La prima guerra alla camorra di Antonella Migliaccio Dopo - TopicsExpress



          

La prima guerra alla camorra di Antonella Migliaccio Dopo l’episodio di Liborio Romano e l’ingresso di un cospicuo numero di camorristi nella Guardia Cittadina col fine di mantenere l’ordine pubblico all’ingresso di Garibaldi in città, toccò a Silvio Spaventa, ministro di Polizia nel periodo delle Luogotenenze, affrontare il problema e provvedere all’epurazione dei malviventi assoldati da Don Liborio, avviando una dura repressione. A Torino si faceva sempre più strada l’idea che la camorra fosse un fenomeno da reprimere. Sicuramente da conoscere (sono probabilmente di questo frangente gli interessanti documenti Memoria e Rapporto, di una relazione inviata a Torino, scritta forse da uno degli ufficiali di Spaventa). Spaventa usò il polso duro: fece arrestare un centinaio di camorristi, abolì la guardia cittadina e la sostituì con quella di pubblica sicurezza, vietò l’uso della divisa fuori servizio, causa di veri e propri abusi di potere. In un solo colpo il ministro annullò il reclutamento dei camorristi nella guardia, attirandosi l’odio di tutti i malviventi e, ieri come oggi, Spaventa ebbe a disposizione una scorta personale. Si fece strada subito, già nella fase delle Luogotenenze, quello che sarà un problema cruciale dell’Italia unita: l’assenza di una legge di pubblica sicurezza. Da un lato la mancanza di un codice penale, dall’altro problemi di ordine pubblico – dal brigantaggio alla camorra – che non potevano attendere. Conclusa la fase di passaggio, all’indomani dell’Unità, l’emergenza post-unitaria legittimò la classe politica italiana ad adottare misure repressive di carattere eccezionale. La camorra venne affrontata dai delegati del centro inviati a Napoli, al pari del brigantaggio, come emergenza e anomalia, con l’utilizzo di metodi non pienamente leciti. Oltre trecento camorristi furono mandati al domicilio coatto, alcuni anche per più di cinque anni. Finì nella repressione anche Tore ‘e Crescenz. Spaventa giocò un ruolo importante nel fare inserire anche i camorristi nella legge Pica del 1863, prima legge speciale dell’Italia unita. Presi e inviati nelle isole di Ponza e di Santo Stefano senza alcun processo, i camorristi subirono una dura repressione. Fu subito chiaro che si trattava di un potere criminale difficile da gestire. Fu altrettanto chiara l’esigenza di una legge applicabile a questa criminalità. La camorra indossa la divisa L’ingresso dei più forti camorristi nella guardia cittadina nel periodo di formazione della nazione italiana e il tentativo di legalizzazione della camorra rappresentarono, per Don Liborio Romano e per il nascente Stato italiano, un vero fallimento perché non si riuscì a normalizzare la mala vita, così come si sperava, mentre fu un grande successo per la “camorra in coccarda tricolore”, come venne poi chiamato il fenomeno in questa breve fase. Legittimata dalla divisa, la camorra negli anni 60 dellOttocento acquisì nuova potenza e si aprì nuove strade di guadagno illecito. La “camorra in coccarda tricolore” apparve legittimata verso il basso, capace ovvero di gestire il popolo, ma non irreggimentata dall’alto, per cui con indosso la divisa ebbe più spazio per fare quello che già faceva. Un episodio questo fondamentale anche per la storiografia sulla camorra. In una parte della memoria storico-politica successiva ai fatti, la “camorra in coccarda tricolore” rappresenta l’emblema della delegittimazione assoluta del potere generale verso il basso e, allo stesso tempo, la prova di una natura della camorra come contropotere plebeo, delinquenziale sì, ma capace allo stesso tempo di assolvere funzioni sociali e politiche complesse, come appunto quella di rappresentanza e “partito della plebe”, come è stata spesso definita. Al di là delle interpretazioni, lepisodio dellingresso dei maggiori camorristi nella guardia cittadina, ci dà l’idea di un fenomeno delinquenziale ben organizzato e capace, in questa congiuntura politica, di valorizzare il suo controllo del territorio microcriminale. Emerge, inoltre, in questa congiuntura, un altro aspetto che resterà presente per tutta la storia della camorra, cifra di lettura del fenomeno: l’opportunismo dell’organizzazione. La risposta alla chiamata di Liborio Romano non fu, infatti, adesione alla causa risorgimentale e liberale ma, piuttosto, sfruttamento di una situazione propizia. A riguardo è indicativa una canzoncina camorrista riportata per primo da Dalbono nel 1866: “Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun simm’ Rialist’, Ma facimm’ ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e a chist’”. A citare questa illuminante canzoncina è Marcella Marmo che, nel saggio pubblicato nella rivista Meridiana n.7/8 del 1990 e dedicato alle mafie scrive: «Non posso non citare una famosa canzoncina camorrista, che sintetizza bene l’orientamento nella congiuntura delle generazioni pre-1860: Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun simm’ Rialist’, Ma facimm’ ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e a chist’. Dagli anni quaranta ai plebisciti del ’60, questa o quella scelta di campo viene dunque percepita come una scelta autonoma, funzionale all’economia del gruppo (“nuje facimm’ ’e cammurist), che si ritiene autonomo ed intenzionalmente ostile (Famm’ n’… a chill’ e a chist’) a quante altre élites o istituzioni ne richiedessero comunque l’alleanza. Informazioni molto generali, come queste, lasciano solo intuire come la collaborazione mercenaria abbia potuto realmente contribuire a confermare o accrescere la “spaventevole” autorità dei camorristi nei quartieri, che appariva a questi scrittori liberali un prodotto della storia ma più ancora della perversa congiuntura, dominata a tutti i livelli sociali e politici dalla forza e dalla paura». Il gioco della morra Arturo Labriola, anarcosindacalista, autore nel 1901 de “Le leggenda della camorra”, è il primo ad indicare l’origine di camorra dal gioco della morra, in particolare, parlando di capo della morra, di colui, cioè, che controllava il gioco prendendo i soldi sul vincitore. La morra era un gioco molto diffuso nella città di Napoli nellOttocento. Per giocare bastava poco. Si giocava in due, a vincere era chi, più velocemente, riusciva a indicare il numero contemporaneamente, le dita di una mano. Gioco semplice ma che raggiungeva una forte violenza verbale. Letimologia più attendibile fa riferimento, dunque, a un campo che rientrava nelle tipiche attività della camorra che sul gioco per strada, nelle carceri ma anche nelle case da gioco, faceva sentire la sua presenza imponendo la tangente come prezzo della mediazione. Il camorrista si poneva, ovvero, come garante dell’esattezza del gioco. Ad avallare questa tesi, un documento ufficiale: la prammatica del 1735. Questo documento rappresenta, ad oggi, la prima comparsa della parola camorra in un atto ufficiale. Nella prammatica si autorizzava a Napoli lapertura di otto case da gioco di fronte a palazzo reale, con la dicitura “camorra avanti palazzo”. Arturo Labriola scrive: «La parola camorra ha la sua interpretazione in sé stessa e deriva manifestamente dal giuoco della morra, che è appunto solito nel popolino. Non c’è bisogno di ricavare dall’arabo o dallo spagnuolo la parola, che ha dovuto sorgere dal cuore stesso del popolo, per una consuetudine di vivere. E del resto ove si ponga mente che il fenomeno della camorra si svolge più acutamente intorno alle case da giuoco di infimo ordine o meglio quotate, apparrà verosimile che da qualche consuetudine plebea di giuoco trasse la parola origine. Volere la camorra, frase che anche oggi in certi ambienti si usa, avrà dovuto proprio significare: volere una parte alla vincita del giuoco della morra». Il secondo dopoguerra e gli anni Sessanta: il contrabbando di Antonella Migliaccio Nel corso di tutto il ventennio fascista, la camorra restò in sordina, attese tempi migliori, ma non scomparve. Con personaggi come Aria e Barraccano si affacciò su nuovi mercati, si fece conoscere oltreoceano, ma soprattutto prese confidenza col contrabbando, grande fortuna della camorra che esce dal secondo conflitto bellico. Fu la borsa nera, infatti, il campo intorno al quale si formò e rafforzò una nuova generazione di camorristi. Il dopoguerra con la sua disperazione e le sue innumerevoli opportunità di illegalità rappresentò un momento propizio per chiunque volesse cercare fortuna illegalmente. È proprio a partire dagli anni ’50 del Novecento che la camorra iniziò ad assumere alcune delle caratteristiche riscontrabili attualmente ed è in questo periodo che, dopo il momentaneo tacere della parentesi fascista, la camorra si ricostruì e riapparve nuovamente organizzata. Diversi fattori giocarono nella “rinascita” della camorra. Borsa nera, sigarette di contrabbando, commercio con gli americani furono i campi nei quali i delinquenti napoletani si rifecero le ossa. In questo frangente si fecero strada alcuni camorristi come Antonio Spavone detto “‘o malommo”, primo grande capo della camorra del dopoguerra che cerca di ricostruirsi, e iniziarono a circolare nomi di famiglie camorriste destinate a restare ancora a lungo al centro delle cronache: i Giuliano di Forcella, i Zaza e i Mazzarella tra centro e zona orientale, i Nuvoletta a Marano; i Bardellino nella zona aversana; gli Ammaturo in quella flegrea. Col suo porto nel centro del Mediterraneo, a lungo snodo del commercio di sigarette, Napoli godeva di una posizione ideale. Decisivo fu in questo momento il confino di esponenti mafiosi di rilievo che vennero mandati proprio nella provincia napoletana, così come prevedeva la legge antimafia del periodo. Fu l’occasione, questa, per tessere nuove e strettissime relazioni tra clan mafiosi e famiglie criminali napoletane che ne mutuarono atteggiamenti e codici. I Zaza e i Mazzarella in città, i Nuvoletta e i Bardellino in provincia divennero i referenti locali delle cosche mafiose e si parlò di mafizzazione. Nel mercato del contrabbando, tra napoletani e siciliani si affacciarono i marsigliesi, portando la rivoluzione dello scafo blu, più veloce e snello per sfuggire a ogni inseguimento. E il contrabbando iniziò a fare gola anche ai calabresi delle ‘ndrine. I primi anni ’70 fecero contare duri scontri tra scafisti e Guardia di Finanza. In questa lotta i marsigliesi ebbero la peggio, mentre tra napoletani e siciliani nacquero in questi anni sodalizi destinanti a durare nel tempo. Nel comune interesse per le bionde i gruppi si unirono e dal dopoguerra lungo gli anni Settanta la camorra seppe ricostruirsi in clan, prendendo dai cugini siculi il forte radicamento nel territorio. Ma accanto alla camorra inserita nei traffici internazionali di sigarette ce ne fu un’altra, negli anni Cinquanta, altrettanto forte, che si imponeva nei commerci dei mercati ortofrutticoli. È soprattutto una camorra di provincia, che godeva del controllo dei prodotti che dalle zone limitrofe finivano nel centro città, nel grande mercato ortofrutticolo di corso Novara. Era qui che si decidevano i prezzi dei prodotti che finivano poi nelle case dei napoletani. A deciderli era il presidente dei prezzi, ovvero il più importante tra i mediatori, figura che si imponeva tra i produttori e i venditori dei prodotti agricoli, lucrando sulle loro attività. Anche questo era campo di scontro. Figura di spicco della cosiddetta camorra rurale fu Pascalone e Nola, sposato con Pupetta Maresca. La loro storia ebbe un’eco nazionale. (tratto da bibliocamorra.altervista.org)
Posted on: Mon, 11 Nov 2013 18:03:23 +0000

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