L’industria della violenza Nel 1984, Tommaso Buscetta si - TopicsExpress



          

L’industria della violenza Nel 1984, Tommaso Buscetta si dichiarò disponibile a descrivere al giudice Giovanni Falcone (1939-1992) le principali caratteristiche di Cosa nostra: la mafia palermitana. Fino a quella data, il fenomeno mafia era stato conosciuto soltanto in modo molto impreciso, per sommi capi, ed era risultato molto difficile tracciare un profilo nitido di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo. La testimonianza di Buscetta, insieme al paziente lavoro di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha permesso di sollevare almeno in parte la cortina che copriva l’attività di Cosa nostra nel dopoguerra. È un’impresa ancora più complicata e difficile, invece, descrivere le origini della mafia, dal momento che le fonti a disposizione dello storico sono scarse e contraddittorie. Soprattutto, nessuna di queste testimonianze possiede l’affidabilità di quella di Buscetta, il primo soggetto disposto a parlare della mafia dall’interno, per esperienza diretta e con il fine di fermarne l’azione (Buscetta aveva perso due figli, un fratello, un nipote, un cognato e un genero, uccisi da un gruppo rivale). Può essere utile iniziare ricordando che nel dialetto palermitano il termine mafioso significa bello, ardito, sicuro di sé. Pare che il termine sia stato associato per la prima volta a un gruppo di delinquenti nel 1863, allorché fu rappresentata con grande successo un’opera teatrale intitolata I mafiusi di la Vicaria. La vicenda era ambientata in un carcere di Palermo (la Vicaria, appunto) e aveva come protagonisti alcuni criminali, che dopo es sersi macchiati di vari delitti si redimono e chiedono perdono. Il sostantivo astratto mafia, invece, non compare: sicuramente è posteriore all’abitudine invalsa di chiamare acuni criminali con l’appellativo di mafiosi. Il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1865, dal marchese Filippo Antonio Gualterio, prefetto di Palermo, in un rapporto sulla situazione politica del capoluogo siciliano, inviato al ministero degli Interni. La grafia usata era Maffia, diversa da quella che poi si impose nell’uso, e designava chiunque si opponesse al nuovo Stato nazionale; il prefetto temeva dei disordini, che in effetti si verificarono nel 1866, come conseguenza della politica fiscale adottata dai governi della Destra e della normativa sulla coscrizione obbligatoria. I termini mafia e mafiosi, dunque, nacquero fuori dall’ambiente e dal mondo criminale; a lungo ebbero significato vago, confuso e impreciso: solo con il passar del tempo finirono per acquistare consistenza, cioè designarono una realtà dai contorni più definiti e nitidi, che si stava affermando nell’isola. La maggioranza degli studiosi concorda sul fatto che la mafia ha origini relativamente recenti; al momento dell’unificazione italiana (1861) era un fenomeno in via di definizione, che aveva ormai raggiunto una precisa fisionomia, ma non aveva una lunga storia alle spalle. Inoltre, si pensa che gli inizi di Cosa nostra non debbano essere cercati nell’interno della Sicilia, più arretrato e legato a un’e- conomia basata sul latifondo e sulla coltivazione estensiva dei cereali. Al contrario, il bacino di coltura della mafia fu la dinamica realtà della campagna circostante Palermo in cui il grano aveva lasciato il posto alla ben più redditizia produzione di limoni e di altri agrumi, esportati in grandissime quantità in Inghilterra e negli Stati Uniti. In quest’area ricca e ben sviluppata, integrata a pieno titolo nel sistema capitalistico globale, un gruppo di criminali riuscì gradualmente a infiltrarsi nel cuore del meccanismo di produ- zione, approfittando della vulnerabilità degli agrumeti. Spesso, si trattava di guardiani disonesti, che iniziarono a ricattare i padroni e a estorcere denaro: se le somme richieste non fossero state corrisposte, i frutti sarebbero stati rubati e gli alberi danneggiati. A volte, grazie ai loro ricatti e alle estorsioni sistematiche, riuscivano addirittura a impossessarsi del terreno stesso. PERCORSI DI STORIA LOCALE Le prime descrizioni del fenomeno mafioso Nel 1864, il barone Niccolò Turrisi Colonna scrisse un volume dedicato alla Pubblica sicurezza in Sicilia. Nel suo resoconto, Turrisi Colonna denunciava l’esistenza di una «setta di ladri che ha rapporti in tutta l’isola», sostenendo che essa si era strutturata una ventina d’anni prima. La sua forza, secondo il barone, stava nell’umiltà (umirtà, in siciliano, da cui l’italiano moderno omertà) dei suoi membri, che erano completamenti devoti alla causa della setta e non la tradivano per alcuna ragione. Il dato più singolare è che, alcuni anni più tardi, lo stesso Turrisi Colonna appare coinvolto in affari loschi, di stampo decisamente mafioso: forse, la denuncia lanciata dal nobile nel 1864 spinse la nascente organizzazione a prendere contatti con lui e a trovare un accordo di convivenza vantag- gioso per entrambi. L’affare in cui il barone si trovò di fatto schierato dalla parte della mafia si verificò negli anni Settanta ed ebbe come protagonista uno stimato chirurgo, Gaspare Galati, proprietario di un’azienda agricola modello coltivata a limoni, nei pressi di Palermo. Galati fu vittima di una serie di azioni intimidatorie , compiute da un gruppo di delinquenti che faceva capo ad Antonino Giammona: il primo boss di cui conosciamo l’identità e le pratiche di azione. L’obiettivo dei criminali era di costringere il dottore a cedere il redditizio podere, che si sarebbe aggiunto ad altri già controllati dal capo mafioso. Sebbene si trattasse di una persona di umili origini e semianalfabeta, Giammona era una figura tutt’altro che arcaica: aveva capito che il commercio degli agrumi era, a quell’epoca, l’attività di gran lunga più redditizia ed era riuscito a corrompere alcuni importanti funzionari di polizia, che infatti non reagirono e non diedero alcun peso alle denunce di Galati. Nel 1875, il chirurgo fuggì dalla Sicilia e si trasferì a Napoli. Qui scrisse un rapporto che inviò al ministero dell’Interno, a Roma, denunciando l’esistenza di una potente associazione segreta che stava impadronendosi con la violenza del settore più moderno dell’economia siciliana. Il rapporto di Galati mise in moto un’inchiesta condotta dal questore di Palermo, che ottenne un’importante informazione: tutti coloro che entravano a far par- L’ITALIA DALL’UNITÀ ALLAPRIMA GUERRA MONDIALE L’estrazione e l’esportazione dello zolfo costituirono il principale settore di interesse per la mafia verso la fine dell’Ottocento. te della misteriosa organizzazione segreta, al momento del loro ingresso ufficiale nel gruppo, si sottoponevano a un preciso rito di iniziazione. Dopo che una goccia del loro sangue era stata spalmata su un santino, l’immagine sacra veniva bruciata e ridotta in cenere, a simboleggiare la sorte che avrebbe atteso chiunque avesse violato il giuramento appena pronunciato. Si trattava di una vera e propria nuova nascita, di una specie di nuovo battesimo, e proprio per tale motivo alcuni capi mafiosi ricevettero ben presto l’appellativo di padrini. Del resto, sulla base della sua esperienza di magistrato inquirente e dei colloqui con Buscetta, Falcone spesso paragonò l’ingresso in Cosa nostra a una conversione religiosa, che per sua natura comporta anche l’adozione di un codice morale del tutto speciale e particolare. A base di tale codice sta l’obbedienza assoluta alle esigenze dell’organizzazione, mentre l’uso della violenza per accrescerne la forza e la potenza è ritenuto del tutto giustificato. Forse, l’origine remota del rito va cercata nella massoneria e nella carboneria; ancora più importante, tuttavia, è ricordare che riti simili furono testimoniati a fine Novecento da vari mafiosi che, dopo il loro arresto, seguendo l’esempio di Buscetta e per be- neficiare di sconti sulla pena decisero di collaborare con la giustizia. Rituali molto simili a quelli palermitani furono scoperti dalla polizia nel 1883, nelle province di Agrigento e Caltanissetta, ove operava un’organizzazione criminale conosciuta con il nome di Fratellanza. Dopo alcuni episodi di violenza verificatisi a Favara, furono arrestate e processate più di 200 persone, 107 delle quali furono condannate. Il principale set tore su cui la società mafiosa di quell’area aveva concentrato il proprio interesse era l’estrazione e l’esportazione dello zolfo. Insieme alla coltura degli agrumi, era l’attività economica più moderna e vantaggiosa dell’isola, inserita in un grande circuito di scambi internazionali. Anche la mafia di Agrigento e Caltanissetta (di cui ignoriamo con precisione i lega- mi con quella palermitana) non era un fenomeno primitivo, generato dell’arretratezza della Sicilia: piuttosto, come nel caso del racket della produzione e dello smercio dei limoni, anche le miniere di zolfo e il mercato del prezioso minerale avevano attirato l’attenzione della criminalità perché permetteva di ottenere enormi profitti economici. Di qui l’intimidazione nei confronti dei proprietari delle zolfare, perché le cedessero a uomini legati alla mafia, oppure l’obbligo – imposto con la violenza – di servirsi solo di imprese compromesse con la criminalità per l’estrazione e il trasporto del minerale fino ai porti. Negli anni Ottanta, intanto, la mafia si era notevolmente rafforzata a livello politico. La mole crescente dei suoi traffici illeciti trovava protezioni e coperture sempre più potenti, grazie ad accordi con uomini politici che occupavano posti e ruoli importanti a livello locale e, infine, riuscivano persino a essere eletti in Parlamento. Mafia, politica e affari Nell’agosto 1898, il generale Pelloux – in qualità di presidente del Consiglio – nominò Ermanno Sangiorgi questore di Palermo. Nei due anni seguenti, questo zelante funzionario di polizia stese una serie di dettagliati rapporti (in totale, quasi 500 pagine) da cui emerge un quadro abbastanza preciso di numerose vicende che insanguinarono il capoluogo siciliano e i suoi dintorni negli ultimi anni del XIX secolo. Al termine di una lunga indagine, furono arrestate diverse centinaia di mafiosi, tra cui Antonino Giammona, che ormai era quasi ottantenne, ma secondo il questore era ancora la «mente direttiva» dell’organizzazione criminale. L’attività di Sangiorgi fu tuttavia ostacolata in varie maniere dal procuratore generale di Palermo, che probabilmente era prezzolato dai mafiosi e che comunque scrisse esplicitamente al ministro dell’Interno: «Della mafia non mi sono mai accorto nell’atto di esercitare il mio ministero». Il risultato fu il proscioglimento di Giammona e di tutti gli altri imputati maggiori, mentre il questore – caduto il governo Pelloux – perse qualsiasi sostegno da parte dell’autorità centrale, in quanto i governi erano preoccupati, prima di ogni altra cosa, di non perdere il sostegno dei deputati siciliani, inclusi quelli collegati alla mafia, come Raffaele Palizzolo, che fu eletto per tre volte in un collegio palermitano. Deputati legati alla mafia PERCORSI DI STORIA LOCALE La stampa nazionale non diede molto risalto alla tenace lotta di Sangiorgi; ben più rilievo, invece, ebbe l’assassinio di Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, una delle più eminenti e stimate personalità della società siciliana, che fu per alcuni anni sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. La sua uccisione ebbe luogo in uno scompartimento ferroviario il 10 febbraio 1893; tuttavia, il processo contro i presunti assassini fu celebrato solo nel 1900, a Milano. Innanzi tutto emerse il movente dell’omicidio: dopo le dimissioni di Notarbartolo, al Banco di Sicilia erano state compiute numerose e gravi infrazioni finanziarie, finalizzate a sostenere l’azienda cantieristica della potente e nobile famiglia Florio, legata agli ambienti mafiosi. L’uccisione fu progettata quando corse voce che l’integerrimo Notarbartolo sarebbe tornato a capo della banca: nel qual caso, avrebbe immediatamente scoperto i loschi traffici compiuti all’ombra dell’istituto di credito palermitano. Durante un’udienza del processo, tuttavia, il figlio del banchiere ucciso accusò esplicitamente del fatto Raffaele Palizzolo, che già da tempo era entrato in conflitto con Notarbartolo, dopo che il sindaco aveva dimostrato la sottrazione di una grossa somma di denaro pubblico da parte del deputato mafioso. Nel 1902, Palizzolo fu condannato in primo grado come mandante dell’uccisione di Notarbartolo, insieme a un altro mafioso riconosciuto come esecutore materiale del delitto. La Corte di Cassazione, tuttavia, annullò la sentenza per un vizio di forma. Come il grande processo palermitano costruito da Sangiorgi, anche il secondo importante procedimento penale dell’epoca liberale si concluse con un nulla di fatto. Intanto, negli anni Novanta, la Sicilia aveva visto crescere di importanza la singolare esperienza dei Fasci, organizzazione finalizzata a difendere gli interessi dei contadini più poveri, nei loro quotidiani contrasti con i grandi proprietari terrieri e con i gabellotti, i fattori cui i latifondisti assenteisti delegavano di fatto la conduzione delle loro terre. A Corleone, il leader contadino di maggiore prestigio fu Bernardino Verro, che in un primo tempo cercò di rafforzare la propria posizione legandosi alla mafia locale (un’associazione segreta i cui membri chiamavano se stessi Fratuzzi ). Ben presto, Verro si pentì della sua scelta e percorse altre strade, ad esempio creò cooperative agricole e si avvicinò al Partito socialista. Nel 1914, fu eletto a schiacciante maggioranza sindaco di Corleone; i Fratuzzi, però, non gli perdonarono il suo tradimento: il 3 novembre 1915, mentre l’opinione pubblica era da tempo concentrata solo sull’andamento della guerra, Verro fu ucciso per strada, con un’esecuzione pubblica e brutale, che doveva servire come ammonimento a tutto il paese. Infine, tra gli omicidi clamorosi, che fecero grande scalpore ma rimasero impuniti, può essere ricordato quelo di Joe Petrosino, un tenente della polizia di New York che all’inizio del secolo scorso combatté duramente contro la mafia negli Stati Uniti. I legami tra la Sicilia e l’America erano stati facilitati dall’elevatissimo numero di emigranti (800 000 siciliani si spostarono dall’isola agli USA, tra il 1901 e il 1913) e dai lu- crosi traffici di agrumi, vino e olio, interamente controllati dalla mafia, che a New York instaurò ben presto un efficiente si- stema di racket e di estorsioni a danno degli italiani. Petrosino si rese conto dei collegamenti esistenti tra le organizzazioni siciliane e quella newyorkese, e quindi si recò a Palermo per studiare da vicino il fenomeno italiano. Il 12 marzo 1909, due uo mini lo uccisero. La stampa americana denunciò con molta ener- gia la vicenda; ciò nonostante, non vi fu mai alcun processo. segue.....
Posted on: Thu, 25 Jul 2013 15:45:23 +0000

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