La cultura Julian Barnes “La sofferenza non serve a - TopicsExpress



          

La cultura Julian Barnes “La sofferenza non serve a nulla” SEBASTIANO TRIULZI QLONDRA uando la sera scende sul volto di Julian Barnes e il buio s’impadronisce dello studio, verrebbe voglia di non lasciarlo solo. Ha deciso di non accendere la luce e i contorni delle cose si perdono nella sua casa così tipicamente inglese con la facciata dai mattoni rossi. Il buio si prende il giardino interno e la scala centrale, di legno, che porta al secondo piano. Continuerà a parlare nella penombra dell’arma che usa contro la solitudine: il lucido esercizio della ragione, che però non mitiga il senso di angoscia e di disperazione. Einaudi ha appena pubblicato il suo memoir, Livelli di vita, in cui analizza il processo dell’elaborazione del lutto dopo la morte della moglie Pat Kavanagh, avvenuta nel 2008. Racconta della complicità che sorge con altri dolenti, di aver continuato a parlare con lei tenendo in vita il loro linguaggio comune, dell’idea del suicidio che s’è affacciata «prestissimo, e molto razionalmente». Confessa di piangerla senza vergognarsi e di averla sognata per anni pur fallendo quando voleva evocarla volontariamente. L’ha amata così tanto dasostenere che è la vita ad aver perso con la sua morte, e cercando un disegno ripete: «È solo l’universo che fa il suo mestiere». Anche nel suo penultimo libro, Il senso di una fine, vincitore del Man Booker Prize nel 2011, Barnes ricostruiva l’insignificanza della vita umana attraverso i personaggi che continuamente si interrogano senza trovare una spiegazione. E falliscono miseramente perché non riescono a darsi un’educazione sentimentale, come la definiva il suo amato Flaubert. Prima di affrontare il lutto, Barnes compie in Livelli di vita un lungo giro che comprende brandelli della storia del volo o della fotografia, emblemi del prodigio e della verità che formano la chimica dell’amore: «Sentivo la necessità di inserire il lutto in una sorta di impalcatura, altrimenti — spiega — sarebbe solo un grido di dolore». Ha scritto questo libro come se stesse mettendo in pratica una forma di terapia? «Nei primi tempi, dopo che venne diagnosticato il tumore a mia moglie, tenevo un diario; scrivevo ogni giorno, annotando tutto ciò che succedeva perché temevo di dimenticare. È stato, questo sì, molto terapeutico. Sentivo che dovevo descrivere la sua malattia il più accuratamente possibile: era il mio compito come essere umano oltre che come scrittore. Quando iniziai Livelli di vita erano passati tre o quattro anni, lo scopo era un altro. E non ha cambiato il livello del mio dolore». Che cos’è il dolore? «L’immagine negativa dell’amore. Il dolore ha bisogno della condivisione, mette alla prova le amicizie, rende egoisti, indebolisce più che rafforzare. A volte a lui ci affezioniamo. E. M. Forster dice che “una morte può anche trovare una spiegazione, ma non getterà mai luce su un’altra”; succede ancheal dolore, che non spiega un altro dolore». Che cos’è il lutto oggi? «Un tempo la religione forniva uno schema: andavi in chiesa, visitavi la tomba, vestivi di nero. Nella società europea contemporanea, dove la religione ha meno forza, non sappiamo più affrontare né la morte né il lutto. Non abbiamo sviluppato forme sociali per poterci confrontare adeguatamente con entrambi. Si moriva in casa, ora per lo più in ospedale, ed è come se fosse diventata un fallimento della medicina. Invece la morte è una parte fondamentale, intrinseca, della vita stessa. Non ci insegnano che cosa fare quando siamo colpiti dal dolore. Bisogna cavarsela da soli, alcuni lo fanno meglio di altri: i giovani più degli anziani, le donne più degli uomini». Ha dovuto leggere libri che trattavano il tema del lutto? «Nella letteratura britannica e americana ce ne sono pochi: il saggio di Samuel Johnson o il Diario di un doloredi C. S. Lewis. Di recente, L’anno del pensiero magico di JoanDidion; e La madre che mi manca di Joyce Carol Oates, in cui l’autrice si congratula con se stessa per essere sopravvissuta al primo anno. E invece è solo l’inizio: il secondo è più duro del primo. Scopri nuove forme di dolore. Il tempo è ad esempio costellato da noneventi: c’è il Natale, il tuo compleanno, il suo; e insieme compaiono nuovi anniversari, come il giorno della notizia, l’ingresso in ospedale, il momento della morte e quello del funerale». Lei usa un termine preciso: Sehnsucht. Che cosa significa? «È una parola del pensiero romantico tedesco che non ha equivalenti in inglese e che descrive il tipo di solitudine che ho conosciuto dopo essere stato privato della persona che amavo. Significa “struggimento”, avere un inconsolabile desiderio per qualcosa o qualcuno che non si può raggiungere». Come il mito di Orfeo e della sua Euridice? «È un esempio del rapporto che abbiamo con l’abisso. Orfeo scende nell’oltretomba per riprendersi la moglie morta. Oggi le nostre possibilità di andare in profonditàsono minori di una volta: per riportare alla luce possiamo solo scendere dentro i nostri sogni. O nella memoria. Quella metafora ci ha abbandonati. Si può perdere tutto per uno sguardo come fa Orfeo? Forse il mondo esiste per questo, per essere perduto». Non ha mai cercato in questi anni la consolazione della religione? «No. I miei genitori non erano credenti, non andavamo mai in chiesa tranne che per i matrimoni. Mi definisco un agnostico perché non credo ci sia alcuna prova dell’esistenza di Dio, anche se l’estensione di quanto siamo in grado di vedere non è poi tanto grande. Ho una visione molto darwiniana e meccanicistica dell’universo: siamo dei freak, un meraviglioso esempio di qualcosa troppo ben evoluto per il nostro scopo. Ma l’universo non ha sentimenti; lo stesso atteggiamento che ha verso di noi, lo ha per gli scarafaggi. Noi tutti spariremo, compreso l’universo stesso, e siccome l’essere umano è egoista ed egocentrico, probabil-mente accelereremo i tempi». Lei confessa di parlare con sue moglie morta, di rivolgersi costantemente a lei. Perché lo fa? «Non è un modo di far finta che sia viva ma di continuare ad averla dentro di me. Il protagonista di Sostiene Pereira parla con la fotografia della moglie morta e il direttore della clinica in cui è ricoverato gli che dice che deve imparare a vivere nel presente. A me invece sembra un comportamento normale. Sono ciò che sono anche per il fatto di aver vissuto con mia moglie per trent’anni. Non nego che sia morta e che non la rivedrò mai più. Dire che qualcuno è morto non vuol dire che non esiste: continuo quell’esistenza, e la continuo sotto forma di dialogo». C’è un modo corretto di comportarsi per superare il lutto? «È corretto ciò che ti aiuta a sopravvivere. Probabilmente ho ferito alcune persone semplicemente facendo quello che era necessario per resistere. È l’unico obbligo morale verso se stessi. Non avevo voglia di guidare fino in Scozia e trovarmi una donna in un pub. Volevo stare a casa. Quando sentivo le storie di George Brassens in cui la vedova si faceva consolare dal migliore amico del defunto marito, pensavo che fosse molto francese. Non è così: per alcune persone, la fine di una vita e la violenza della perdita portano a gettarsi nell’estremo opposto, e l’opposto della morte è il sesso. Per altri l’opposto è una tazza di tè nel proprio salotto, continuando a vivere come prima ». Il padre di Tommaso Landolfi fece della stanza della moglie morta una specie di sacrario. Paul Auster racconta del dolore provato quando svuotò gli armadi del padre. Lei cosa ha fatto? «All’inizio tenni tutto e non spostai nulla. Liberarmi di qualcosa che le apparteneva sarebbe stato come perdere il ricordo di lei. Dopo un po’ di anni mi sono accorto che non avevo più bisogno di quegli oggetti perché l’avevo interiorizzata. Visto che adorava i vestivi, pensai che avrebbe voluto che qualcuno li indossasse: li donai aduna compagnia teatrale e a un museo; i suoi gioielli li ho dati alle sue amiche, tenendone alcuni che avevano un significato particolare. Non c’è però una regola fissa. Puoi solo aspettare e ascoltare il tuo cuore». Si dice che per essere amati in eterno bisogna morire per primi. è d’accordo? «Un punto di vista molto romantico, se non gotico. Nessuno può essere amato per sempre, al massimo fin quando la persona che ti ama è ancora in vita. Non credo che per mia moglie sarebbe stata una consolazione. D’altronde, c’è sempre una sorta di pressione barometrica nella natura dell’amore; per quanto possa essere costante, varia ogni giorno. Se la situazione fosse rovesciata, cosa vorresti che facesse l’altro che ti sopravvive? Sarebbe egoista sperare che ti ami per sempre. Vorresti che fosse il più felice possibile, immagino. Visto come è andata, sono domande che non mi dovrò mai porre».
Posted on: Fri, 04 Oct 2013 15:41:48 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015