La coscienza di classe[modifica | modifica sorgente] Karl - TopicsExpress



          

La coscienza di classe[modifica | modifica sorgente] Karl Marx La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che «non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita». Lazione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» - così Gramsci chiama il marxismo, non solo per lesigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria - opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dellidealismo, può condurre i subalterni a una «superiore concezione della vita. Se afferma lesigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare lattività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali».[74] La via che conduce allegemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società. Tuttavia luomo attivo di massa - cioè la classe operaia, - non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di subordinazione, Il proletariato, scrive Gramsci, «non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere in contrasto col suo operare»; esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza teorica ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione critica di sé avviene «attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo delletica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale». La coscienza politica, cioè lessere parte di una determinata forza egemonica, «è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano».[74] Ma autocoscienza critica significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, «uno strato di persone specializzate nellelaborazione concettuale e filosofica».[75] Il partito politico[modifica | modifica sorgente] Già Machiavelli indicava nei moderni Stati unitari europei lesperienza che lItalia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli «non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici [...] si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nellinvocazione di un principe realmente esistente».[76] Niccolò Machiavelli In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente «la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato gli Stati moderni».[77] A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale». Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, «se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese; in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale».[77] Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e «questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali»; il partito è lorganizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così «la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».[71] Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali: «Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo [...] essi sono una forza in quanto cè chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente» «Lelemento coesivo principale [...] dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva [...] da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani» «Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale».[78] Gli intellettuali[modifica | modifica sorgente] Per Gramsci, tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che «non cè attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare lhomo faber dallhomo sapiens»,[79] in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale», ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali. Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, «specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante». Un gruppo sociale che tende allegemonia lotta «per lassimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali [...] tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici».[77] Lintellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, lartista e perciò, nota Gramsci, «i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali», mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasore - ma non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio delleloquenza «motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni» - il quale deve giungere «dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente».[80] Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare legemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia lintellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. Lorganicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento: essi operano tanto nella società civile - linsieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie allacquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante - quanto nella società politica, dove si esercita il «dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico». Gli intellettuali sono così «i commessi del gruppo dominante per lesercizio delle funzioni subalterne dellegemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione allindirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante [...] 2) dellapparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono».[81] Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora «i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti allorganico sviluppo di una società integrale, civile e politica».[75] Il compito della “riforma intellettuale e morale” non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone, per Gramsci, come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per legemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e lintellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. La letteratura nazionale-popolare[modifica | modifica sorgente] Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In molte lingue - in russo, in tedesco, in francese - il significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e lintellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano».[82] DallOttocento, in Europa, si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e di Lev Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia: qui la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che lelemento intellettuale italiano è avvertito come più straniero degli stranieri stessi. Fa eccezione, per Gramsci, il melodramma, che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Alessandro Manzoni ritratto da Francesco Hayez Il pubblico italiano cerca la sua letteratura allestero perché la sente più sua di quella nazionale: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori: «Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo [...] può essere subordinato allegemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi». Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo, tanto gli intellettuali laici quanto i cattolici: la loro insufficienza è «uno degli indizi più espressivi dellintima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale; la religione è rimasta allo stato di superstizione [...] lItalia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tuttal più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio».[83] Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana: «Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia [...] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali [...] niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. Latteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è latteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana [...] vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo [...] non cè popolano che non venga preso in giro e canzonato [...] Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, lInnominato, lo stesso don Rodrigo [...] il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico».[84] Una classe che muova alla conquista dellegemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente». Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e Gramsci vede nella critica svolta da Francesco De Sanctis un esempio privilegiato: Francesco De Sanctis ritratto da Saverio Altamura «La critica del De Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e lumanesimo del De Sanctis [...] Piace sentire in lui il fervore appassionato delluomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde». Il De Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con il Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui «la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nellindulgenza piena di bonomia». Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce «subentra una fase in cui la serenità e lindulgenza sincrinano e affiora lacrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis».[85] Per Gramsci, una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come De Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare. Non a caso, Gramsci progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome del gesuita Antonio Bresciani (1798 - 1862), tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari dimpronta reazionaria; uno di essi, Lebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio del De Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono, per Gramsci, gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria, sia essa cattolica che laica, con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato».[86] Fra i «nipotini» Gramsci individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti - «la codardia intellettuale delluomo supera ogni misura normale» - Alfredo Panzini, Goffredo Bellonci, Massimo Bontempelli, Umberto Fracchia, Adelchi Baratono - «lagnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile [...] Baratono teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria» - Riccardo Bacchelli - «nel Bacchelli cè molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico» - Salvator Gotta, «di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sullaltare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Giuseppe Ungaretti. Secondo Gramsci «la vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Titta Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti».[87] La critica a Benedetto Croce[modifica | modifica sorgente] Benedetto Croce, il più autorevole intellettuale dellepoca, secondo Gramsci aveva dato alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dallaltra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dellegemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, il Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nellelemento che egli individua come decisivo: quello delleconomia; Il Capitale di Marx sarebbe per lui unopera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non scientificità dellopera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore: per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di plusvalore, rispetto al valore, legittimo concetto economico. Benedetto Croce Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma: il plusvalore è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella delleconomista liberale inglese David Ricardo la cui teoria del valore-lavoro «non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, doveva acquistarla solo con la Economia critica [Il Capitale di Marx]».[88] La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo il Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazioni - storia della libertà, della cultura, del progresso - non è la storia concreta delle nazioni e delle classi: «La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia [...] la storia del Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore».[89] Loperazione conservatrice del Croce storico fa il paio con quella del Croce filosofo: se la dialettica dellidealista Hegel era una dialettica dei contrari - uno svolgimento della storia che procede per contraddizioni - la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare unattenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche del Croce: la sua Storia dEuropa, iniziando dal 1815 e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, «non è altro che un frammento di storia, laspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al 1870».[90] Analoga è loperazione operata dal Croce nella sua Storia dItalia dal 1871 al 1915 la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dellItalia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto [...] in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora [...] in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece [Croce] assume placidamente come storia il momento dellespansione culturale o etico-politico». Il materialismo storico[modifica | modifica sorgente] Nikolaj Bucharin Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava limpotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere liniziativa per la conquista dellegemonia. Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj Bucharin, edito nel 1921, La teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico: «la sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico [...] è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere lavvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. Levoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico».[91] La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana - della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin - perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dallazione politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé: già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. Lazione politica rivoluzionaria, la prassi, per Gramsci è anche catarsi che segna «il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè lelaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dalloggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia luomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico». Friedrich Engels La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è «dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica» e può essere compresa solo concependo il marxismo «come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia lidealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a unaltra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime».[92] Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dalluomo, è un ovvio assioma, confortato dallaffermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma per Gramsci va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal momento che «a questa può essere mossa lobbiezione di misticismo».[93] Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come potrebbe esistere unoggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? «La formulazione di Engels che lunità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e alluomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo [...] . Luomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie [...]. Cè dunque una lotta per loggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per lunificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, linsieme delle soprastrutture in divenire verso lunificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario».[94] Riflessioni sulla lingua[modifica | modifica sorgente] La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di linguistica generale del Prof. Matteo Bartoli. Dal Bartoli Gramsci apprende che la lingua è un prodotto sociale e che non può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di una data lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici del popolo che la parla.[95] È stato notato che Gramsci fece aderire le teorie apprese dal Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo allIdeologia Tedesca di Karl Marx, dove il filosofo affermava che la lingua, come la coscienza, appartiene alla sfera degli istituti sovrastrutturali, cioè al mondo dellorganizzazione politica e giuridica della società.[95] Le più interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la questione della lingua in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una lingua nazionale italiana, dallaltra il tema dellinsegnamento linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci, perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. Lindagine storica[modifica | modifica sorgente] I Quaderni del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito».[96] Nellaffrontare una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche: « lorigine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo (verso l841), cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante dellosservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»). » (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 646.) In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dellimportanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà statale integrale»,[97] in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo giuramento. Gramsci ricorda nei suoi appunti come in Italia luso del volgare si diffonda con lavvento delletà comunale, non solo per la redazione di documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Gramsci scrive: «fino al Cinquecento Firenze esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento del mondo) e cè uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, litaliano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica».[98] Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe dorigine perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi «vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici».[99] In questo senso, Gramsci vede sciupata loccasione di una diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere elitario dei ceti intellettuali italiani. Gramsci affronta con maggior vigore la questione della lingua italiana in relazione al periodo post-unitario; nella seconda metà dellOttocento il nuovo Stato Italiano era per gran parte dialettofono, mentre litaliano veniva usato solo a livello letterario e come lingua delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua nazionale testimoniava la frammentazione politica e culturale del popolo italiano; questo fenomeno veniva avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Alessandro Manzoni. Nella sua ricostruzione storica Gramsci scrive che «anche la questione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato nellunità della lingua»;[100] eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e sociale, si distingue dallautore lombardo nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo apprendistato glottologico presso il professor Bartoli a Torino Gramsci aveva avuto modo di confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Graziadio Isaia Ascoli, autore del Proemio al primo numero dellArchivio Glottologico italiano del 1873. Mentre Manzoni prevedeva la diffusione di una lingua nazionale sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di una unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo Ascoli lunità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato municipio in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per Ascoli «una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non lidioma vivo di una data città; deve cioè per ogni parte coincidere con lidioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dellintiera nazione».[101] Ascoli, nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi; infatti lunità linguistica francese corrisponde allegemonia politico-culturale della città di Parigi: « La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde lintelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso delluniversa civiltà francese; [...] viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio lunità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dellanimo suo; e non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole; e quindi è necessariamente dellintiera Francia lintiera favella di Parigi». » (G. I. Ascoli, Proemio, AGI, n. I, 1873, p. X) Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni, dove scrive: «poiché il processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria: si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e lintervento organizzato accelererà i tempi del processo già esistente; quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire [...]».[102] Linsegnamento linguistico[modifica | modifica sorgente] Gramsci, nel Quaderno 29 alla nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria: «1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d’arte e quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose; 7) i rapporti di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti [...]; 8) i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per lItalia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc.)».[103] Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola; per tradizione, a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la grammatica normativa. Gramsci definisce la grammatica normativa come una «fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già [...]».[104] Le riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata da Giovanni Gentile nel 1923. La riforma, in linea con limpianto filosofico idealista gentiliano, prevedeva che lapprendimento della lingua nazionale nelle classi elementari si basasse sullespressione viva o parlata e non sulla grammatica, considerata questa come una disciplina astratta e meccanica. Nellottica gramsciana questo metodo apparentemente liberale racchiude uno spiccato carattere classista, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono litaliano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in dialetto. In questo senso lo studio della grammatica si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali degli scolari permettendo a tutti la conoscenza della lingua nazionale. Secondo Gramsci la conoscenza della lingua nazionale presso le classi subalterne è fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato dialettofono non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali. I dialetti non devono sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare che non può garantire, per cause interne al suo sistema, «la comunicazione di contenuti culturali universali, caratteristici della nuova cultura esercitata dal proletariato»[105] Influenze sul pensiero di Gramsci[modifica | modifica sorgente] Fiabe intrecciate, 2007, Omaggio a Antonio Gramsci, di Maria Lai, Piazzale del Museo Stazione dellarte Niccolò Machiavelli — influenzò fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Karl Marx — filosofo, storico, critico delleconomia politica e fondatore del materialismo storico Friedrich Engels Lenin Antonio Labriola — primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia Georges Sorel — sindacalista francese e scrittore che ha respinto il principio dellinevitabilità del progresso storico. Vilfredo Pareto — economista e sociologo italiano, noto per la sua teoria sullinterazione fra masse ed élite. Benedetto Croce — liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci[modifica | modifica sorgente] Zackie Achmat · Eqbal Ahmad · Jalal Al-e-Ahmad · Louis Althusser · Perry Anderson · Giulio Angioni · Michael Apple · Giovanni Arrighi · Zygmunt Bauman · Homi K. Bhabha · Gordon Brown · Judith Butler · Alex Callinicos · Partha Chatterjee · Marilena Chauí · Noam Chomsky · Hugo Costa · Robert W. Cox · Alain de Benoist · Alberto Mario Cirese · Ernesto de Martino · Umberto Eco · John Fiske · Michel Foucault · Paulo Freire · Eugenio Garin · Eugene D. Genovese · Stephen Gill · Paul Gottfried · Stuart Hall · Michael Hardt · Chris Harman · David Harvey · Hamish Henderson · Eric Hobsbawm · Samuel P. Huntington · Alfredo Jaar · Bob Jessop · Ernesto Laclau · Subcomandante Marcos · Chantal Mouffe · Antonio Negri · Luigi Nono · Michael Omi · Pier Paolo Pasolini · Antonio Pigliaru · Michelangelo Pira · Juan Carlos Portantiero · Nicos Poulantzas · Gyan Prakash · William I. Robinson · Edward Saïd · Ato Sekyi-Otu · Gayatri Chakravorty Spivak · Edward Palmer Thompson · Paolo Virno · Cornel West · Howard Winant · Raymond Williams · Eric Wolf · Howard Zinn. Gramsci nel cinema
Posted on: Sat, 02 Nov 2013 20:19:17 +0000

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