PALESTINA - ISRAELE L’acqua “Se le guerre del XX secolo - TopicsExpress



          

PALESTINA - ISRAELE L’acqua “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto del contendere l’acqua” (1995) (vicepresidente della Banca mondiale Ismail Serageldin) Oggigiorno molte prime pagine di quotidiani fanno presagire che Serageldin ha avuto tuttavia ragione; infatti, si parla sempre più spesso d’insufficienza idrica in Israele, India, Cina, Bolivia, Canada, Messico, Ghana e Usa. Che si tratti d’Israele o dell’India, è innegabile che la contesa si sollevi riguardo alle scarse ma vitali risorse idriche e, spesse volte, le ragioni dei molteplici conflitti basati su queste sono celate da chi controlla il potere che preferisce far passare le guerre per l’acqua come conflitti etnici e religiosi. Prendendo ancora spunto dalle riflessioni della Shiva, qualcosa di simile è successo riguardo alla contesa di terra ed acqua tra palestinesi, arabi ed ebrei: “uno scontro sulle risorse naturali è presentato come un conflitto di carattere principalmente religioso tra musulmani ed ebrei”. Inoltre, le particolari condizioni climatiche rendono alcuni tratti del Medio Oriente aridi e a forte rischio idrico, quindi l’acqua è a maggior ragione un fattore strategico che comprende al proprio interno altri elementi importanti come l’aumento demografico, la crescita industriale/economica e il controllo del territorio. Come vedremo, la guerra per l’acqua in Medio Oriente viaggia su diversi livelli: quello militare riguardante gli episodi di natura bellica arabo-israeliani, che ha puntato alla conquista o alla difesa di obiettivi vitali come fiumi, laghi, zone fertili, pozzi, falde sotterranee. Quello gestionale, relativo agli aspetti amministrativi successivi alla vittoria dello Stato israeliano, che si concentra a propria volta sulla costruzione di acquedotti, reti fognarie e sulla tariffazione del consumo idrico (domestico, agricolo, industriale). Quello tecnologico che si sofferma sia sulle evolute tecniche adoperate dallo Stato ebraico per riutilizzare le acque reflue (attraverso la dissalazione in centrali termoelettriche) sia sui semplici metodi adottati dai palestinesi al fine di poter di riutilizzare la stessa acqua, almeno quattro volte. In sintesi, la questione delle risorse idriche si colloca su uno sfondo che mira al controllo del territorio, all’aumento demografico e alla crescita economica. Tanto è vero che gli stessi Accordi di Oslo (1993-1995) non potranno fare a meno di prendere in considerazione anche questo delicatissimo aspetto. Le aree che presentano elevati problemi legati al deficit idrico in Medio Oriente sono definite dalle riviste di geopolitica Water Stress Zone, perché ad elevato tasso d’ostilità riguardo alle risorse disponibili. Nel proprio saggio, intitolato “L’impatto delle scarse risorse idriche nel conflitto arabo-israeliano” (1992), Wolf analizza, attraverso la storia della regione, il ruolo che l’acqua ha avuto sia sulla localizzazione degli insediamenti umani sul territorio, sia le successive tensioni politiche sorte tra i paesi rivieraschi. Quindi, un valido motivo di scontro è da ricercare nel timore di perdere ulteriormente risorse idriche, al momento limitatissime per gli arabi, e nella volontà di gestirne quante più possibili da parte israeliana. Altro aspetto da non trascurare riguarda le dimensioni territoriali che, in zone così aride, non sempre assicurano benessere; infatti, avere chilometri quadrati a disposizione non è sinonimo di ricchezza idrica in Medio Oriente. Non si dimentichi che il 40% del territorio situato a Sud d’Israele è formato dalla sabbia del deserto del Negev e che l’acqua dolce, in Palestina, si trova invece verso Nord al confine siro-giordano, sulle cosiddette Alture del Golan, dove nasce il più importante e conteso fiume della Palestina/Israele, il Giordano. Dunque, va da sé che i 12.800 chilometri quadrati di deserto sarebbero totalmente inutili ad Israele se non fosse stato possibile prelevare l’acqua del fiume, attraverso delle speciali condutture che ne deviano il corso. Come si vedrà in seguito, la volontà di deviare il flusso naturale del fiume acuirà il conflitto in Medio Oriente e, nel tempo, si scateneranno delle guerre che possiamo catalogare a ragione come “guerre per l’acqua”. Percorso geografico che segue il letto del Giordano Nasce dal monte Hermon, a 2700 metri d’altitudine nella catena montuosa dell’anti Libano al confine tra Siria e Libano, è lungo 320 chilometri e raggiunge le Alture del Golan da dove riscende arricchito da tre affluenti, il Dan, l’Hasbani e il Baniyas. Solo il Dan è nello Stato israeliano sin dalla sua fondazione, l’Hasbani si trova in Libano e il Baniyas nel territorio siro-giordano che Israele strappò nel 1967. Ingrossato da questi tre fiumi, il Giordano forma il bacino minore dell’Huleh e dunque sfocia nel lago Tiberiade; da qui riprende il suo percorso, ancora una volta arricchito da tre affluenti, l’Hared, lo Yabis e il più grande Yarmuk, fino a disperdersi nel caldo e salatissimo Mar Morto. Nel corso del tragitto, sono operati ingenti prelievi e ciò spiega perché soltanto 1850 milioni di metri cubi annui si riversano nel Mar Morto. Il suo bacino forma un gran sistema idrico che si estende dalla Turchia asiatica del sud fino all’Africa nord-orientale e include la valle di Beqaa in Libano, il Mar di Galilea (lago di Tiberiade), la valle del Giordano e il Mar Morto. Nonostante l’unitarietà geologica, il bacino è politicamente e geograficamente diviso tra quattro Stati: Siria, Libano, Israele, Giordania e dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania (Mattera, 1994). La vera ricchezza del fiume è racchiusa nella parte alta, “Alto Giordano”, sia perché esso è lì al massimo della propria potenza sia perché non è stato ancora corrotto dall’alta salinità del Mar Morto che ne rende l’acqua inutilizzabile ma anche perchè solo nella parte alta è possibile usare “l’arma” della deviazione del letto del fiume contro gli Stati che si trovano in posizione inferiore, i downstreamers. Necessità e bisogni a confronto Attualmente, il problema legato all’insufficienza idrica in Medio Oriente è gestito e percepito in maniera diversa dai paesi coinvolti, Israele, Palestina (Gaza e Cisgiordania) e Giordania. Nel dettaglio: Israele è per lo più preoccupato di non far subire contraccolpi pesanti al proprio apparato industriale, qualora fosse costretto a limitare l’utilizzo dell’acqua dolce; questi eventuali contraccolpi andrebbero a ritorcersi sulla crescita economica del paese; infatti, il problema derivante da un minore utilizzo dell’acqua resterebbe puramente economico, perché lo Stato ebraico gode di sufficiente quantità d’acqua per la propria agricoltura e per i bisogni dei propri abitanti che non avvertono affatto la drammaticità della situazione o un’imminente penuria idrica. L’agricoltura israeliana è intensiva: dal 1948 ad oggi, sono stati piantati oltre 200 mila unità d’alberi e, di conseguenza, è aumentata la flora sul territorio del 6,5% (compresa quella delle aree desertiche, ma il principale problema provocato da tale irrigazione continua è, come vedremo, l’accumulo di sali negli strati superiori del terreno che possono ostacolare o impedire la crescita delle piante e/o diminuire la fertilità. Dunque, come vedremo in un successivo paragrafo, lo Stato ebraico comincia a prendere delle serie contromisure per limitare lo sfruttamento eccessivo d’acqua dolce ed eventualmente poter riuscire a riciclare quella adoperata per l’agricoltura e per l’industria attraverso la moderna tecnica di rigenerazione delle acque reflue. Questo sia per il rischio legato all’aumento della salinità in terre fertili sia per quello relativo all’impoverimento delle falde acquifere, sia infine per quello legato all’inquinamento da pesticidi e fertilizzanti. La Palestina (Cisgiordania e Gaza), al contrario, non si preoccupa che l’industria o che la crescita economica possano risentire della mancanza d’acqua, bensì della sua disperata condizione di semi assetamento a causa della quale non è possibile coltivare le terre ed, ancora peggio, soddisfare le esigenze vitali dei propri abitanti. Amnesty International ha recentemente accusato Israele di negare ai palestinesi il diritto ad un adeguato accesso all’acqua, poiché mantiene il controllo incondizionato e totale delle risorse idriche e mette in atto politiche discriminatorie, concepite per limitare la disponibilità d’acqua e impedire lo sviluppo nei Territori palestinesi occupati. Donatella Rovera, ricercatrice di Amnesty International, ha dichiarato: “Israele consente ai palestinesi di accedere solamente a una piccola parte delle risorse idriche comuni che si trovano per la maggior parte nella Cisgiordania occupata, dove invece gli insediamenti illegali dei coloni ricevono forniture praticamente illimitate”. Sempre secondo Amnesty International, se il consumo giornaliero di acqua dei palestinesi raggiunge a stento i 70 litri a persona quello degli israeliani è superiore a 300 litri, quattro volte di più. Anzi, in alcune aree rurali, i palestinesi sopravvivono con solamente 20 litri al giorno, cioè la quantità minima raccomandata per uso domestico in situazioni di emergenza. Circa 180.000/200.000 palestinesi che vivono in comunità rurali non hanno accesso all’acqua corrente e l’esercito israeliano spesso impedisce loro anche di raccogliere quella piovana, che i palestinesi raccattano adoperando delle piccole cisterne posizionate sopra i tetti delle case. Al contrario, i coloni israeliani che vivono in Cisgiordania hanno fattorie con irrigazioni intensive, giardini ben curati e piscine. Nella Striscia di Gaza la situazione è peggiore a quella della Cisgiordania. La falda acquifera della Striscia fa parte, da quando fu occupata nel 1967, della falda costiera d’Israele; di conseguenza il rifornimento idrico a Gaza dipende totalmente dalla generosità dello Stato ebraico. Gaza vanta purtroppo una drammatica situazione idrica; infatti, a causa dell’aridità del suolo, soltanto il 13% dei terreni è coltivabile e la piovosità ha una bassa media annua che varia da 150 millimetri a 400 millimetri, media che addirittura peggiora nel Sud della Striscia. Non essendoci fiumi permanenti, ma solo wadi, cioè letti naturali che permettono la nascita di corsi d’acqua temporanei, l’approvvigionamento idrico dipende in massima misura dalle piogge. Inoltre, a causa dei rigorosi divieti, controlli e posti di blocco imposti negli ultimi anni dal governo israeliano, preoccupato di eventuali ritorsioni terroristiche arabo-palestinesi, si rallenta fortemente alle frontiere l’arrivo di beni necessari per la sopravvivenza della popolazione, comprese le cisterne d’acqua trasportate dai camion. Per far fronte alla carenza d’acqua e alla mancanza di impianti di distribuzione, molti palestinesi sono dunque costretti ad acquistarla dalle cisterne mobili i cui corrieri, obbligati ad allungare il percorso per evitare i posti di blocco, aumentano necessariamente il costo dell’acqua alla popolazione dell’intera Striscia per recuperare le spese derivanti da un maggior consumo di carburante. In Giordania, il territorio prevalentemente desertico determina una scarsa presenza di vegetazione e il principale problema di tale regione è proprio quello relativo alla carenza idrica; il territorio giordano è infatti particolarmente arido e la poca acqua disponibile è per lo più impiegata in agricoltura. La scarsità di terreni coltivabili e l’aridità del paese limitano molto la produzione agricola; infatti, solo il 4,5% del territorio è coltivabile e solo una piccola percentuale dei terreni coltivati è irrigata. Tale situazione si è venuta a creare a causa dell’atteggiamento negativo d’Israele che, imponendo il proprio diktat, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni e successiva occupazione delle Alture del Golan nel ’67, ha ridotto notevolmente la disponibilità d’acqua dolce alla Giordania e peggiorato quindi le condizioni del paese. Il flusso del Giordano che può essere utilizzato dal Paese è molto limitato; infatti, i prelievi massicci da parte di Israele, riducono la portata del fiume e lo rendono oltremodo salino, tale da non poter essere impiegato in agricoltura; pertanto la principale fonte di risorse idriche è costituita dall’affluente Yarmouk che rappresenta il 40% delle acque di superficie (Ferragina 2002). Dunque, è lecito a questo punto chiedersi com’è possibile che lo Stato sul quale scorre buona parte del fiume più importante e grande del Medio Oriente sia ridotto in condizioni tali da non poter soddisfare neanche la domanda alimentare e coltivare le proprie terre? La risposta è in parte rintracciabile nella perdita di territori importanti per le coltivazioni che, a sua volta, ha determinato un forte calo della percentuale dei lavoratori impiegati nel settore, passata dal 37% del 1965 al 6% del 1993. La zona occidentale, prima del conflitto con Israele, garantiva serenamente il 25% del grano, il 70% della frutta e il 40% degli ortaggi per il paese, e contemporaneamente anche l’industrializzazione, avviata su piccola scala all’inizio degli anni Sessanta, raggiungeva un buon livello di sviluppo (Fonte: Dossier di Legambiente). Tuttavia, la perdita di questa zona ricca d’acqua ha comportato per la Giordania anche la diminuzione di circa un quinto delle attività industriali. Alla luce di quanto sinora detto, è chiaro che la situazione in questi Paesi mediorientali poveri è costantemente stressata dal pensiero che non vi sia acqua sufficiente ed è chiaro che la conseguenza diretta di tale insufficienza possa compromettere ulteriormente le già stentate condizioni della popolazione. Non è dunque contraddittorio pensare che qualsiasi negoziato di pace tra l’Autorità Palestinese e lo Stato d’Israele, oltre a concentrarsi su aspetti di natura politica e territoriale, deve necessariamente tener conto dell’impari accesso alle risorse idriche che i palestinesi (Cisgiordania e Gaza) e i giordani subiscono per volere israeliano; infatti lo Stato ebraico nega il diritto all’acqua, lo stesso per cui ha lottato, a popolazioni arabe che invece ne godevano serenamente, prima che Israele s’impadronisse attraverso l’uso della forza di tutte le risorse idriche della regione. Progetti di diversione fluviale in Palestina: come nascono le guerre per l’acqua Già nel 1919, Chaim Weizman (sionista, politico e chimico israeliano nei primi anni della nascita dello Stato d’Israele) scrisse al primo ministro inglese Lloyd George che “il futuro economico della Palestina, nel suo complesso, dipende dal suo approvvigionamento d’acqua per l’irrigazione e per la produzione di energia elettrica”. Sin da allora, infatti, si ambiva ad inglobare nel futuro Stato, oltre alla Palestina, il Golan, i Monti Ermon in Siria, il Sud del Libano con il suo fiume Litani e la riva Est del fiume Giordano. I motivi principali che da sempre sono causa dell’inadeguatezza delle risorse idriche in Palestina dipendono da diversi fattori: Le limitate precipitazioni che si concentrano in brevi periodo dell’anno. Il clima particolarmente caldo, complice dell’evaporazione delle acque superficiali. La particolare disposizione montuosa dalla quale nascono i grandi fiumi e gli affluenti minori che è purtroppo concentrata solo in una parte del paese. Arrivati in Palestina sin dai primi anni del’900, gli ebrei delle prime aliyà, impegnati nella costruzione dei primi insediamenti, dovettero da subito affrontare il problema legato alla scarsità d’acqua dolce. Più industrializzati e tecnologicamente più evoluti degli antagonisti arabi, elaborarono nuove strategie per poter impiegare al meglio l’acqua del fiume Giordano; infatti, nel 1926, l’Organizzazione sionista fondò una compagnia elettrica che riuscì nell’impresa di poter deviare parte dei corsi d’acqua del fiume Giordano e del suo affluente maggiore Yarmuk verso un lago artificiale, al fine di produrre energia idroelettrica. Gli arabi non accettarono mai i tentativi dei nuovi venuti di avvantaggiarsi di parte delle risorse idriche e, fin da allora, la battaglia per l’acqua è stata giocata senza esclusione di colpi tra tutti gli Stati rivieraschi, diventando una tra le cause primarie dei conflitti in Medio Oriente. Le ostilità riguardo al fiume Giordano derivano soprattutto dal forte gap tecnologico tra Israele e gli Stati arabi che a loro volta hanno sempre accusato lo Stato ebraico di sottrazione d’acqua impropria, eccessiva ed ingiusta, ovvero di “over pumping”. Nei fatti, i primi veri scontri per l’acqua tra arabi ed ebrei ebbero inizio nel ’53, quando Israele istituì il National Water Carrier Project, cioè il piano per la costruzione di una conduttura idrica sotterranea lunga 130 chilometri che doveva far arrivare l’acqua del fiume Giordano fino al deserto del Negev, al fine di “farlo fiorire”; questo piano andava a completare i due progetti precedenti che, come vedremo, portavano il nome degli ingegneri che li avevano preparati: Lowdermilk e Hayes. Per realizzare tali imprese era però necessario deviare il corso naturale del fiume Giordano e parte del suo affluente Yarmouk, limitando parecchio l’uso delle risorse idriche ai nativi arabi. Pertanto, questo progetto da 150 milioni di dollari, che ha richiesto dieci anni di lavori per essere ultimato e che ha cominciato le proprie azioni di pompaggio nel 1964, incontrò da subito la ferma opposizione da parte dei paesi arabi confinanti che vedevano in esso due minacce: la prima, che la deviazione del fiume avrebbe penalizzato non poco la loro agricoltura; la seconda, che avrebbe accresciuto notevolmente le potenzialità economico-industriali israeliane e con esse la capacità d’Israele di assorbire nuove ondate migratorie. Di conseguenza, una volta cominciate le operazioni di pompaggio israeliane, la Siria e la Giordania intrapresero, sempre nel 1964, la costruzione di dighe sullo Yarmouk e la deviazione dell’affluente minore del Giordano, il Baniyas, col fine di poter trattenere l’acqua a monte del Lago di Tiberiade (da una posizione upstreamer) e cercare così d’impedire ad Israele di prelevarla per primo. Israele condannerà l’atteggiamento siro-giordano e bombarderà i lavori, da poco cominciati, di diversione dell’affluente del fiume Giordano, il Baniyas. Da quanto detto sinora, si comprende come il fiume Giordano sia la risorsa acquifera superficiale più importante in Terra Santa: da questo dipendono i bisogni primari delle popolazioni residenti, l’irrigazione delle colture, ed anche il grado di sviluppo industriale poiché le industrie, nei contesti societari attuali, hanno molto più bisogno d’acqua di quanto non si immagini. Si pensi ad esempio che servono 10 litri d’acqua per produrre un litro di benzina o addirittura 100.000 litri d’acqua per produrre una tonnellata di alluminio (fonte: associazione H2o, h2o.it/). Di conseguenza, dato che una delle aspirazioni sioniste è stata sempre quella di poter concepire un’entità statale moderna in Palestina, una delle primissime strategie di fondo, del futuro Stato israeliano, fu quella di risolvere la questione idrica attraverso i cosiddetti piani per lo sviluppo del bacino del Giordano. Il Piano Lowdermilk Piano che prende il nome dall’ingegnere idraulico che lo pianificò nel 1944 e che ambisce alla gestione delle acque del Giordano simile a quella americana nel bacino della Tennessee Valley. Anche in Israele, come negli Usa, la gestione del bacino sarebbe servita per lo sviluppo dell’apparato industriale, per l’incremento della produzione di energia elettrica e per garantire lavoro e standard dignitosi di vita ad eventuali nuove immigrati ebrei; tuttavia, gli elevati costi per la realizzazione e la difficile situazione politico-militare, alle soglie del primo conflitto arabo-israeliano, non portarono al compimento di quest’ultimo che tra le altre cose prevedeva l’utilizzo e la deviazione delle acque dell’affluente del Giordano Yarmuk, da sempre controllate dalla Siria e dalla Giordania, e del fiume libanese Litani, il che rappresentò ulteriori ostacoli. Il Piano Hayes Questo nuovo Piano del 1948 può essere considerato come la prosecuzione del precedente e non attuato Lowdermilk. L’intelligence sionista, sempre più motivata ad investire ingenti capitali per la costruzione di un apparato idrogeologico, sia per poter aumentare la produzione di energia elettrica sia per poter far giungere l’acqua nel deserto del Negev e quindi aumentare la produzione agricola, credeva fosse giunto il momento per chiedere la collaborazione ad uno degli ingegneri americani direttamente coinvolti nella realizzazione della precedentemente menzionata T.V.A. (Tennesse Valley Authority); l’ingegnere Hayes appunto. Anche quest’ultimo non seppe proporre progetti alternativi, poiché l’unico modo per incrementare la portata del Giordano e la capacità del lago di Tiberiade, al fine di poterlo utilizzare come una diga naturale, era anche in questo caso quello di deviare i corsi d’acqua dello Yarmouk che, com’è facile prevedere, sarebbe stata una valida ragione di scontro con le nazioni arabe rivierasche. Nello specifico, il progetto aspirava a deviare metà della portata dell’affluente Yarmouk nel lago di Tiberiade per recuperare l’eventuale perdita del fiume Giordano contemporaneamente deviato, sempre per volere ebraico, verso il deserto del Negev a discapito della popolazione araba (siriani, trans giordani e giordani) da millenni là risiedente. Ma i tempi per la deviazione del fiume Giordano e per la realizzazione di quell’opera idrico-ingegneristica, che passerà alla storia come National Water Carrier Project e che sarà in grado di far letteralmente “fiorire il deserto”, si dimostreranno maturi solo alla vigilia della famigerata Risoluzione di spartizione 181 della Palestina, che terrà conto di assegnare al nascente Stato ebraico non solo una maggiore fetta di terra (per l’esattezza il 56% ad una popolazione ebraica residente che rappresentava appena il 7% totale sul territorio complessivo), ma anche quei punti strategici che permetteranno di poter avere uno sbocco diretto sulle risorse idriche d’acqua dolce del paese in posizione di upstreamer; tanto è vero che l’allora presidente dell’Organizzazione mondiale sionista, Chaim Weizman, si complimentò con coloro i quali si premurarono di elaborare i piani della spartizione poiché, in base ai confini stabiliti, notava compiaciuto che avessero ben preso in considerazione i precedenti progetti di raccolta idrica Lowdermilk e Hayes. Nel tempo, il National Water Carrier Project (la cui inaugurazione risale al 1964) otterrà sempre maggiori successi e traguardi, costruendo un sofisticato sistema di pozzi, canali, tunnel, grazie ai quali trasportare l’acqua del Giordano in tutti i centri abitati del paese e da dove poi dirigerla verso le colture e le industrie. Il N.W.C.P. trasporta quindi acqua dolce per distanze che vanno fino a 130 chilometri, riuscendo a soddisfare i bisogni dell’intero Stato d’Israele. In sintesi è così organizzato: la pompa principale si trova nel Lago di Tiberiade, da qui l’acqua viene smistata verso la capitale Tel Aviv che a propria volta mette a disposizione i tre acquedotti principali, uno diretto verso Est, uno verso Ovest e uno direttamente indirizzato sulla città (Mattera 1995). Il Piano Johnstone la contromossa siro-giordana Non è un caso che il primo conflitto arabo-israeliano (1948) scoppierà lungo le rive del Giordano. Le motivazioni dei due fronti sono ovviamente opposte, e nello specifico: Quella araba sosteneva che le acque non dovevano subire alcuna deviazione ma dovevano continuare a rendere fertili le terre dalla Valle del Giordano; quella israeliana che insisteva invece nella costruzione di un grande impianto idrico sotterraneo e di deviazione del corso del fiume Giordano che raggiungesse il deserto del Negev. Quindi, nel 1953, a cinque anni dalla Prima Guerra arabo palestinese-israeliana, gli attriti relativi alla risorsa acqua, sorti in seguito alla progettazione israeliana dei piani (Lowermilk, Hayes), coinvolsero l’intervento degli Usa i quali si premurarono di inviare un emissario del presidente Eisenhower sul luogo; Johnston Eric. Secondo lo storico Hadawi Sami, quando Johnston raggiunse il Medio Oriente, non aveva con sé un piano o un progetto idrico da offrire, bensì una proposta su ciò che in linea di massima poteva essere fatto per negoziare l’accesso alle risorse idriche tra ebrei ed arabi; questo aspetto è sottolineato in quanto lo Stato ebraico aveva più volte sostenuto che il progetto di deviazione del Giordano fosse conforme al ‘fantasmatico’ “Piano Johnston”. Costui presentò un’idea denominata Unifield Development of Water Resources per cercare di trovare una soluzione accettabile al problema che fu tuttavia rifiutata sia dai paesi arabi coinvolti sia da Israele. Nei fatti, proponeva che il 60% delle acque andasse al Libano, alla Siria e alla Giordania mentre il restante 40% fosse destinato interamente ad Israele. Gli arabi non lo accettarono in quanto quest’accordo incorporava l’implicito riconoscimento dello Stato israeliano, ancora a 5 anni dalla sua nascita, e quindi ignorava completamente la natura “politica” del problema; mentre gli israeliani non lo accettarono perché prevedeva una minore possibilità di consumo d’acqua rispetto alle loro pretese/esigenze, ed in particolare la condivisione del fiume libanese Litani. In breve, la “Proposta Johnston” considerava le già menzionate entità politico-territoriali della zona come semplici aree rivierasche che avrebbero dovuto mettere in comune le proprie risorse idriche indipendentemente dalla difficile situazione geopolitica del tempo; gli arabi, dal canto loro, non persero occasione nell’affermare che, risolvendo la questione idrica israeliana dalle alture del Golan (dove nasce il fiume Giordano) fino al deserto del Negev, si sarebbe facilitato l’ingresso di parecchi milioni di nuovi coloni ebrei a discapito dell’imminente questione palestinese e conseguente rimpatrio, questione che, da appena cinque anni, si era energicamente imposta sul panorama geo-politico medio orientale. Pertanto, già nel 1949 una speciale Missione Economica di Studio dell’O.N.U. dichiarò inattuabile la spartizione delle acque del Giordano fra Israele e Stati arabi, senza aver prima risolto il problema palestinese nella propria totalità; infatti: “Senza un accordo di pace fra Israele e Stati limitrofi sulle questioni fondamentali del rimpatrio e dell’indennizzo dei profughi arabi e dei confini territoriali, è irrealistico immaginare che le parti possano negoziare un accordo sulla complessa questione dei diritti internazionali sulle acque… Qualunque promessa possa contenere il pieno sviluppo del sistema del Giordano per il miglioramento delle condizioni di vita e della produttività economica del Medio Oriente. Questo deve attendere che vi sia il desiderio reciproco di produrre e di spartirsi i benefici derivanti dall’impiego migliore di acque che attualmente non sono utilizzabili da nessuna delle parti. L’assistenza edile, tecnica e finanziaria per la soluzione di questo problema presuppone l’esistenza di un clima di pace e di collaborazione prima che uomini e denaro possano essere impiegati per lo sviluppo del sistema del Giordano nel suo complesso”. È chiaro quindi che la guerra per l’acqua (e non solo per il territorio) in Medio Oriente si preannunciava sin dal 1953 e che l’alone latente del conflitto idrico proseguì ininterrottamente per tutto il decennio fino alla realizzazione ed inaugurazione del sistema idrico israeliano National Water Carrier Project nel 1964. Tuttavia, a seguito della realizzazione del Progetto, le vicine Giordania e Siria, preoccupate dalla diversione del fiume, avviarono il piano elaborato dagli ingegneri giordani e americani Ionides-MC Donald, che sarebbe stato costruito anche con finanziamenti americani ed europei oltre che arabi, per prolungare un canale d’irrigazione dal fiume Yarmouk verso Sud: l’East Ghor Canal. Il progetto dell’East Ghor Canal faceva parte di un accordo siro-giordano del Giugno del ‘53 i cui lavori cominciarono nel ’58. In base a questo si sarebbe costruito anche in Siria e Giordania un canale d’irrigazione principale, lungo 70 chilometri, che avrebbe avuto lo scopo di prelevare acqua dal fiume Yarmouk; inoltre, il progetto ambiva alla realizzazione di serbatoi per la raccolta d’acqua piovana da investire nella produzione di energia idroelettrica per i due paesi. Scopi finali dell’East Ghor Project saranno quelli d’estendere l’agricoltura irrigua attraverso la diversione dell’affluente minore Baniyas (opera che resterà incompiuta a causa della ferma opposizione israeliana) e di aumentare la produzione d’energia idroelettrica, attraverso la costruzione di dighe e quindi garantire nuovi posti di lavoro. Tuttavia l’East Ghor Project è un progetto attuato solo per metà, infatti, gli arabi sono riusciti a costruire solamente le dighe a loro necessarie tra il ’58 e il ’63, diga di Mukheiba e diga di Maqarin, ma non sono riusciti a completare il progetto di diversione del fiume in quanto fermati dagli israeliani che non accettarono dal primo momento la loro iniziativa, tanto è vero che, nel 1964, bombarderanno le prime installazioni di diversione del Baniyas, ponendo così le basi per la Guerra Dei Sei Giorni del 1967; infatti, le grandi dighe sono costruite per deviare l’acqua dei fiumi dal loro corso naturale, alterarne il percorso significa però modificare allo stesso tempo i modelli di distribuzione acquiferi in un bacino. Questo ‘spostamento’ il più delle volte provoca conflitti tra i paesi rivieraschi che, degenerando, crea un clima di tensione e scontri immediati. Il Terzo Conflitto arabo-israeliano in relazione al controllo delle acque Solitamente si è crede che la data ufficiale dello scoppio della Guerra dei Sei Giorni, o Terzo Conflitto arabo-israeliano, sia il 5 giugno del ’67. Questa è la data ufficiale ma, in realtà, le basi per lo scontro risalgono al 1964, ovvero anno in cui lo Stato ebraico decide di ostacolare l’iniziativa siro-giordana di deviazione del Baniyas e di costruire dei bacini idrici. Durante il Summit del Cairo nel ’64, infatti, questi due paesi arabi decisero di deviare i corsi d’acqua degli affluenti del Giordano, Hasbani e Banyas, verso il più grande Yarmuk, in risposta all’inaugurazione del National Water Carrier israeliano; la risposta ebraica non si fece attendere, tanto è vero che lo Stato d’Israele dichiarò sin da subito che la diversione di questi fiumi avrebbe ridotto la portata del Giordano e quindi la capacità di prelievo per lo Stato israeliano del 35%. Pertanto le prime installazioni arabe furono bombardate. Con tale azione si posero le basi per il Terzo Conflitto arabo-israeliano, considerato il conflitto dell’acqua per eccellenza (Coppola e Ferragina 1997). In effetti, la guerra si scatenò nel ’67 ma sulla base di altri motivi, noti alla storiografia ufficiale. Secondo le ricostruzioni più accreditate, fu proprio l’atteggiamento provocatorio del presidente egiziano Nasser, indiscusso leader del panarabismo e fautore della lotta per la liberazione della Palestina che, schierando le proprie truppe nella zona del Sinai al confine con Israele, portò alla reazione israeliana. Gli ebrei, probabilmente preparati allo scontro, presero in contropiede la provocazione egiziana ed eseguirono a regola d’arte una guerra lampo grazie alla quale riuscivano a vincere il combattimento contro gli eserciti arabi coinvolti e tra loro alleati (egiziano, giordano e siriano) nel giro di “Sei Giorni”, conquistando quelle aree che, nel Primo Conflitto del ’48, non erano stati in grado di annettere, cioè Gerusalemme est e la Cisgiordania. Per questo motivo, il Terzo Conflitto arabo-israeliano del 1967 è tutt’ora noto alla memoria storica come Guerra dei Sei Giorni. Il successo territoriale israeliano non si limitò solamente ai luoghi appena citati ma, battendo l’Egitto, Israele annetteva di fatto anche la Striscia di Gaza; mentre, vincendo sulla Siria, s’impadroniva anche delle Alture del Golan, da sempre d’importanza fondamentale per quel che riguardava la gestione idrica del preziosissimo fiume Giordano; delle falde acquifere della Giudea e della Samaria, in Cisgiordania (che assicurano circa 850 milioni di metri cubi d’acqua all’anno); infine, degli affluenti libanesi del fiume Giordano Litani e Hasbani. Sul fronte degli sconfitti la Giordania fu, come abbiamo visto, il paese rivierasco che subì le conseguenze più gravi; infatti, perdendo la Cisgiordania perse 1/3 dei suoi territori agricoli migliori. Da allora, la popolazione araba della West Bank (Cisgiordania) è interamente dipendente dalle acque sorgive e dalle falde acquifere gestite dal vincente Stato ebraico; quindi, può utilizzare solo una piccola percentuale del totale per i propri bisogni. Limitazioni, conseguenze ed iniziative consecutive alla guerra del ‘67 Con le leggi e le ordinanze militari introdotte da Israele a seguito della vittoria ottenuta nel Terzo Conflitto del ’67, le quali sono attualmente in vigore, l’acqua diventa una proprietà pubblica, inclusi i pozzi e le sorgenti private. Apparentemente questo cambiamento legislativo riguardo alle risorse idriche, che da private divengono pubbliche, dato che la Palestina dei tempi del Mandato era una sorta di feudo dove i proprietari terrieri arabi erano allo stesso tempo titolari delle risorse idriche presenti nelle loro terre, potrebbe sembrare favorevole anche alle esigenze arabo-palestinesi, ma in realtà consente allo Stato d’Israele di potersi appropriare legalmente delle risorse idriche che da private, quindi palestinesi, diventano pubbliche, cioè appartenenti allo Stato d’Israele, attraverso la colonizzazione delle terre. Colonizzare legalmente più terre possibili è stato attuabile anche grazie a quell’astuta legge israeliana, “Legge sugli Assenti” che, con il pretesto della sicurezza, proclama ‘zone particolari’ quelle aree abbandonate dai palestinesi durante i conflitti più sanguinosi (’48-’67) e ,successivamente, permette allo Stato ebraico di prenderne possesso. Questi conflitti hanno naturalmente spinto molti contadini ad abbandonare la propria terra, con la conseguenza di perdere il lavoro, per spostarsi verso le città e a vivere alla giornata in Israele. Tale provvedimento ha incrementato notevolmente il numero dei pozzi disponibili che, prima di subire la “catastrofe” del 1948, erano stati utilizzati dai nativi palestinesi. Nel tempo, questo espediente ha negato al popolo palestinese la possibilità di poter sviluppare un efficace ed autonomo sistema idrico, in quanto, in caso di assenti, si è sempre preferito assegnare pozzi e risorse ai nuovi coloni ebrei che ripopolavano la Terra Santa. In sintesi, secondo le leggi applicate dall’amministrazione israeliana, la terra abbandonata o non coltivata dai palestinesi può essere confiscata. Tutto ciò potrebbe far sorgere il dubbio che le politiche idriche israeliane siano state elaborate in modo tale da innescare un lento e continuo processo di appropriazione della terra e dell’acqua palestinese. Inoltre, mentre le colonie in Cisgiordania sono capaci di irrigare circa il 70% della loro terra coltivabile, proporzione che è persino più alta che nello stesso Israele, non più del 5-6% della terra palestinese in Cisgiordania è irrigata. A seguito del conflitto, Israele imporrà il proprio regolamento sull’uso dell’acqua a discapito dei palestinesi (in Cisgiordania e a Gaza) e dei paesi arabi coinvolti con un’ordinanza militare del 30 ottobre del 1967, in base alla quale sarà stabilito: 1. Il divieto di scavo di nuovi pozzi che sottopone tale intervento ad un preventivo permesso da parte dell’autorità militare accordato sporadicamente ed esclusivamente al settore domestico. 2. Il divieto di pompare acqua lungo la dorsale montuosa al di sotto della quale si trova la più importante falda acquifera sotterranea della Cisgiordania, la Yarqon-Tanimin, che si estende in direzione Nord-Sud lungo le colline occidentali della West Bank. 3. Il divieto di ripristinare pozzi già esistenti e/o localizzati in prossimità di quelli israeliani. Questo il testo originale: “Nessuno è autorizzato a possedere, costruire o amministrare un impianto idrico fino a nuovo ordine ufficiale. È possibile negare il permesso ad un richiedente, revocare o modificare una licenza, senza fornire spiegazioni. Le autorità interessate possono perquisire e confiscare eventuali risorse idriche non autorizzate anche se il proprietario non è stato sottoposto a reclusione”. Le zone conquistate durante la Guerra dei Sei Giorni fanno ancora oggi parte, eccetto la striscia di Gaza, dei cosiddetti Territori Occupati; ulteriore prova di quest’occupazione è l’esistenza della Risoluzione O.N.U. n°242, formulata immediatamente dopo il conflitto, in base alla quale si approvava: “l’inammissibilità dell’acquisizione dei territori per mezzo della guerra e si auspicava l’instaurazione di una pace giusta e duratura in Medio Oriente, che si sarebbe dovuta raggiungere attraverso due condizioni essenziali: il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati in seguito al recente conflitto e il rispetto e il riconoscimento della sovranità, integrità territoriale ed indipendenza politica di tutti gli Stati della regione e del loro diritto di vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute”. Ma la guerra dei Sei Giorni ambì effettivamente all’occupazione delle risorse di acqua dolce delle Alture del Golan, del lago Tiberiade, del fiume Giordano e della Cisgiordania. La creazione stessa d’Israele si basava sull’impegno ad assicurarsi in futuro l’acqua: ”È necessario che le fonti d’acqua dalle quali dipende il futuro della terra, non si trovino all’esterno della futura patria degli ebrei, per questo abbiamo sempre voluto che la terra d’Israele includesse le sponde meridionali del fiume Litani, le sorgenti del Giordano e la regione di Hauran dalla sorgente di El Auja a Sud di Damasco”. Secondo stime recenti, in seguito all’occupazione israeliana della Cisgiordania del 1967, la Giordania ha perso il controllo dei corsi d’acqua della riva occidentale del Giordano (la West Bank), riducendo così la sua disponibilità complessiva di 140 milioni di metri cubi e perciò, di conseguenza, le risorse superficiali totali di quest’area ammonterebbero oggi a soli 568 milioni di metri cubi e, cioè, una disponibilità assai modesta se si considera la mancanza di punti di stoccaggio (dighe) sul territorio, indispensabili per immagazzinare le acque durante il periodo invernale e per ridurre i contraccolpi delle fasi di siccità cui va incontro quest’area (Coppola, Ferragina, 1997). Per potersi sottrarre ad un cronico e crescente deficit idrico, la Giordania dovrebbe disporre quantomeno di un bacino di stoccaggio per le acque dello Yarmouk. L’idea di un bacino artificiale di stoccaggio acquifero, fa effettivamente parte di un altro progetto concordato tra Giordania e Siria, fissato il 3 Settembre del 1987. A seguito di quest’accordo si sarebbe effettuata la costruzione della diga de “l’Unità”, grazie alla quale la Giordania avrebbe concesso il 75% di energia prodotta, in cambio dell’accesso ad una quota addizionale di circa 75 milioni di metri cubici d’acqua. Ma la ferma opposizione da parte israeliana ha rallentato notevolmente i lavori, tale da mantenerli da allora in una fase di stallo nonostante l’elargizione di fondi americani ed europei. Solo Israele si è quindi opposto allo stanziamento della somma pattuita dichiarandosi contrario, in quanto, così facendo, si poteva provocare l’abbassamento del livello del Mar Morto ed un aumento della salinità del Giordano e del lago di Tiberiade. I negoziati interrotti quindi durante la guerra del Golfo nel ’90, sono stati ripresi nel 1994, per essere nuovamente abbandonati. Nel 1996 si cercherà di giungere ad un nuovo accordo siro-giordano, relativo alla costruzione della diga ma, anche in quest’occasione, si registrerà la ferma opposizione da parte di Israele che riterrà tale accordo contraddittorio rispetto agli accordi di pace siglati con il regno Hashemita (Giordania) nell’Ottobre del ’94 (Coppola e Ferragina 1997). Il nuovo fronte della politica internazionale: l’idro politica Oggigiorno le leggi nazionali come quelle internazionali riguardanti l’uso ed il consumo dell’acqua, non sono da sole sufficienti per dirimerne i conflitti idro politici che aumentano al diminuire della presenza d’acqua dolce tra i paesi a forte rischio idrico. L’idro politica è “la politica fatta con l’acqua, o meglio riferita all’acqua”, secondo la definizione che ci fornisce René Georges Maury nel saggio “L’Idro politica, un nuovo capitolo della geografia politica ed economica” (1992). Questa non deve essere scambiata con “la politica delle acque”, che riguarda la corretta gestione o la coordinata programmazione tra risorse (superficiali o sotterranee) ed esigenze (agricole, industriali); bensì, l’idro politica è qualcosa che implica sia l’ampliamento della visione ad altri problemi causati dalla forte pressione sulle risorse idriche sia la presa di coscienza a livello mondiale sull’importanza e protezione di questa risorsa. Sono direttamente correlati al problema idro politico: l’aumento demografico mondiale e, quindi, l’aumento del fabbisogno d’acqua di paese in paese e, infine, la conseguente modernizzazione di certe società che da agricole diventano nuove realtà industriali. Aspetto importante all’interno dello scenario idro politico è, come abbiamo visto, il caso dello Stato che ha una posizione a monte di un fiume: trattenere le acque in grandi dighe può avere l’effetto positivo di una migliore regolazione dei flussi idrici (evitando il verificarsi di piene disastrose), ma anche gli effetti negativi di, prima di tutto, rendere i paesi rivieraschi a valle estremamente dipendenti da quello a monte che può usare l’arma del ricatto poiché si trova in una posizione privilegiata e, in secondo luogo, quello riguardante il rischio di inondazioni o catastrofi qualora una diga a monte dovesse cedere a causa di gravi eventi naturali o per difetti di progettazione. Alla luce di ciò, secondo quanto ribadito da Vandana Shiva nel suo saggio “Le guerre dell’acqua” (2002), non esiste nessun documento legale nel Diritto contemporaneo che faccia riferimento alla legge più naturale dell’acqua, la ’Legge del ciclo dell’acqua’, la quale considera l’acqua come un elemento mobile ed itinerante del quale non si può avere un diritto esclusivo di proprietà bensì una proprietà temporanea, transitoria ed usufruttuaria. In realtà, l’introduzione di tecnologie moderne di estrazione ha accresciuto il ruolo dello Stato nella gestione delle acque; infatti, mentre queste tecnologie soppiantano i vecchi sistemi di autogestione, perdono voce in capitolo le ‘strutture democratiche’ di controllo idrico. Con la globalizzazione e la privatizzazione delle risorse idriche si rafforza pertanto il tentativo di erodere completamente i diritti dei popoli e rimpiazzare la proprietà collettiva con il controllo delle grandi aziende. Il fatto che al di là del mercato esistano individui in carne ed ossa e comunità di persone che hanno bisogni concreti è qualcosa spesso dimenticato nella corsa alla privatizzazione. Attualmente quindi si avanzano pretese in base a strutture artificiali di cemento (dighe) e, su queste strutture, si concentrano le misure legali di protezione. Tale modo di concepire il diritto all’acqua ha spinto diversi Stati (in particolare in Medio Oriente: Turchia, Siria, Egitto, Giordania, Israele) ad intraprendere una ‘gara’ a chi realizza il progetto idraulico più esorbitante in modo da poter imporre il proprio diritto sull’utilizzo dell’acqua, in altre parole più acqua si estrae e si devia mediante progetti monumentali più diritti si possono accampare (Giano, 2005). Nel mondo, il diritto sull’acqua è stato regolato di luogo in luogo e nel tempo, secondo tre principali teorie normative internazionali: La Dottrina Harmon o Teoria della Sovranità Territoriale del 1896, in base alla quale è sostenuto che gli Stati detengono un diritto esclusivo o sovrano sulle acque che attraversano i loro territori; tali paesi possono usare l’acqua come meglio credono indipendentemente dagli effetti negativi che possono ricadere sugli Stati vicini. La Dottrina del Flusso Naturale secondo la quale ad ogni Stato, posizionato su un versante inferiore rispetto ad un fiume, spetta comunque il diritto naturale di poter usufruire del corso d’acqua che non deve essere volutamente ostacolato dai paesi posti in posizione superiore. Lo stato posto in posizione up, deve permettere il naturale fluire delle acque fino agli Stati inferiori e deve usare una quantità ‘ragionevole’ d’acqua. La Teoria dell’Equo Utilizzo, questa prevede un utilizzo delle acque nella misura in cui ciò non provochi un danno apprezzabile ad un altro Stato rivierasco. Non di recente, la Teoria ha ottenuto alla conferenza di Helsinki del 1966 un valido riconoscimento riguardo il ‘ragionevole’ uso di acqua da parte degli Stati. Benché popolare, questa Teoria non è esente da problemi; infatti, l’intoppo principale sta nell’interpretazione stessa del significato dell’espressione ‘ragionevole utilizzo. Il criterio d’assegnazione paritaria usato per risolvere i conflitti non si presta ad un’articolazione precisa: dividere equamente un fiume tra due o più attori non è certo cosa facile. Come le tecnologie d’avanguardia permettono di limitare il consumo idrico in Israele Facendo una valutazione complessiva sulle risorse idriche israeliane, emerge che 2/3 dell’acqua consumata provengono dai territori conquistati nel ’67. Privilegi a parte, anche per lo Stato ebraico la situazione è molto precaria poiché in balia delle fluttuazioni legate ai fattori climatici e ai consumi decisamente maggiori determinati da un sistema industriale assolutamente più evoluto rispetto agli standard della regione. Inoltre, le risorse acquifere principali si trovano nella parte settentrionale e Nord-Orientale del paese ma le aree a forte consumo idrico, urbane, industriali e coltivate, sono per lo più concentrate nella fascia centrale e costiera del paese. Proprio per queste ragioni, Israele ha dovuto da sempre deviare i corsi d’acqua dolce per far fronte alle proprie esigenze e per garantire degli standard dignitosi di vita ai propri cittadini. La principale risorsa di superficie è rappresentata dal corso superiore del fiume Giordano, che soddisfa circa un terzo della domanda idrica complessiva del Paese, ma grande rilevanza rivestono anche le risorse idriche sotterranee che sono pari ai tre quinti del potenziale rinnovabile. Negli anni sono stati anche realizzati punti di stoccaggio per la raccolta delle acque piovane principalmente per evitare di sfruttare troppo le risorse non rinnovabili di falde acquifere sotterranee. Come gia ricordato, il controllo dell’acqua si presenta come un fattore d’importanza decisiva in grado di garantire contemporaneamente sviluppo economico e condizionamento della vita economica di altri paesi, dunque lo Stato ebraico, al fine di prevenire un impoverimento idrico drastico nella regione, e relative ripercussioni economiche, si è aperto a nuove frontiere tecnologiche grazie alle quali gli è possibile adoperare l’acqua del mare come se fosse acqua dolce, attraverso le tecniche di dissalazione. Il processo di dissalazione dell’acqua è una pratica parecchio costosa, non convenzionale in altri paesi, ma molto praticata in Israele. Esso rappresenta la nuova sfida che il governo vuole superare al fine di prevenire una difficoltosa crisi idrica, evitando di sfruttare più del necessario le risorse acquifere superficiali e sotterranee. La dissalazione dell’acqua è estremamente importante non solo come fonte idrica aggiuntiva ma anche, e soprattutto, come mezzo per proteggere la qualità dell’ambiente idrico. L’acqua così ottenuta è potenzialmente infinita perché direttamente prelevata dal mare; purtroppo i suoi costi di produzione oscillano tra l’1 e i 2 dollari al metro cubo. Generalmente si usano due processi ben noti e collaudati: quello di osmosi inversa che consente di ottenere acqua dolce a bassa salinità dalle acque salmastre e quello di distillazione che consente di ottenere acqua priva di sali dall’acqua di mare. Il processo di distillazione è il più diffuso anche perchè è molto più semplice: l’acqua del mare è scaldata all’interno di grandi impianti, utilizzando il vapore ad una temperatura vicino ai cento gradi Celsius. Una parte dell’acqua di mare riscaldata evapora e si condensa su tubazioni al cui interno scorre acqua di mare più fredda; l’acqua si condensa sulla superficie di tali tubazioni allo stato puro e pre-riscalda l’acqua di mare che entrerà successivamente nelle camere di evaporazione. Con le tecniche attuali è possibile ottenere acqua dolce con un consumo di calore relativamente basso, usando il vapore a bassa temperatura ottenuto da una grande centrale termoelettrica; si produce in questo modo circa il 2% in meno di elettricità, ma si ottiene un’altra “merce” preziosa, l’acqua dolce. In tutto il mondo, la soluzione più economica per ottenere acqua dolce dal mare per distillazione consiste proprio nell’abbinare gli impianti di distillazione alle grandi centrali termoelettriche che producono in abbondanza vapore a basso costo. Per quanto riguarda il processo di osmosi inversa che permette di ottenere acqua dolce dalle acque salmastre, bisogna comprimere quest’ultime ad una pressione di circa 20-30 atmosfere contro speciali membrane che, sotto tale pressione, lasciano passare acqua dolce ed impediscono il passaggio dei sali. A differenza del sistema di distillazione, che richiede sia calore sia energia elettrica, il processo d’osmosi inversa richiede soltanto energia elettrica. Di non secondaria importanza appare poi la distanza tra le aree di potenziale localizzazione degli impianti e quelle di consumo delle risorse idriche: la dissalazione è conveniente da un punto di vista economico nelle aree periferiche (aventi sbocchi sul mare), i cui costi di allaccio alla rete idrica centrale sarebbero estremamente onerosi; mentre, risulterebbe costosa, per ragioni legate al trasporto, nel caso in cui le aree interessate fossero lontane dal mare (Giano, 2005). Questo è il caso della Giordania dove lo sbocco di Aqaba sul Mar Rosso dista di circa 400 chilometri dalla principale area di consumo (Coppola, Ferragina). I costi da sostenere, sia in termini energetici che in termini di innovazione tecnologica, per la dissalazione rendono necessaria la realizzazione di progetti congiunti a scala regionale. A Gaza, infatti, si sta progettando un impianto che rifornirebbe anche Israele e la Cisgiordania; molto più importante è il progetto israelo- giordano di un canale Mediterraneo- Mar Morto, Twixt Med and Dead, che permetterebbe di alimentare numerosi impianti di dissalazione, utilizzando la pendenza esistente tra le due aree per la produzione di energia elettrica. Infine è fondamentale, ai fini di una razionalizzazione nell’uso delle risorse idriche, il trattamento ed il riutilizzo delle acque reflue, particolarmente indicato nelle aree urbane, dove l’acqua usata già in ambito domestico ed industriale potrebbe essere recuperata e rigenerata per il settore agricolo. La politica d’incentivazione al riutilizzo è portata avanti gradatamente dallo Stato che diminuisce progressivamente il quantitativo di acque dolci destinate annualmente agli agricoltori di una certa area, mettendo a disposizione un analogo o addirittura superiore quantitativo di acque reflue rigenerate. Gli agricoltori non hanno alternativa: o riducono le aree irrigate o riutilizzano le acque reflue. Molto efficiente è l’impianto Dan Project. Questo raccoglie i reflui di Tel Aviv e dell’interland, regione di Dan, pari a circa 360.000 m3/giorno, li tratta attraverso un sistema di fanghi attivi nel proprio impianto di depurazione e li invia, una volta disinfettati, ai campi di infiltrazione. In seguito, una serie di pozzi più a Sud provvederà al prelievo delle acque di falda, reflue e dolci mescolate, dove la risorsa presenterà caratteristiche di qualità idonee all’irrigazione, anche grazie all’azione filtrante del terreno. Il sistema di Tel Aviv consentirà così nell’immediato futuro di trasferire a Sud ben 135 Mm3/anno d’acque reflue che sono depurate, infiltrate, e pompate nuovamente dai pozzi; per di più, oltre a ridurre il consumo d’acqua, l’infiltrazione in falda consentirà di diminuire la presenza di sali provenienti dal Mar Morto che, come abbiamo visto, costituiscono una grossa minaccia per il fiume Giordano e rispettivi affluenti. Al momento sono prodotti nel mondo circa 10 milioni di metri cubi d’acqua dolce al giorno in decine di impianti. Tecnologie israeliane e metodi di sopravvivenza palestinesi a confronto Da una parte c’è il mito sionista di far fiorire il deserto, dall’altra c’è invece un muro che si sta costruendo dal 2002, grazie al quale il governo israeliano ha sia abbattuto le speranze territoriali dei palestinesi sia privato i contadini dei loro pozzi. E’ per questo che durante la festa per la raccolta delle olive, Mohammed, contadino della West Bank, punta il dito alla collina e continua a ripetere “un tempo eravamo pieni di alberi qui, ora non abbiamo neanche un goccio di acqua” (Dossier Amnesty International 2009). Alle parole di Mohammed fanno eco quelle di tanti altri palestinesi, contadini e non, a conferma che il problema dell’acqua colpisce direttamente tutta la popolazione. Secondo un lungo e dettagliato Dossier d’Amnesty International, intitolato Troubled Waters in Palestinians Denied Fair Access to Water, il 10 Marzo del 2009 si è verificato il tipico episodio che provoca molta rabbia e frustrazione; infatti, nei pressi del villaggioal-Farisya che si trova a pochi chilometri a Nord di Jiftlik, un soldato israeliano ha confiscato 1500 litri d’acqua piovana ad un contadino palestinese, dichiarando che l’acqua raccolta in cisterne, in prossimità della stagione piovosa, sia di proprietà dello Stato ebraico: “The army considers the spring water as State property”. La decisione presa dal militare israeliano sembra un vero e proprio abuso di potere, in quanto lo Stato ebraico non ha bisogno di andare a confiscare l’acqua piovana alla povera gente; inoltre, le famiglie palestinesi, sia della West Bank sia di Gaza, proprio per far fronte alla vera emergenza acqua che quotidianamente vivono, riutilizzano almeno per quattro volte l’acqua che riescono a mettere da parte. I metodi più comunemente usati, dopo aver messo da parte quella destinata a mantenerli in vita, consistono nell’utilizzare la stessa l’acqua inizialmente per bollire gli alimenti, poi per lavare i piatti, poi per lavare vestiti e pavimenti, infine, come acqua di scarico per i water. A maggior ragione l’azione del soldato israeliano, prima descritta, s’inserisce in un tipico atto totalmente privo d’umanità e senso, commesso solo per ricordare ulteriormente lo strapotere della potenza israeliana all’abitante arabo. Purtroppo, l’episodio appena raccontato non è l’unico; infatti, l’organizzazione per i Diritti dell’Uomo israeliana B’Tselem racconta molte tristi esperienze, e tra queste, riporterò quella di una vedova, madre di sei piccoli bambini. La donna, oltre a dover convivere con problemi economici, in quanto percepisce una pensione di 1000 Shekels, deve fare i conti anche con la scarsità d’acqua: “la scarsità, d’acqua colpisce tutti gli aspetti di nostra vita”. Nonostante la casa sia collegata idricamente alla Mekorot, agenzia ebraica che dal 1967 gestisce le acque dell’intera regione, l’elevata altitudine della casa, e la bassa pressione all’interno dei tubi, non permettono all’acqua di scorrere dai rubinetti. Pertanto, questa donna si vede costretta a dover acquistare l’acqua necessaria dai camion cisterna. Questa scelta forzata ha il duplice svantaggio di non garantire l’acquisto d’acqua non contaminata (batteri, eccesso di sali, fertilizzanti chimici) e allo stesso tempo di costare di più rispetto alle salatissime tariffe della Mekorot israeliana che, in ogni caso, deve essere pagata. Altre famiglie, per evitare di bere o dare ai propri figli acqua inquinata e/o di dubbia provenienza, la fanno bollire preventivamente in grandi pentole; purtroppo però non tutti possono permettersi gas a sufficienza o combustibile di qualsiasi natura, ed anche in questo caso per forza di cose si è costretti a cedere. Come dicevamo, la Mekorot gestisce l’acqua del Paese. Il metodo di gestione è ovviamente a netto favore israeliano; infatti, sia per la qualità ed efficienza dei tubi, sia per la pressione dell’acqua, sia per la differente tariffazione adottata, la gente palestinese è costretta ad escogitare qualsiasi rimedio pur di poter continuare a sopravvivere. Lo stato di manutenzione dei tubi destinati alla popolazione palestinese, seppur gestiti dall’unica compagnia pubblica, è talmente vecchio ed inefficiente che perde all’interno della rete tra il 40% ed il 60% d’acqua, durante il trasporto. Dunque, se gli israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime d’interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Questa Compagnia non solo pratica una distribuzione discriminatoria, ma anche delle tariffe differenziate; infatti, fa pagare agli Israeliani 0,7 Shekels al metro cubo per uso domestico e 0,16 Shekels per uso agricolo, mentre non esistono prezzi differenziati per i Palestinesi, che devono pagare sempre 1,20 Shekels al metro cubo. In queste condizioni, l’Autorità Palestinese dell’Acqua, creata durante il Primo Trattato di Oslo, faceva una magra figura ancor prima di essere metaforicamente annullata nel Secondo Trattato di Oslo, dato che sarà sempre il solo Israele a gestire le risorse idriche e territoriali. L’Autorità ha più che altro avuto il ruolo marginale di fungere da valvola di sfogo al cospetto del cresciuto malcontento della popolazione palestinese; essa ha dunque perso la propria ragione di esistere a causa dell’impossibilità di gestire una seppur minima parte delle acque. Continua
Posted on: Mon, 25 Nov 2013 19:45:24 +0000

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