NON CHIAMIAMOLO “DECORO” FEBRUARY 14TH, 2013 Davvero in - TopicsExpress



          

NON CHIAMIAMOLO “DECORO” FEBRUARY 14TH, 2013 Davvero in questa città pare si sia perso il senso del ridicolo. Sembra quasi di vivere nel mondo di Hans Christian Andersen, in quella fiaba che si chiama “Gli abiti nuovi dell’Imperatore”, nella fase in cui tutti vedono il sovrano col pisellino di fuori ma dicono: «Ma che bel vestito ha il nostro re». La memoria storica se n’è evaporata negli anni con sussulti di Alzheimer che contagiano tutti, anziani (che alla peggio ne avrebbero titolo) e, ahimè, anche giovani e neo-veneziani. E che gli irrisolti problemi di sempre, in qualche caso persino ulteriormente aggravati, o non siano più tali, o non siano più così importanti, oppure gravi non lo siano mai stati. Affrontiamo gli spinosi gineprai di due nuovi concetti veneziani, “decoro” e “venezianità”, ben diversi dalle più note ed accettate categorie “educazione/maleducazione” e “patria/radici”. Età e memoria ci aiutano a testimoniare la Venezia di “prima” di queste due spiritose invenzioni, circa 50 anni fa. Venezia era una città fatiscente, con molti palazzi ridotti ad affollati condomini popolari, le vaste zone “off-limits”, il problema del “bagno in casa”, i residui della più fedele compagna della città negli ultimi centocinquan’anni: la miseria. Sopravvivevano gli ultimi casi di pidocchi e di pellagra, i “burchianti” dormivano ancora sotto-prua alla Misericordia; c’erano le ultime “tabacchine” (operaie della Manigfattura Tabacchi) e le “impiraresse” (le donne che infilavano le perle); l’Arsenale era ancora in funzione e vi si lavorava a riparare navi; gli squeri inondavano la città col tanfo della pece in ebollizione; i funerali di prima classe avvenivano sulle caorline a remi con le grandi statue dorate ormeggiate davanti alla Madonna dell’Orto; le “scoasse” galleggiavano nei canali dopo il fatidico volo dalle finestre spalancate, «che tanto, sie ore cala, sie ore cresse”. Quei canali venivano spesso scavati, con inevitabile puzzo di fogna: perchè a Venezia -tutti lo sanno e tutti fanno finta di non saperlo- le fogne non ci sono, e qualsiasi liquame finisce inevitabilmente in canale. Tant’è che lo storico divieto di balneazione nei rii -l’osservatore attento in giro per i remoti angoli della città ne scoprirà ancora oggi qualche antico, sbiadito cartello- aveva essenzialmente significato sanitario a protezione del bagnante; ed oggi è frainteso: chi mette i piedi a bagno in canale “manca di rispetto alla città”, mentre se piscia nel bagno dell’albergo a 5 stelle, nella tazza ceramica il cui scarico è collegato a quello stesso canale, quello è decoro. Dimenticando peraltro che uno dei massimi monumenti alla civiltà umana, di cui Venezia è stata privata da “lungimiranti” amministratori, fu introdotto da un eccelso imperatore romano di nome Tito Vespasiano, della gens Flavia, l’inventore del Colosseo e della tassa sulla pipì selvaggia. In quegli anni non c’era turismo di massa, a Carnevale non c’erano maschere e i ragazzini tiravano la farina; c’era poco lavoro, e la gente aveva ripreso a trasferirsi in Terraferma, dove le case (brutte ma col bagno) c’erano, il lavoro (magari al Petrolchimico) c’era. Comperare una casa a Venezia non era affatto un problema. Quella era la Venezia degli ultimi sprazzi del “pittoresco” in cui si diventava vecchi a trent’anni, si veniva ricoverati all’Ospedale Civile in sala comune, un unico, enorme stanzone (il grande corridoio delle celle dei frati), e si moriva ancora di fame. Del crepuscolo di quell’epoca “dorata”, con i casini che non riuscivano ad accogliere tutte le disgraziate che aspiravano a lavorarci, oggi si ricordano solo il “vivace” popolo veneziano, i campi affollati e vocianti, le mille botteghe e i mille mestieri, le presunte “antiche” tradizioni (che quasi sempre “antiche” non erano affatto). Ma se ne dimenticano, tra le mille altre cose, gli ammorbanti odori e i fragorosi rumori delle fucine dei fabbri e dei laboratori dei marangoni tra le case. Non c’era moto ondoso, il prezzo del biglietto del vaporetto era alla portata di chiunque, i piloti dell’Acnil ormeggiavano con precisione svizzera e tocco gentile, il cielo a Piazzale Roma era reticolato dai cavi delle filovie, il PM10 non era ancora stato inventato, e quel che rimaneva della grande famiglia delle “barche tipiche lagunari” aveva i remi ed era di legno: quelle “tradizionali” di oggi sono pattanelle Brube in VTR ed hanno il 25 cavalli. “Per fortuna” è capitato il 4 Novembre 1966. L’inesorabile macchina del “disaster business” che ha per combustibili i “nobili scopi” e le “buone intenzioni” (di cui è lastricata una affollatissima strada) ha inondato per cinquant’anni Venezia con l’alluvione di centinaia di migliaia di miliardi. La città ne è stata inevitabilmente e irreparabilmente drogata, producendo classi nuove, neoricchi e loro mezzani, neo-nobiltà e neo-cultura. E un’assuefazione al denaro che ha funzionato da amplificatore logaritmico e l’ha brutalmente trasformata a senzo unico. In questa epocale distorsione, si sono riscritte memoria e storia, e sono stati inventati concetti nuovi, come appunto “venezianità” e “decoro”. Il primo, a tentare di mettere una ipocrita pezza allo strappo esistenziale ed emotivo di decine di migliaia di veneziani “spediti” nelle oscure campagne di un palestinizzato hinterland, e ormai disconosciuti e dispersi; e con la conseguente usurpazione – da parte degli espulsori – del ruolo di eredi unici e universali di qualsiasi cosa – storia, arte, cultura e relativo diritto di riscriverle e riscuoterne – sia appartenuta ai mille anni della Repubblica. O fasulla, ma ad essa verosimilmente attribuibile. Il secondo, invenzione snob della “Stagione delle Contesse” proprio in quegli anni di post-alluvione. Con la nascita dei “comitati per salvare Venezia”, i salotti “buoni”, la riemersione dei residui di un patriziato veneziano che aveva fatto di tutto per farsi giustamente dimenticare, e che viceversa tornava a lustrare le sue patacche, come quei titoli di conte e contessa acquistati a poco prezzo alle bonarie bancarelle viennesi dei funzionari di Checcho Beppe. L’afflato di quella generosità “pelosa” in soccorso della “grande patria” e della “grande civiltà” produsse indubbie cose buone, ma determinò un salto di qualità nel meccanismo di ricondizionamento urbano-sociale di Venezia. Con il nuovo concetto di “decoro” degli “eredi unici” della venezianità si promuoveva infatti su scala urbana un concetto piccolo borghese domestico, che seppur corrispondesse originariamente all’autoidentificazione veneziana mediante la proprietà immobiliare, era stato banalizzato. Non si pensava che avrebbe potuto funzionare, ma invece andò alla grande. La svolta fu talmente radicale da determinare l’immediato impoverimento della biodiversità sociale e il susseguirsi di alcune nuove specie dominanti, esattamente come negli stagni dei Quark di Piero Angela. La Venezia di oggi nasce esattamente allora. Si ascrissero a queste nobilitate classi di veneziani “proprietari immobiliari”, (retrodatandoli) meriti e qualità mai posseduti prima, attribuendo valori e valenze definiti “tradizionali” ma che erano stati inventati appena il giorni innanzi; generalizzando e storicizzando alcune ridicole velleità in tema di costume e moralità veneziani. Con le Leggi speciali ci si guardò bene dal “salvare Venezia” (tant’è che il Mose è ancora d’attualità 40 anni dopo la sua invenzione, e il problema dell’acqua alta è ancora allo stesso punto di quel tempo), ma si sono fatti grandissimi affari, sia a livello immobiliare sia a coronamento di “cartelli” e “monopoli” che oggi sono i veri padroni della città, tanto a livello anagrafico che sociale . Oggi che la cuccagna è finita si piange: dopo aver vissuto “da siori” per trent’anni -e il capitale messo prudentemente al sicuro- il futuro non appare più tanto roseo e garantito. Fu in quegli anni che si perfezionarono concetti come “tu-in-casa-mia” e “tu-ospite”, e soprattutto si scoprì la necessità di “difendere” Venezia da non meglio identificati “nuovi barbari”. Fatto salvo “turarsi il naso”, quando serviva. Abitazioni meglio chiuse, che «tanto, da come sta andando la Borsa, il mattone di pregio tira, tira…», e l’immobile aumenta sempre più di valore, senza farci nulla. Non importa se la città non è più viva e non è più usabile da un suo popolo che la possa riadattare continuamente a sè; la si è preferita conchiglia sterilizzata e museificata, il cui valore auratico goethiano è stato esaltato e stereotipato in funzione del marketing: ricercando un’immagine “colta” e “civilissima” per un suo più efficiente ed organizzato sfruttamento economico, e a salvaguardia dei vari, piccoli, potentissimi monopoli. Con tentativo di scrematura selettiva della classe utente. Già in antico, di queste “sporche” operazioni i veneziani ne fecero di analoghe, per altri scopi o per assecondare altre opportunità, smobilitando e sloggiando tutti gli squeri del Canal Grande, esiliando i vetrai veneziani a Murano, facendo nere tutte le gondole, vietando i merletti, o marginalizzando le prime industrie nei più remoti angoli di Cannaregio, Dorsoduro, Castello, o espulse alla Giudecca. Dall’alluvione del ’66 è prevalsa la logica dei “tre porcellini”: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Ed è appunto la categoria dei “tre porcellini” che è la più sfegatata a difendere il “decoro” e a propugnare la propria vantata “venezianità”. A distanza di tanti anni dall’origine del fenomeno, ha buon gioco quindi quella fetta di città arroccata nei suoi privilegi e difesa dai suoi recenti crociati. Si sa che col passare del tempo la memoria si affievolisce e si mescola; ed avviene esattamente come nel sincretismo religioso o nelle deviazioni della semantica: una cosa che prima era mia adesso è diventata tua, e se prima voleva dire “A”, adesso vuol dire “B”. Va detto che se esiste -anche storicamente- e sopravvive linearmente una sola qualità del “veneziano”, questa è certamente la tolleranza. Virtù “bassa”, però, perchè -nella fattispecie- deriva da due fattori: il “menefreghismo” e l’”opportunismo”. Civiltà mercantile e bizantina, Venezia fu ancor più pragmatica -se mai fu possibile- dell’Inghilterra. Le logiche di “profitto” e di “minima perdita” valsero tanto per gli affari quanto per la politica e l’etica (pensiamo ai turchi). Con l’unico scopo di riuscire a “guadagnarci comunque” e di “sopravvivere comunque”. Quanto alle altre conclamate “serenissime virtù” che rimbombano in taluni consessi, ricordiamo Giordano Bruno ospite a Venezia, impacchettato proprio dal suo anfitrione Mocenigo e consegnato da costui al rogo dell’Inquisizione, e Francesco Morosini, il “Peloponnesiaco”, celeberrimo ammiraglio e poi doge, a cui si deve la realizzazione dei frammenti del timpano di Fidia del Partenone – da lui fatto bombardare e saltare in aria – conservati al British Museum. O a Carlo Goldoni lasciato a patire la fame -e a morire- nella soffitta di rue Pavé-Saint-Sauveur a Parigi. O a tutte le luci e le ombre di una civiltà e di uno Stato che non siamo più noi e che non c’era già più quando iniziarono ad udirsi dalla piana e dai lidi le lontane note della Marsigliese del perfido ex-caporale dell’isola dei pirati tirreni. Sergio Dall’Omo
Posted on: Thu, 04 Jul 2013 04:23:31 +0000

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