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Questo troviamo scritto in qualunque libro di "Storia " Il brigantaggio Alla morte di Cavour (1861) è nominato primo ministro Bettino Ricasoli, liberale ben visto dalla Sinistra. I suoi primi provvedimenti riguardano la riorganizzazione amministrativa: il territorio viene suddiviso in regioni, in province controllate dai prefetti, e in comuni amministrati da consigli comunali elettivi, presieduti da sindaci di nomina regia. Non viene convocata un’assemblea costituente per l’elaborazione di una nuova Costituzione, ma si preferisce estendere a tutto il regno lo Statuto albertino. È imposta anche la coscrizione obbligatoria, che suscita molte reazioni negative. Tale politica provoca un grave malcontento, soprattutto al sud, dove cresce e si diffonde ulteriormente un fenomeno già presente in quelle regioni: il brigantaggio. Il giudizio storiografico su questo fenomeno è ancora controverso. Indubbiamente, non si può negare la base «sociale» del brigantaggio, collegato ai fenomeni di scontento e delusione delle popolazioni contadine, da secoli in attesa di una riforma agraria che risolvesse i loro problemi di miseria, emarginazione, sfruttamento. Va sottolineato, tuttavia, che il brigantaggio si caratterizza come una guerriglia anarcoide e violenta contro «i galantuomini» che simboleggiano il potere. I briganti vengono anche appoggiati e strumentalizzati dai Borbone, che intendono servirsene per riconquistare il trono. La situazione nelle regioni meridionali risulta, indubbiamente, peggiorata. L’agricoltura è molto arretrata e l’industria, appena avviata, di fronte al mercato nazionale entra completamente in crisi. L’economia subisce così un vero e proprio trauma, che è pagato soprattutto dai contadini, anche a causa dell’imposta sul macinato. Il governo italiano considera il brigantaggio come una minaccia all’unità e l’affronta con l’esercito, nonostante la Commissione parlamentare d’inchiesta abbia individuato e denunciato le cause del disagio rurale: «Il brigantaggio diventa […] la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie […]» e a ciò si aggiunge «l’ignoranza […] la superstizione […] la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia […]». La repressione si conclude con svariate migliaia di morti e con ventimila condanne ai lavori forzati. La vicenda ha fine nel 1865. Soltanto dopo il 1870, però, la situazione meridionale diventa oggetto di analisi accurata da parte di studiosi quali Leopoldo Franchetti, Giustino Fortunato, Sidney Sonnino. Si parla, allora, di questione meridionale. Essi sono i primi a porre il problema meridionale come problema nazionale e individuano, nella formazione di una classe intermedia tra proprietari e contadini, intraprendente e attiva, una delle soluzioni possibili. Ciò non avviene e per lunghi decenni il sud vivrà un profondo stato di arretratezza, che aumenterà la distanza dal resto del paese e le cui conseguenze arriveranno fino ai nostri giorni. La questione meridionale La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell’Italia unita. Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 1860-1861 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d’Italia). I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese. L’abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri crearono nel sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord Italia o all’estero. Dopo l’unità d’Italia vi fu un rigetto nei confronti del governo da parte della povera gente del meridione. Tale rigetto si manifestò, fra il 1861 e il 1865, con il fenomeno del brigantaggio. Il brigantaggio era localizzato in Calabria, Puglia, Campania e Basilicata, dove bande armate di briganti iniziarono vere e proprie azioni di guerriglia nei confronti delle proprietà dei nuovi ricchi. I briganti si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borbone. Fra i briganti, oltre ai braccianti estenuati dalla miseria, c’erano anche ex garibaldini sbandati ed ex soldati borbonici. Non mancavano poi numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. I briganti non furono «criminali comuni», come pensava la maggioranza al governo, ma un esercito di ribelli che non conoscevano altra forma di lotta se non quella violenta. Del resto, tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e quindi non avrebbero mai potuto agire con mezzi legali. La politica di repressione adottata nei confronti dei briganti fu durissima. Per debellare il fenomeno furono impiegati 120.000 soldati (pari alla metà dell’esercito italiano), comandati dal generale Cialdini. Si scatenò una vera e propria guerra intestina che portò ad un numero molto elevato di morti, in particolare fra i briganti e i contadini che li appoggiavano. Fu tra prigioni a vita, fucilazioni e uccisioni varie che il fenomeno del brigantaggio venne debellato nel 1865. Le conseguenze furono un ulteriore aumento del divario fra nord e sud e un’esaltazione dei briganti, la cui figura venne paragonata, nell’immaginario popolare, a quella di «eroi buoni». Una volta debellato il brigantaggio, le condizioni economiche e sociali dell’Italia meridionale non migliorarono. Anzi, il fenomeno dell’emigrazione si manifestò in maniera consistente a causa delle difficili condizioni di vita nel sud Italia. Il motivo di tale fenomeno era per lo più occupazionale. La difficoltà di trovare lavoro e di raggiungere un tenore di vita, se non dignitoso, almeno accettabile, portò ad un’ondata migratoria sia verso il nord Italia sia all’estero. «Si stima che fra il 1876, anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati, e il 1985 circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale» (pbmstoria.it). Quanto fin qui emerso ci fa comprendere meglio che l’emigrazione fu una delle pesanti conseguenze della mancata risoluzione, da parte dei governi italiani, della questione meridionale. Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale. Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957). Egli denunciò l’arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al decollo economico avviato nel nord soprattutto da Giolitti. Quest’ultimo venne da lui definito «il ministro della malavita» per il cinismo con cui, con l’aiuto della mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi consensi. Il 14 marzo 1909, infatti, Gaetano Salvemini pubblicò sull’«Avanti!» un articolo contro Giovanni Giolitti, accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo «nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura». Salvemini considerava l’industrializzazione estranea alle condizioni economiche e geografiche del sud e avrebbe voluto invece che si valorizzasse la vocazione agricola del meridione. Egli attaccò inoltre il PSI e la CGIL, accusandoli di favorire la classe operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Salvemini avrebbe voluto che il governo promuovesse la vocazione agricola del sud Italia. Chi teneva in quel momento le redini del Paese, tuttavia, non fu dello stesso avviso e agì a modo suo, optando per leggi speciali e per interventi localizzati. Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l’incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori. Un altro intellettuale di spicco, Antonio Gramsci (1891-1937), nel primo dopoguerra ideò una strategia che mirava all’alleanza tra operai del nord e contadini del sud al fine di realizzare una rivoluzione socialista italiana.
Posted on: Thu, 26 Sep 2013 13:34:25 +0000

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