Milano, casa Berti. Un sabato pomeriggio di primavera. -Ti sto - TopicsExpress



          

Milano, casa Berti. Un sabato pomeriggio di primavera. -Ti sto osservando da tempo, piccola mia. E credo sia giunto il momento. La nipotina, all’udire quelle inattese e soprattutto incomprensibili parole, volse, stupita, lo sguardo verso sua nonna. Che curvata e malferma le aveva parlato dalla porta della stanzetta, mentre appoggiava una spalla allo stipite color crema. Sembrava attendesse un cenno, anche minimo, per dare seguito a quanto le aveva appena sibilato nel silenzio ovattato di un ordinario pomeriggio metropolitano. Ma Giada, che a quell’ora della giornata era già alle prese con i compiti scolastici, ritornò, disorientata, a guardare sulla sua scrivania. Non si aspettava che la nonna le parlasse; con quelle parole; in quel modo. Non l’aveva mai fatto. E, nel tentativo di guadagnare un po’ di tempo, posò, calma, la penna tra le pagine di un quadernone aperto, che teneva alla sua destra; chiuse un corposo libro che le stava di fronte, su un elegante leggio finemente intagliato, e diresse, nuovamente, lo sguardo verso la nonna. Per cercare di capire di più. Ma questa volta avvitandosi su se stessa, torcendo parte del busto, così da poterla guardare dritta negli occhi. Sgranando i suoi. Come faceva fin da piccina, quando credeva di aver scoperto qualcosa di nuovo nel suo immaginario e fantastico mondo, affollato da maghi merlini e fate turchine postmoderni in 3D. -Momento per cosa…, …nonna?, replicò prudente Giada, che alla sorpresa iniziale si stava andando a sostituire una più ragionevole preoccupazione, visto anche l’inusuale tono con cui la nonna le si era appena rivolta. -Di svelarti il mio segreto…, soggiunse più calma, l’anziana signora, che probabilmente si era resa conto d’aver spaventato la nipotina. -...Da tanto tempo…, forse troppo…, riprese a raccontare sorridendole, infondendole in tal modo un’ulteriore dose di tranquillità -…nascosto a tutti. E custodito, continuò a tono più basso, -tra le piaghe del mio vecchio cuore. Giada, ancora ritorta verso l’anziana parente, sembrava come paralizzata, attorcigliata com’era su se stessa. Posizione che avrebbe potuto mantenere fin quando rimaneva saldamente avvinghiata con la sua mano destra a un’estremità dello schienale ricurvo della pesante sedia tornita. Al cui rilascio sarebbe ritornata con naturalezza all’originaria posizione, come fa una molla quando viene scaricata della necessaria tensione. Ma non era ancora il caso di Giada, pronta com’era ad accogliere nuove rilevazioni. Infatti, agli occhi sbarrati si erano andati ad aggiungere il biancore di due grandi incisivi superiori. Segno, secondo la nonna, che la curiosità doveva averla conquistata. L’anziana signora, però, aveva bisogno di sedersi. E non appena ebbe terminato l’ultima frase, lasciò, a piccoli passi, il solido e lucido stipite che l’aveva tenuta in piedi, ferma, per tutto il tempo di quell’iniziale e breve dialogo, e si diresse, sicura, verso la parte più in ombra della stanza colorata di verde pisello, andandosi a sedere su un angolo del letto a una piazza, che sapeva era troppo basso per le sue dolorose artrosi. -Sei la prima a cui ne parlo, continuò la nonna con voce sofferente, che ormai parlava alle spalle della nipotina, tornata nel frattempo a guardare distratta sulla sua ampia scrivania in noce. -Neanche a nonno Francesco ho saputo dire tutto, continuò misteriosa la donna, abbassando gli occhi sul parquet di mogano, che rivestiva con eleganza inglese il freddo pavimento in marmo della più periferica stanza dell’attico milanese. -Però, disse subito l’anziana signora, in un rinnovato e inaspettato vigore -starmi ad ascoltare non sarà facile, piccola mia. Né breve. -Molti vorrebbero sapere come sono andate per davvero le cose…, aggiunse fiera, dal cono d’ombra in cui si era andata a nascondere, la cui voce le giungeva metallica perché rimbalzava sulla nuda parete che saliva, spoglia, dal retro della scura scrivania in stile impero. -…che qui, a casa tua, chiamano “i fatti”. …Di cui avrai certamente sentito parlare. Magari con frasi spezzate, parole sussurrate, nomi censurati; soprattutto durante le mie brevi ma regolari assenze mattutine. E che riguardano la mia vita. La mia storia. Il mio passato. Giada ascoltava silenziosa quelle enigmatiche e scure parole, seguendo la sagoma di sua nonna riflessa sullo schermo, ormai in standby, del portatile che aveva alla sua sinistra. -E sai perché, piccola mia?, riprese a parlare l’anziana signora, moderando il timbro della voce, che si era fatto, adesso, di una sofferenza non più fisica. -Perché se ne vergognano!, raucheggiò d’un tratto, gettando la piccola in una rinnovata inquietudine. -Ma tutto quello che hai potuto sentire, riprese a raccontare la tremula voce, rallentando il ritmo e frapponendo sonore pause tra una parola e l’altra, -sono solo congetture, …fantasie, …interpretazioni di comodo. Non la verità! La ragazzina, all’udire quell’inquietante ma intrigante premessa, abbandonò, con un guizzo degno di un acrobata, la pesante sedia su cui era rimasta ancora seduta. E si voltò, ritta, proprio di fronte all’anziana parente. Le sembrò quello il modo più adeguato per comunicarle la sua attenzione di cui, secondo la nonna, era ormai divenuta capace. Essere stata scelta tra tutti di conoscere l’inconfessabile confessione era per lei motivo d’orgoglio. La nonna, intanto, resasi conto che solo adesso aveva ottenuto ciò che davvero desiderava, portò le smagrite mani sulle sue addolorate ginocchia, che pochi attimi prima aveva coperte con una mantellina di cotone color ruggine, e, chiusi pesantemente i suoi occhi azzurri, inspirò, lentamente, la più grande quantità d’aria che poté. Poi, emettendola quasi tutta d’un fiato, come fa un reattore spaziale per catapultare il razzo oltre l’atmosfera terrestre per vincerne la gravità terrestre, si gettò nel suo passato remoto. Cieca e a fronte corrugata abbassò il mento fino quasi a toccarsi il petto, su cui poggiava una crocetta di corallo, allacciata a una stringa di cuoio scuro e logoro. Sembrava si fosse inchinata a quel vivace e sacro monile prima di continuare il suo racconto segreto. Che prese subito a svelare non appena ebbe ridato luce all’aggrenzito volto. -Poco più di trent’anni fa stavo per compiere il mio primo mezzo secolo di vita. Se fossi nata pochi mesi prima l’avrei festeggiato sull’isola di Anafi, in Grecia, dove ero appena arrivata con una collega ai primi di maggio. -Dovevamo rimanervi una intera settimana. E nonostante fossimo in primavera ricordo che il caldo non ci lasciò un solo giorno: del resto, eravamo nel bel mezzo del Mediterraneo e non nella nostra Milano. -Quel primo giorno di vacanza era di sabato; com’è oggi. -E non appena attraccammo sull’isoletta, ai margini delle Cicladi, lasciammo subito il molo di San Nicola, per salire a Chora, dove avremmo trovato il nostro albergo. -Il piccolo borgo, l’unico centro abitato dell’isola - anche in estate - era abbarbicato su una collina a più di trecento metri d’atezza. Dalla cima del paesello si potevano vedere, a sud, molti altri isolotti, sparsi a perdi occhio nell’azzurro intenso dell’Egeo. Una cartolina. -E così, subito dopo aver pranzato in albergo, mi avventurai, distratta e senza meta, verso le ancora ignote campagne dell’isolotto; così, tanto per ingannare il tempo, che ad Anafi sembrò come fermarsi di colpo. Andai incontro a basse e aride colline, intervallate da ampie e più verdi radure, che degradavano, tra viottoli e mulattiere deserti, verso la costa sottostante. Non però del lato del porto, a me già nota, moderna e movimentata; ma ad occidente, il cui panorama era decisamente più aspro e solitario. -Camminai per una mezz’ora circa, e dopo qualche altro tornante avrei potuto bagnare le mani nelle ancora gelide acque azzurre del mitologico mare ellenico, che da lontano sembrava calmo e caldo. Forte, infatti, si era fatto il suo fragore, che dall’alto del paese si percepiva appena come uno sciabordio cupo e sordo. E anche il vento, via via che il mare profondo si faceva più vicino, divenne sferzante e carico d’umidità. -Ma un misterioso incidente turbò quell’assolata e solitaria passeggiata mediterranea. Come anche l’intera mia permanenza sull’isola. Una lunga pausa prese il posto delle parole che avevano dato avvio al neonato racconto, frapponendosi, minacciosa, tra le due donne, ancora una di fronte all’altra. Forse l’anziana signora s’era pentita di aver coinvolto la giovane nipote in quella dolorosa e segreta conversazione. E, dopo che ebbe piegato su se stesso un lembo laterale della scura copertina di cotone, la nonna riprese a parlare, del tutto dimentica di quella imbarazzante interruzione. -In realtà…, piccola mia, disse la donna ancora a sguardo abbassato, ha segnato tutta la mia vita. Cambiandomela radicalmente. Giada, ormai catturata da quelle primissime battute, che avevano appena svelato quanto invece doveva ancora lungamente esserle raccontato, abbandonò la severa scrivania, che le era servita fino a quel momento come base d’appoggio, e si andò a sedere sul suo letto, accanto alla nonna che, nuovamente come in trance, riprese a descrivere quel lontano pomeriggio greco e quanto le era così drammaticamente accaduto. -Lo intuii subito…, riattaccò sommessa la donna, abbassando ulteriormente il tono della voce, dopo che ebbe notato la nipotina più vicina. -…Dopo quell’insolito scontro, che mi aveva turbato profondamente fino scuotermi le viscere, venni però come attratta da Lei. Dalla Sua misteriosa presenza. Da Chi contro cui ero andata involontariamente a sbattere, e rovinosamente. L’anziana signora, ritornata a guardare il volto della nipotina da quando aveva cominciato il racconto, continuò più serena: -Sono andata a trovarLa tutti i pomeriggi, in quella settimana. Alla stessa ora. E Lei, sempre allo stesso posto, a pochi passi dal mare profondo; la vera meta di quella prima passeggiata sull’isola; che però non ho mai raggiunto; né quel giorno, né nei successivi. -E non appena Le arrivavo vicino mi fermavo sedendoLe di fronte, finché c’era luce. Volse, dunque, gli occhi inluciditi verso l’unica finestra della stanzetta e, terminata un’altra prolungata pausa, aggiunse: -Ogni sera, all’ora del tramonto, venivo come ipnotizzata dall’incedere calmo e obliquo della Sua ombra... A occhi chiusi, mentre portava la tremante mano destra dalle ginocchia alla fronte, sussurrò: -…che prima lambiva, poi toccava e infine copriva il mio corpo. Fino a velarmi anche volto, quando il sole cominciava ad immergersi nelle lontane acque del mare greco. Era come mi accarezzasse, prima di dissolversi senza forma e colore nella ramata luce del crepuscolo serale. La notte, che in Oriente atterra veloce, cancellava tutto. E io, sulla lontana scogliera, tornavo a sentirmi sola.
Posted on: Thu, 01 Aug 2013 09:01:04 +0000

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