Ci sono attori che scompaiono e ne nascono di nuovi. La destra si è spaccata. E sta chiudendo una pagina del ventennio. Lo scontro sarà tra una visione padronale della democrazia e la scommessa di un conservatorismo di matrice europea. In mezzo c’è un governo che adesso non ha più alibi. E deve scuotere l’albero perché i frutti cadano a terra.Ora. Chiedo: c’è una sola ragione per cui dovremmo aspettare il 9 di dicembre? Visto che il tempo è scaduto. E che a noi – tutti noi – tocca riprendere per i capelli quanti semplicemente non ce la fanno più e stanno precipitando. E sono molti. A noi spetta gridare che l’austerità ogni giorno che passa è piombo nella ripresa. E allora lasciamolo perdere il tracciato rigido delle torri e degli alfieri. E scegliamo finalmente di muovere il cavallo. Per quella immagine cara a Vittorio Foa, del solo pezzo che sulla scacchiera può scartare di lato. Che all’improvviso ti cambia lo schema. Rompe l’equilibrio.Quella mossa, per noi, è rovesciare l’ordine dei fattori. Basta col rigore che spinge la crescita che crea il lavoro. Non ha funzionato. Non era vero. Ma creare lavoro che spinge la crescita e muove la domanda, il reddito, i consumi. Molto sta qui. Nel punto di vista che scegli. Perché – vedete – di questa crisi l’Europa forse non ha sbagliato la diagnosi. Ma ha fallito tragicamente la terapia. E non è accaduto per cattiveria. Ma perché per anni – anni – le sorti dell’Occidente si sono fondate su due principi. Bisognava svalutare il lavoro. E assieme al lavoro, deprezzare tutto ciò che era pubblico. Ora, pensiamo per un istante all’impatto che questa chiave di senso ha avuto sulla nostra Costituzione. Quella dove il valore sociale del lavoro e la natura della dimensione pubblica – nell’economia, nell’impresa sociale, nei corpi intermedi – descrive tutta intera l’architettura della Repubblica. E’ come se un cambio di impianto e valori fosse penetrato dove mai avrebbe dovuto spingersi. Nella Bibbia laica della Nazione. Che significa dentro sfere della vita dove la logica esclusiva del profitto annulla tutto il resto.Nove milioni di italiani hanno smesso di spendere per evitare le malattie. Si curano solo quando è necessario, ma vanno meno dal dentista. E risparmiano sulla salute. Si chiama prevenzione. Se pensi alla sanità diventa profilassi. Se guardi alla Sardegna si declina come protezione del suolo. Che vuol dire argini mai fatti. Canali abbandonati. E cemento dove cemento non doveva colare. Il risultato è che ognuno di voi ha in tasca un cellulare e se adesso volete chiamare Pechino senza uscire da questa sala lo potete fare. Ma non è bastata tutta la tecnica della terra per salvare una creatura e suo padre prima che un muretto crollasse perché stava piovendo troppo. Mica era il terremoto. Pioveva molto. Ma pioveva. Il presidente del Consiglio un mese fa ci ha detto “siate esigenti”. Ecco è tempo di esserlo. E di dire al governo, al nostro governo: troviamo assieme il coraggio di fare quello che il Paese si attende da noi. Ma buttiamole via, una volta per tutte, le ricette che ci hanno portato dove siamo. Non basta criticarle. Vanno cestinate. Il congresso della forza più grande del centrosinistra serve anche a questo. A capire le differenze che ci separano. Per discutere. Scegliere. Decidere.E allora se tra noi c’è chi pensa che la via – dopo vent’anni – sia privatizzare le ferrovie e la Rai, prelevare 4 miliardi alle pensioni lorde sopra i 3.500 euro, avere un contratto unico e abolire l’articolo 18, tenersi la riforma Fornero al netto degli esodati, sposare la flessibilità e col Sindaco d’Italia passare da un regime parlamentare a una Repubblica presidenziale, è giusto che lo dica. Ma è giusto dire – e io mi sento di dirlo qui – che quel disegno, quella visione, sono radicalmente sbagliati. E che parlare quella lingua e proseguire su quella strada non significa chiudere il ventennio. Vuol dire riprodurlo. Magari ammodernato. Con una nuova veste. Nuova scenografia. E nuovi testimoni. Ma riprodurlo. Dire che l’Italia è ridotta così per causa dei pensionati, per colpa dei sindacati, per colpa dei partiti, non è soltanto un’affermazione sbagliata. E’ una dichiarazione insopportabile.E mica perché – al netto dei pensionati – partiti e sindacati non abbiano avuto limiti o compiuto errori. Anche gravi. Ma è proprio la cultura che quella frase sorregge a spingere verso un racconto che porta fuori strada.Cambiare tutto sì: questa è la sfida. Ma devi dire dove lo vuoi portare questo Paese e questo partito. Io non voglio riportarlo da dove siamo venuti. Vorrei portarlo dove non siamo mai riusciti ad andare. In parte per paura delle nostre stesse convinzioni. Per una subalternità ai nostri avversari. Perché eravamo più presi dai nostri destini che dal destino degli altri. Ma in tante e tanti se ne sono accorti. Fosse solo perché fuori da qui c’è un popolo che ragiona e che giudica. Gente che ha talento, voglia di fare, di rischiare. Sono le imprese che resistono, e spesso si rilanciano. Sono gli artigiani del gusto e della bellezza. I laureati che tornano alle ricchezze della terra. In un Paese che con l’Expo aggredirà la sfida morale di nutrire il pianeta. Ma sono anche milioni di persone semplici che chiedono lavoro e rispetto per la loro dignità. E’ un popolo di persone offese, e spesso irritate anche con noi. Ma tocca a noi provare a portarle dove è giusto che stiano. Sulla frontiera più avanzata dell’Europa e della modernità. Cambiando tutto quello che va cambiato. Spezzando rendite, corporazioni opache e avvolte in una ragnatela di privilegi. Questo dobbiamo fare. Capovolgere le logiche dello Stato: portare in alto la buona amministrazione che il cittadino non lo opprime. Che un patto fiscale lo rispetta, e solo perché lo rispetta è anche in grado di farlo rispettare. E rimuovere burocrazie ottuse e l’uso vessatorio del potere. Ovunque. Anche quando pratiche di quel genere riguardano noi.Fare tutto questo vuol dire pensare l’Italia dopo la crisi e dopo la destra come il luogo dove un sistema economico diverso dovrà fondersi a un’altra etica del pubblico e del mercato. Per fare questo serve un partito. Che non sarà mai solamente un comitato elettorale. Ma sempre di più una forza che i conflitti li vede e li affronta. Che si candida a cercare soluzioni. E mediazioni. Dove le riforme trovano quel consenso dal basso senza il quale la politica diventa tecnica o comando. Un partito che torna a formare una classe dirigente, vedendo il meglio che è in noi, e il molto che è fuori da noi. Un partito che legga questa crisi per ciò che è: il passaggio da una stagione della storia italiana a una nuova democrazia. Con la sinistra che torna a sognare non solo l’efficienza ma la giustizia. La giustizia. Solo parole? Forse no, se proviamo a capire perché a incrinarsi oramai sono le ragioni stesse dell’unità di una Nazione che ha pensato a lungo di allontanare il Nord dal Mediterraneo. Riducendo per anni il Sud, la più grande risorsa che abbiano, ad appendice di un comizio padano.Ecco perché questa per noi è la prova più grande. Restituire un senso, un peso, all’idea stessa di un Paese che la miseria delle sue élite rischia letteralmente di spezzare. L’idea che il Paese possa finire. Alcuni tra i nostri storici più acuti hanno dedicato i loro libri recenti a raccontare l’Italia com’è. Tu scorri i titoli e di colpo ti accorgi dove siamo. “Italiani senza Italia”. “Se cessiamo di essere una nazione”. “Un paese mancato”. “Italiani senza meta”. “Una società senza Stato”. E si potrebbe proseguire. Così la cultura – la storia, l’economia – raccontano il Paese là fuori. Almeno per come lo vedono loro.Noi però siamo nati per cambiarlo il Paese e dettare altri titoli. E lo faremo raccogliendo la forza del civismo migliore, di quei movimenti sui beni comuni che neppure abbiamo veduto e di quella indignazione morale che a intervalli riesplode e che sta a noi saldare a una crisi sociale senza eguali. Insomma il dramma del Paese noi lo dobbiamo vedere. Ma se sei un partito – se sei il centrosinistra – non basta vederlo. Quel dramma te lo devi caricare sulle spalle e devi indicare la strada per uscire da questa lunga notte. Non c’è qualcuno che può fare questo mestiere per noi. Dobbiamo uscirne da soli. Spingendo l’Europa a fare la sua parte con un copione nuovo. Mai come adesso tocca al meglio che abbiamo rimboccarsi le maniche e ripartire. Smentendo chi pensa che una delle nazioni più antiche del mondo sia ridotta a svendersi a prezzo di saldo. La Spagna che si compera pezzi pregiati dell’agroalimentare. Parigi che punta sulla moda. O i cinesi che vogliono la nostra meccanica. Ma noi non siamo il discount dell’Europa. Noi siamo l’Italia. Abbiamo sacrificato già troppi degli asset per il nostro futuro. Adesso è il tempo di ricostruire. Se vuoi farlo allora dev’essere chiaro che questo governo ha il compito di portare l’aereo sulla pista. Ed è un compito impegnativo. Vuol dire agire sull’emergenza, dare respiro a imprese e famiglie. Spostare sul ruolo pubblico una parte del rilancio della domanda a cominciare dalla creazione di nuovo lavoro, magari per curare quegli argini e quei canali che non abbiamo curato.Ma poi chi guiderà il PD, dal giorno dopo, dovrà far decollare l’aereo. Costruire l’Alternativa di contenuti e riforme senza le quali l’Italia non ce la farà. Le riforme, senza le quali noi – semplicemente – non siamo. Ma riforme. Che non possono suonare come una minaccia. Che devono avere ambizione e coraggio. A partire da una legge elettorale che cancelli la vergogna di quella attuale. E poi battere illegalità, evasione, burocrazia. Riscrivere tempi e regole della giustizia. Cancellare diseguaglianze immorali, coi salari più bassi e le rendite più oscene. Aiutare chi il lavoro lo cerca, chi il lavoro lo crea. Farli incontrare, magari. E non considerare più come santuari le rendite finanziarie meno tassate d’Europa. Metter mano alla spesa pubblica non per tagliare servizi ma sprechi. Doppi e tripli incarichi e stipendi, fino dentro il governo. Tutto questo dovremo fare noi.Con un centrosinistra più largo, che dell’Ulivo raccolga l’intuizione: puntare sull’Italia che vuole riscattare gli anni peggiori della destra e cancellare per sempre l’idea che questo Paese sia condannato a non conoscere una svolta delle sue élite per la via esclusiva della democrazia. In fondo quel che sarebbe la regola, da noi non si è mai realizzato. Non fu così nella prima stagione liberale. Naturalmente non fu così per il fascismo. E neppure per i grandi partiti repubblicani. Ma toccherebbe a noi. Tagliare questo traguardo dovrebbe toccare a noi. Perché se una ragione esiste per questo simbolo, è che noi siamo nati per cambiare tutto ma con il consenso di una maggioranza di popolo. Ed è quello che faremo. Mantenendo la promessa che sino a qui non siamo riusciti a realizzare. Ecco perché abbiamo parlato di un congresso costituente. Per riaprire il cantiere del PD verso altre forze, movimenti, personalità. Per collocare questa forza non solo nella prossima campagna elettorale ma nell’Italia dei prossimi decenni e nel cuore della sinistra europea. Perché solo questa nuova sinistra può guidare la riscossa dell’Italia.Per tutto questo ho fatto una cosa che non avrei mai pensato di fare. E mi sono candidato alla Segreteria del mio Partito. La vivo come una prova più grande di me. Ma se succede e ti emozioni forse vuol dire che era giusto provare. Io penso di aver fatto la scelta politica più importante della mia vita. Comunque vada. E penso che se ti assumi questa responsabilità – anche solo l’idea – non lo puoi fare mentre ti candidi a qualcos’altro. Se ti proponi di cambiare tutto, nel centrosinistra e nel tuo Paese, non lo fai come secondo lavoro. Non solo perché viene male, ma perché non è giusto. Perché in mezzo a tutta quella umanità ci devi andare. A vedere le facce, a sentire le voci.Le loro, e non solo le nostre. Devi andare a trovarla in ogni angolo del Paese quella umanità. Scovarla tra i ragazzi a cui dare una mano. E magari fartela dare.L’altra sera in un dibattito ho provato a difendere la dignità del nostro partito. Di ciò che siamo e ciò che saremo. Non è sempre facile, perché abbiamo consentito che molto del buono si allontanasse da noi. E guai a non vedere, assieme alla generosità della nostra gente, tutti i nostri limiti e le incoerenze. Ma una democrazia senza questo patrimonio – senza corpi sociali organizzati tra la leva del potere e tutto il resto – è una democrazia fragile, perché rinuncia alla terra di mezzo che consente a un Paese di non avere bisogno di eroi. Dove servono gli eroi e non servono i partiti la cultura politica è più debole Al fondo sono le ideologie populiste a lucrare sull’eroismo. Le forze del progresso si fondano sull’esempio. Nel primo caso non ci sono partiti, ma un Capo che comanda. E dietro di lui non batte il cuore di un popolo, ma battono le mani di un pubblico. E’ da vent’anni che facciamo i conti con questa concezione. Ma noi siamo la seconda cosa. Non abbiamo bisogno di lotte continue per chi sarà il Capo. Abbiamo bisogno di esempi, e di dare l’esempio. Per noi responsabilità e adesione vanno assieme e sono il collante di una cultura politica – di una identità – che non sarà mai solo un programma di governo. Ma scambio, condivisione e scelta.È una “sorpresa della storia” quella che dobbiamo inventare. Lasciandoci dietro l’idea degli ultimi trent’anni: quella di un Paese che ha pensato di crescere declinando. Che ha svalutato il rispetto delle regole, la qualità dei diritti, a cominciare da quelli delle donne. Per sette mesi ci siamo accapigliati su 4 miliardi dell’Imu. Poi apri il giornale e scopri che la violenza sulle donne – quella denunciata e quella sommersa – costa quattro volte tanto. Ma mica è un problema di costi. Per noi dovrebbe essere la premessa di tutto. I diritti umani delle donne calpestati in una guerra di dominio che si consuma sul loro corpo e sulla loro autonomia. Domani è il 25 novembre. La giornata mondiale contro quella violenza. Dovremmo occuparcene, farlo con meno presunzione e più umiltà. Vedendo i limiti di un modello di potere introiettato anche tra noi. Dovremmo riconoscere, per dire, nuove forme servili della cittadinanza, dove alla potenza dei diritti si è sostituito il mercato di protezioni e fedeltà. Crescita senza lavoro e lavoro senza diritti. Cultura senza innovazione e creatività.Il Rapporto sulla felicità pubblicato dall’ONU parla di noi. L’Italia in un anno ha perso 17 posizioni. Tra i criteri scelti per definire quel tasso di felicità non c’è solo il reddito, ma la libertà di scegliere, l’assenza di corruzione, la generosità degli altri. Non è anche questo parlare di noi? Non è forse parlare dei diritti violati di tanti omosessuali e dei loro figli? O di quelle coppie che emigrano per concepire un bambino? E della forza di tanti disabili che chiedono solo di esprimere per intero la loro personalità? Forse sì. Forse è parlare di tutto questo. Perché questa crisi non ha solo concentrato la ricchezza in poche mani, ma ha rinchiuso la speranza in poche caste. La sinistra è nata per distribuire reddito, certo, ma anche potere, conoscenza e desiderio.Chi ama la musica sa cos’è un canone. Io non sono un esperto e provo a dirlo così: il canone è una forma, una specie di codice o matrice. Ce ne sono diversi, ma uno fondamentale venne composto più o meno tre secoli fa. Da lì ha attraversato il tempo arrivando sino a noi, e con un numero di variazioni impressionante. Dall’inno nazionale russo a Questo piccolo grande amore passando per Let it be, Albachiara e Jovanotti. Ecco, se un prezzo la sinistra ha pagato in questi anni è stato avere smarrito il nostro canone. Una regola. Pensavamo fosse vecchia. Ma le idee – e i valori – se sono giusti non invecchiano. Quando vai a prendere l’acqua al pozzo – dicono i cinesi – ricordati sempre di chi lo ha scavato. E allora forse, se ripartiamo dal canone della sinistra – e se lo ripensiamo per un tempo nuovo – magari capiterà che una Canzone popolare torni a sorprendere la società.Ecco perché parliamo di una ‘rivoluzione della dignità’: perché è il canone con cui pensare il mondo. È la potenza di una domanda di libertà che scuote i continenti e le generazioni. Sono i termini morali di una nuova frontiera che sola può rilanciare il traguardo di quell’uguaglianza, promessa mai del tutto esaudita nel secolo che abbiamo alle spalle. E allora uguaglianza e dignità. Che ti dicono perché dobbiamo toglierci di dosso la maglia nera del Paese con la povertà minorile più elevata d’Europa. E gli otto milioni di un “Quinto Stato” che campa tra partite Iva e contratti scritti sulla sabbia.O gli undici milioni di pensionati che vivono con meno di 1000 euro quando l’Istat certifica che la soglia di povertà relativa per una famiglia di due persone è di 990 euro. Milioni di poveri di Stato. Anche di questo dovremmo parlare.Mezzo secolo fa il presidente Kennedy diceva con orgoglio che i democratici americani erano il partito più antico del mondo. Certo non potremmo dirlo noi oggi. Ma il punto non è questo. E’ che una parte di questi problemi e delle risposte che sono mancate viene dall’aver cambiato partiti come si pratica il cambio di stagione. Ma appunto per questo non basta un programma di governo. Devi dire chi sei e per chi sei, per chi ti batti. Con quali occhi guardi il mondo e qual è la parte su cui farai leva per cambiarlo. La destra ha sempre difeso un grumo di interessi annidati ai vertici della società e dei suoi poteri. Noi siamo quelli che quei fortini devono assaltare per aprire il mondo a tutti gli altri. E se in passato abbiamo dato l’impressione di chiedere permesso per entrare lì dentro, bene, in quel momento abbiamo cominciato a cadere. Abbiamo rischiato di arrenderci a una politica nuda, dominata dall’interesse dei singoli in una deriva che a un paio di generazioni ha tolto anche la memoria di cosa sia un riscatto collettivo. È stato il tempo in cui è venuta meno la tempra morale della nazione. E della politica. Perché sarà vero che non si fa politica con la morale, ma nemmeno senza. Adesso quel tempo va chiuso. E va aperta una pagina nuova.Osvaldo Soriano, tra le tante cose belle che ha fatto, è stato un grande tifoso di calcio. Una volta ha scritto dei tre generi di calciatori che può capitare di vedere giocare. Lui li descrive così. Ci sono “quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che chiunque può vedere dalla tribuna, e quando li vedi sei contento e ti senti appagato quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse altri avrebbero potuto vedere se solo avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. Ma infine ci sono quelli che creano uno spazio nuovo dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio.”Ecco – care amiche e amici, cari compagni – quelli siamo noi. Quella è la profezia della sinistra. Uno spazio nuovo dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Ed è la profezia che ci porterà a vincere. Perché noi adesso vinceremo, e cambieremo l’Italia.
Posted on: Sun, 24 Nov 2013 18:32:48 +0000

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