MULTINAZIONALI, STATI NEGLI STATI: PERCIO’ GOOGLE SE LA RIDE DEL - TopicsExpress



          

MULTINAZIONALI, STATI NEGLI STATI: PERCIO’ GOOGLE SE LA RIDE DEL FISCO Siamo al punto di partenza. La domanda non è “come contrastare la tendenza a non pagare le tasse di una grande multinazionale, tipo Google o Facebook”, quanto piuttosto comprendere quale sia la forma giuridica che trattenga i principi fondamentali su cui si è formata la nozione moderna di Stato. Un tempo si diceva “no taxation without representation”. Erano i coloni inglesi in terra americana che lo gridavano. La madre patria non li rappresentava in parlamento, non riteneva che potessero contribuire al governo politico dell’impero e quelli, in virtù dell’identificazione del pagamento delle tasse con l’appartenenza a una comunità, ruppero la subordinazione e dichiararono la loro indipendenza. E fu proprio nella nascente democrazia americana che il primo vero conflitto politico fu animato dalla contrapposizione tra i federalisti di Alexander Hamilton, primo Segretario del Tesoro e propugnatore della Banca Nazionale d’America, e i repubblicani che intendevano mantenere intatti i privilegi territoriali dei monopolisti che formarono le prime enclavi post indipendentiste. Insomma, per non continuare con un’interminabile lista di esempi, la condizione di appartenenza a una comunità organizzata è sempre stata caratterizzata dal rapporto con le tasse, con la funzione pubblica necessaria che esse assolvono. La nostra Costituzione, portando a termine un’intera storia secolare di equivoci e malversazioni, nell’articolo 53 stabilisce che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. È un’enunciazione tra le più nette e inequivocabili, sebbene sia largamente inapplicata. Le ragioni della mancata applicazione dell’articolo 53 sono molteplici. Potremmo partire da quel “tutti” che segna l’incipit della norma e che, in un paese con l’evasione fiscal che abbiamo noi, appare davvero risibile. I “tutti” sono in realtà solo quelli che possono essere raggiunti in vario modo dallo stato, in particolare lavoratori dipendenti e pensionati che non a caso contribuiscono per oltre l’80% al gettito fiscale effettivamente riscosso. Gli “altri”, quelli che non pagano le tasse, si comportano come piccoli poteri feudali che difendono il loro diritto a essere invisibili di fronte alla legge. Solo che questi feudatari moderni non vivono assediati in castelli inaccessibili, piuttosto usano i nostri mezzi pubblici, la sanità, la scuola, i servizi che noi paghiamo anche per loro. Sono in mezzo a noi e si sentono diversi, immuni dal dovere di contribuire a ciò che essi stessi usano. A questa categoria di evasori ed elusori, che per loro natura è sfuggente e “evasiva”, se n’è aggiunta una nuova nel corso degli ultimi decenni. Si tratta delle grandi multinazionali che, in virtù della loro consistenza economica (il loro budget non di rado supera il Pil d’interi paesi) e delle trasformazioni tecnologiche, si comportano in tutto e per tutto come poteri concorrenti degli stati nazionali. Le multinazionali, infatti, si considerano abitanti occasionali degli stati che, malauguratamente per loro, ospitano le loro sedi di rappresentanza, i loro magazzini, i loro server. In effetti, con una prometeica presunzione, esse si considerano pienamente al di sopra delle nazioni e dei doveri connessi all’appartenenza alle nostre comunità. La loro tendenza a “contrattare” l’entità delle tasse dovuta non avviene con l’elaborazione di un sofisticato camuffamento di fronte alle leggi (di cui comunque non disdegnano l’efficacia), ma con l’esibizione della protervia di chi dice “vado dove faccio più soldi”. In questo modo, vi prego di non confondere queste brevi note con l’ideologia (quella appartiene ormai per lo più ai più spregiudicati tra gli speculatori finanziari), si sono modificati interi impianti normativi e si sono allentate le maglie di un controllo statale tanto più necessario quanto più necessario di questi tempi. È inconcepibile che Google dica apertamente di voler pagare un’inezia dei suoi giganteschi profitti e ha fatto bene Ed Milliband a ribadirlo in casa loro, alla Big Tent. Eppure la sensazione è che il potere politico sia stato costretto ad argomentare in casa di chi se ne prende gioco tutti i giorni, tanto che il bel discorso di Milliband sembrava adatto al più a contribuire al tentacolare archivio detenuto da Google che a spaventare quell’azienda che aveva appena dichiarato guerra al fisco britannico. È arrivato il momento di rompere con le complicità, i condizionamenti e le subalternità. È arrivato il momento di imporre un governo globale, per ora almeno europeo, dei sistemi fiscali. Tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche d’investimento e commerciali, definizione d’imponibili a partire dalle sedi materiali in cui si lavora e impedendo che vi siano tentazioni di spostare un ufficio e dire che lì s’è spostata la produzione (vedi il tentativo di Fiat di spostare in UK una delle sue sedi legali), combattere senza tregua i paradisi fiscali. Insomma, le tasse non sono un affare per pochi e poveri, sono il fondamento della coesione sociale. Le multinazionali non sono i coloni che si ribellano allo stato oppressore, sono i pirati che cercavano riparo nelle Tortuga, che oggi si chiamano Cayman. Bisogna decidersi ad affrontarli, non solo cercare di convincerli con le buone maniere. Ne va del destino delle nostre società, oramai tanto diseguali da essere sull’orlo del collasso. pubblicato su Gli Altri
Posted on: Wed, 04 Dec 2013 11:35:50 +0000

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