Magari vi hanno fatto l’abitudine, non se ne accorgono quasi - TopicsExpress



          

Magari vi hanno fatto l’abitudine, non se ne accorgono quasi più… e passeggiano per le strade come se le loro vite ne fossero astratte, distanti, non le appartenessero. Io la guardo ogni volta come fosse la prima. E’ Londra, non una qualunque. Mi trovavo ad Oxford Street, immersa in una concentrazione di luci, colori, persone e negozi talmente colmi di abiti e scarpe che sembrava volessero implorare il denaro di farsi avanti e bussare alla porta. Mi arrestai all’improvviso. “Cosa sto facendo qui?”, pensai. Mi voltai, tornai indietro e mi diressi ad Oxford Circus per prendere la metro… io volevo sentire il vento del Tamigi tra i capelli, ancora una volta. E London Bridge fu complice del mio desiderio. Superato uno dei tanti grattacieli circostanti, sentii avvolgermi da un leggero soffio, che divenne progressivamente più intenso man mano che valicavo il ponte. Sorrisi, raggiunsi un attimo di libertà. Per l’ennesima volta mi appoggiai al ponte, ardente di assaporare quell’adrenalina che solo la fusione tra la paura di cadere ed il senso di appartenenza a quel paesaggio maestoso può generare. Almeno per un attimo, per un secondo soltanto, se si è capaci di perdersi nell’infinitezza dell’orizzonte che si manifesta innanzi, si può percepire un vivo senso di potenza, quasi a poter credere che il mondo ci appartiene. Ma bisogna essere bravi a ghermire ed assorbire quell’attimo poiché, come tutte le illusioni, svanisce. Scesi le scale che conducono al Tower Bridge, attraversai il ponte, osservai le torri divenire più grandi man mano che mi approssimavo. Di tanto in tanto guardavo i passanti, catturati più dal desiderio di fotografarsi, che il loro egocentrismo partoriva, che dal desiderio di abbandonarsi all’esterno da loro. Giunsi rapidamente al ponte che collega le due torri, lo percorsi per intero finché scorsi il Tower of London, un complesso di castelli risalenti al Medioevo che un tempo fungeva anche da prigione per i nobili detenuti. Tutt’intorno era cupo, silente, desolato. La tarda ora nascondeva ogni traccia di calore. Scesi le scale che guidavano al castello più vicino. Indugiai. Sedeva lì, assopito, stanco, sporco. Evidentemente dovette sentire i miei passi perché alzò pacatamente il volto per guardarmi. Lo esaminai, immobile, nelle scale. Era esile, con il viso un po’ affossato, gli occhi cerulei. Probabilmente irlandese o del nord della Gran Bretagna. “Hai qualche sterlina da darmi?”, mi chiese. Rimasi in silenzio. Proseguì: “Cosa fai qui da sola a quest’ora? E’ pericoloso…”. “Lo so…”, risposi. “Avvicinati”. “No…”, replicai esitante. “Hai paura?”, domandò. “Sì”. Fui risoluta. “Non devi. Non ti serve a nulla la paura”. “Mi serve per proteggermi…”, ribattei. “Da cosa?”. “Da… pochi giorni fa due uomini, ero sola… sono stata vittima di un furto”. Tremavo, stavo per piangere. Mi trattenni. Cosa sarebbe mai potuto importare della mia ordinaria vicissitudine ad un uomo che con molta probabilità non toccava cibo da due giorni? Mi vide in difficoltà. “Sei curiosa, non è vero?”, chiese. “Sì… dovrei andare”. “Sei venuta fin qua per ritornare a casa?”. Lo fissai. Seguitavo a tremare, sarei voluta fuggire, ma rimanevo lì, inerte, incosciente, quasi come una forza a me estranea mi impedisse di voltarmi e di andar via. Misi le braccia conserte, come a volermi proteggere. Incalzò: “Sai cosa narra la leggenda? Che in uno di questi castelli vi è il fantasma di Anna Bolena che tiene tra le mani la sua testa…”. Fu in quell’attimo che un’onda di pensieri devastò la mia mente come a volermi fare impazzire. “Vuole spaventarmi?”, pensai. Io conosco bene questa leggenda, ma lui come poteva immaginarlo? Insomma, conosco la storia britannica più di quanto conosca la storia del mio Paese… Anna Bolena fu decapitata per ordine di Enrico VIII, re d’Inghilterra nonché consorte, poiché accusata di alto tradimento… ma la sua unica colpa era quella di amarlo e di esserne devota. “Conosco la leggenda… ne sono così affascinata…”, mi sbilanciai come lo desiderassi dal primo momento in cui mi parlò, quasi volessi confortarmi con l’idea che di lui potevo fidarmi. Sorrise. “Se vuoi ti mostro il castello”, disse. Il condotto che portava al castello era completamente buio. Per quale ragione avrei dovuto essere così imprudente da avventurarmi in una follia del genere? Eppure non desideravo altro. “Ascolta… io ho paura. Tutto ciò è folle, non mi farai del male, vero?”, domandai stupidamente ed al tempo stesso atterrita. Rise. “Seguimi”. Quel “seguimi” suonava tanto di quel “bevimi” che appare scritto nel biglietto della pozione che Alice beve per rimpicciolirsi e poter entrare nella porta che conduce al mondo delle meraviglie. Esitai, poi scesi lentamente le scale e mi diressi verso di lui. Percorremmo un vialetto circostante il giardino del complesso, lievemente illuminato dalle luci provenienti dai lontani lampioni della città. Dormivano accanto innumerevoli fiorellini variopinti, ombreggiati dalla notte e giacenti in gracili aiuole adiacenti al vialetto. Dal lato opposto imperavano i castelli, di stile probabilmente neogotico, sparpagliati lungo tutto il fiume. Chiesi: “Quale sarebbe il castello…”. “Quello laggiù, in fondo, accanto all’edificio che si affaccia sul Tamigi”, indicò. Mi sospesi. Respirai profondamente. Poi conclusi: “Deve essere stato terribile… morire per amore”. “Già…”, sospirò, quasi come anche lui fosse morto per la stessa ragione. Lo osservai. Gli aurei capelli gli scendevano disordinati sulle tempie, a tratti rapiti da un color cenere che diveniva argenteo con un gioco di ombre generato dal vento. Scrutava mesto il castello, provando forse ad immaginare cosa si provasse ad esserne prigioniero. Lui, che era libero. Rivolsi nuovamente lo sguardo all’edificio, provando a percepire quell’intima sensazione di terrore di cui era gremito. Non riuscivo a privarmi dell’immagine di quella donna. Eterea, lugubre, silente e vagante tra le mura erette dal suo cuore. Volevo piangere, ma non ne ebbi il coraggio. Senza distogliere lo sguardo dalle buie finestre sbarrate, dissi: “Sembra che amore e morte siano così distanti l’una dall’altra… invece si incrociano quotidianamente”. Mi guardò sorpreso, ma al tempo stesso amaramente consapevole della verità che avevo appena proferito. Il silenzio era divenuto assordante, solo interrotto dal lieve fruscio generato dal Tamigi. La notte era fonda. Alzai il volto. Livide nubi giacevano sul cielo corvino, in attesa di abbandonarsi a Londra. Attraversammo nuovamente il vialetto che ci aveva guidati al castello, giungemmo alla scala dove ci incontrammo. Si assestò. Poi mi sorrise. “Grazie…”, gli dissi. “Non si ringraziano i sogni… sono solo opera tua”. Sorrisi. Gli diedi due sterline. “Prenditi cura di te”. “Lo farò”, risposi.
Posted on: Fri, 30 Aug 2013 05:23:37 +0000

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