L’utopia comunista ha bisogno di santi, Agamben ha trovato - TopicsExpress



          

L’utopia comunista ha bisogno di santi, Agamben ha trovato B-XVI Alfonso Berardinelli Cercherò di riassumere, per quanto mi è possibile e in breve, il chiarimento teologico-politico che Giorgio Agamben ci ha of­ferto nel suo saggio “Il mistero del male. Bendetto XVI e la fine dei tempi” (Laterza, 67 pp., euro 7). Agamben, come sanno i suoi lettori, oltre che il nostro maggiore editore e studioso di Walter Benjamin, è un pensa­tore politico internazionalmente noto per la sua originalità, nonché un profondo conosci­tore della teologia cristiana. E della teologia (come suggerì Benjamin) non ha mai sottovalutato il contenuto storico e politico, la sua pervasiva benché sotterranea influenza sul­la cultura laica moderna. L’erudizione teolo­gica viene usata da Agamben per mostrare, rivelare le tracce di una presenza culturale rimossa dal pensiero illuministico, eppure tuttora attiva nelle forme in cui ci si presen­ta oggi la crisi del mondo contemporaneo. Perciò, se importa chiarire il significato teologico e politico della rinuncia di papa Ratzinger, è perché tanto nella chiesa quan­to nella società attuale viene vissuto, secon­do Agamben, un medesimo “dramma stori­co”, nel quale si oppongono Cristo e Anticri­sto, economia ed escatologia, diritto formale e giustizia sostanziale, legalità e legittimità. Nell’ultimo paragrafo del primo saggio, “Il mistero della chiesa”, Agamben scrive: “Ab­biamo cercato di interpretare l’esemplarità del gesto di Benedetto XVI nel contesto teo­logico e ecclesiologico che le è proprio. Ma se questo gesto ci interessa, non è certo soltan­to nella misura in cui rimanda a un problema interno alla chiesa, quanto piuttosto perché esso permette di mettere a fuoco un tema ge­nuinamente politico, quello della giustizia che, al pari della legittimità, non può essere eliminato dalla prassi della nostra società. Noi sappiamo perfettamente che anche il corpo della nostra società politica è, come quello della chiesa e forse ancora più grave­mente, bipartito, commisto di male e di be­ne, di crimine e di onestà, di ingiustizia e giu­stizia. E tuttavia, nella prassi delle democra­zie moderne, questo non è un problema po­litico e sostanziale, ma giuridico e procedura­le. Anche qui, come è avvenuto per il proble­ma della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo dover poi constatare che la bipartizio­ne del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia li­berista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quel­lo della giustizia e si finge di poter governa­re una società sempre più ingovernabile se­condo criteri esclusivamente tecnici”. Queste deduzioni hanno il pregio della chiarezza, della semplicità e della radicalità dottrinale. Male e bene convivono e si op­pongono nella chiesa come nella società ca­pitalistica. Il gesto esemplare di rinuncia compiuto da Ratzinger ha voluto rendere il più possibile evidente l’esigenza di marcare l’opposizione fra ciò che nella chiesa appar­tiene al mondo e al suo dominatore Satana e ciò che appartiene a Cristo. La chiesa na­sce e vive nel mondo, ma non appartiene al mondo. La sua “economia” non può sovrasta­re e sopprimere la sua “escatologia”, cioè il manifestarsi nella coscienza morale di un tempo messianico che non è “l’ultimo gior­no” e la “fine del tempo”, ma “che è in cor­so per così dire in ogni istante”. Ratzinger dimissionario, dunque, come “figura” teologica ed ecclesiologica di una ri­voluzione sociale legittima. Non si può a questo punto non pensare al “tempo-ora” di Benjamin, al suo messianismo rivoluziona­rio, alla sua idea di un’interruzione del con­tinuum storico e del progressismo riformista che frenano e paralizzano l’avvento della giustizia. Agamben procede con ogni cautela filolo­gica quando si tratta di esegesi teologica e quando ricorda le tappe della vicenda intel­lettuale di Ratzinger, a partire dalla sua in­terpretazione giovanile di un testo del gran­de teologo Ticonio, attivo nel IV secolo in Africa, fino al suo discorso del 28 aprile 2009 a L’Aquila sulla tomba di Celestino V, che se­condo Dante fece “per viltade il gran rifiu­to”. Mi sembra però che nel passaggio dal­l’ecclesiologia al messianismo politico Agamben non si mostri altrettanto cauto. In termini teologici si può credere di sapere cos’è Cristo e cosa l’Anticristo, ma in termini sociali e politici la “bipartizione del corpo sociale” che “diventa ogni giorno più profon­da” è molto meno chiara. I rapporti fra lega­lità, economia, legittimità politica, giustizia sociale, prassi e potere rivoluzionari sono stati il problema tragicamente irrisolto dal 1789 ai comunismi del XX secolo. Sulla teo­ria della rivoluzione e sull’avvento della giu­stizia Agamben resta piuttosto reticente. Nella sua strategia argomentativa attuale mi sembra che venga compiuto un rovesciamen­to del rapporto che Benjamin istituì tra teo­logia e materialismo storico in una delle sue più note “Tesi di filosofia della storia”. Alla fine degli anni Trenta, secondo Benjamin, la teologia era culturalmente impresentabile e doveva restare nascosta per manovrare l’ar­mamentario concettuale del marxismo, allo­ra in voga. Oggi succede il contrario. La teo­logia ha vinto, sembra aver conquistato e co­lonizzato i comunisti utopico-rivoluzionari. Perciò Agamben può essere del tutto esplici­to e filologicamente documentato finché par­la da teologo, ma deve mantenere velata una poco presentabile utopia comunista, per so­stenere la quale si è da tempo sprovvisti di teoria. Così viene delegata al clamoroso ge­sto dimissionario di un Papa la responsabi­lità morale e teologica di alludere alla pe­renne attualità della rivoluzione come “parusia”, come avvento del bene essenziale o del regno di Dio nel mondo. il Foglio, 29 maggio 2013 da Zanzibar.
Posted on: Wed, 11 Sep 2013 18:19:37 +0000

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