Resistenza, il revisionismo diventa un romanzo colloquio con - TopicsExpress



          

Resistenza, il revisionismo diventa un romanzo colloquio con Giampaolo Pansa di Pier Mario Fasanotti Tratto da cronache di Liberal del 16 maggio 2008 Quando pubblicò Il sangue dei vinti e fu poi invitato per un dibattito in una libreria di Roma, Giampaolo Pansa si trovò di fronte una ragazza ben determinata. Che gli disse: «Lei deve scrivere il Via col vento della guerra civile italiana». Chiedo al giornalista-scrittore che da cinquant’anni si occupa della Resistenza (fin dalla sua tesi di laurea) come reagì all’invito-provocazione. E lui: «Lì per lì rimasi sorpreso, anche perché non avevo mai pensato a un progetto tanto ambizioso, anche se mi ero già azzardato a pubblicare qualche romanzo ambientato in quel tempo». Già, «quel tempo» è maledetto. È una bomba a orologeria che quando scoppia fa un fragore tremendo. E infatti il botto ci fu: le ottuse vestali della Resistenza come periodo felice, eroico e pacifico della storia patria gridarono al tradimento. E al revisionismo, parola ormai inflazionata che va di bocca in bocca (Giorgio Bocca compreso) e si mischia alla saliva del disgusto. L’Italia non sopporta più gli armadi chiusi, dentro i quali ci sono le prove documentarie di fatti scomodi, sanguinosi e vergognosi. Pansa ha aggiunto capitoli di verità alle vicende tribolate che vanno dal 1943 al 1946, incrinando quell’artificioso totem resistenziale tramandato da figli a padri e nipoti. Quel totem sul quale era scritta col fuoco una falsa verità: i partigiani erano tutti buoni, i fascisti erano tutti carnefici. A poco a poco, tra mille diffidenze, scoprimmo che migliaia di feroci esecuzioni, anche a guerra conclusa, erano da attribuire agli squadroni della morte dei rossi, con la vendetta nel sangue. Scoprimmo le beghe, spesso miserevoli, all’interno del grande apparato della Resistenza. Scoprimmo che quelli col fazzoletto rosso a volte si odiavano e si ammazzavano tra di loro. L’affresco storico di Pansa supera gli ipocriti steccati di una certa storiografia, descrive, come lui stesso ci dice, «la popolazione civile, la gente che non si era schierata con nessuno dei due fronti in lotta, quella che De Felice aveva chiamato “la grande zona grigia” della guerra civile italiana. Grigia perché diversa dal nero e dal rosso, i colori di chi si era scannato per venti lunghi mesi». Oggi quel dolore, quello spaesamento, quelle anime turbate e minacciate negli affetti familiari emerge sotto forma di romanzo. Anzi, di romanzo storico visto che accanto a una trama inventata si muovono personaggi veri. La prova narrativa di Pansa, I tre inverni della paura (Rizzoli, 567 pagine, 21, 50 euro, in libreria dal 20 di questo mese) è appassionante, ben costruita e coniuga con maestria i moti del cuore con i dati storici. Si svolge nel cuore del “triangolo della morte”, ossia nell’Emilia agraria, povera e istintivamente feroce dietro una bonomia di facciata. All’autore, che oggi vive e lavora tra il Senese e Roma, abbiamo rivolto alcune domande. Pansa, lei ha a disposizione una documentazione sterminata. Lei ha anche parlato con testimoni e sopravissuti. Ma credo, visto che è nato nel 1935, che alle sue spalle ci sia un archivio, per così dire, del cuore… Certo. La mia famiglia viveva nel centro di una piccola città piemontese, Casale Monferrato. Senza essere esposti ai rischi di chi abitava in campagna o in montagna. Ma pure noi, di notte, sentivamo sparare di continuo attorno alla Casa del Fascio. La nostra strada aveva visto sfilare i partigiani destinati alla fucilazione e, insieme, i funerali dei fascisti caduti negli agguati della guerriglia. La paura dunque ha bussato anche alla nostra porta. Ricordo i momenti in cui io e mia sorella eravamo al balcone. Ho ancora nelle orecchie quei boati spaventosi. I nostri occhi si volgevano spesso al cielo in attesa dell’aereo che tutti chiamavano Pippo, quello degli alleati anglo-americani. Volava solitario e sganciava bombe. Il suo romanzo s’incentra, io direi finalmente, sulle vicende di chi non andò al fronte o nella boscaglia per sparare ai nemici. Un’epopea dei vinti senza divisa… La storia di Nora, che si ispira a un fatto storico ben preciso, riassume tutto lo smarrimento delle donne che vedevano entrare in casa la guerra. Su quel periodo e su quella zona dell’Italia centrale che conosco molto bene ho scritto tanti libri. Ma non eri mai riuscito a rendere quell’atmosfera di paura. Questo romanzo raggruma quel doloroso disorientamento, quella continua minaccia. Era guerra vera anche per coloro che, per età o perché donne, non indossavano una divisa. Io ricordo che noi bambini eravamo in qualche modo protetti dai bombardamenti. Ma mentre giocavo con mia sorella, vedevo i ponti di Casale crollare sotto le bombe, avvertivo il terrore pazzo di chi ci stava attorno. Eravamo sfollati a otto chilometri da casa, in una vecchia cascina. Ho bene impresso nella memoria il panico di una mia zia che pensò di morire quando fu fermata in due posti di blocco, uno dei fascisti e uno dei comunisti. Attorno a noi c’era un mattatoio. Pare che l’odore del sangue sia stato più acre in Emilia-Romagna… Il mattatoio c’è stato in tutte le regioni italiane. Nel centro-nord, in particolare in Emilia, le formazioni partigiane garibaldine erano dominanti. Erano numerosi i militanti del Pci clandestino. Per anni e anni Reggio Emilia è stata la roccaforte del Pci e la zona più rossa d’Italia. Quella è terra delle leghe dei contadini prima dell’avvento di Mussolini. Il granaio socialista era gonfio. Il Reggiano era molto povero, paragonabile al Polesine. Nello stesso tempo c’era il capitalismo agrario. Nel romanzo questo emerge bene, quando a casa Iotti, uno dei protagonisti, si riuniscono i possidenti per discutere i patti da siglare con i contadini e i mezzadri. Attorno c’era un cordone umano minaccioso. Nel suo libro si accenna ai sospetti attorno alla fine dei fratelli Cervi. Fucilati dai fascisti, questo è appurato. Ma lei ha raccolto delle voci che non fanno proprio piacere alla versione ufficiale… A Reggio si è sempre mormorato su questo fatto. I Cervi erano stati i primi a formare una banda partigiana. All’apparato militare del Pci questo dava un po’ fastidio perché ne minava la supremazia. Ai sette fratelli venne dato l’ordine di abbandonare l’Appennino e di agire in pianura. E loro risposero no. Aggiungendo, secondo alcune voci: siamo noi i veri partigiani, noi rimaniamo qui e non vi riconosciamo come capi. C’è il sospetto che la loro morte facesse comodo a qualcuno di importante? C’è, eccome. È comunque un fatto che un ufficiale della milizia fascista diventò partigiano ultrarosso. I Cervi non furono gli unici. Lei, e non solo nel romanzo, fa cenno ai fratelli Govoni. Una storia terribile e poco conosciuta. Erano sette giovani uomini e una ragazza incinta. Furono bastonati, massacrati. Opera di sadici, nel quadro della spaventosa resa dei conti del dopoguerra. Il conflitto mondiale s’era ufficialmente concluso, ma pareva che certe storie da noi non dovessero finire mai. Si ammazzava anche nel 1946, si continuava a vivere tra le fiamme di una lotta interna. Contadini, artigiani, professionisti, donne, preti, persone in odore di vaghe simpatie fasciste. Siamo sicuri di conoscere tutte le vittime della vendetta rossa? Assolutamente no. Molte famiglie non sanno dove pregare i loro cari. Dispersi, introvabili. Furono scoperte fosse comuni. Ma non tutte. Non mi meraviglierei che numerosi morti siano sotto i condomini edificati dopo. La domanda più ovvia: perché? C’era un’omertà diffusa. Gli ordini del partito comunista andavano nella direzione del silenzio. Noi giornalisti sappiamo bene che la prima vittima della guerra è la verità. Come scrisse Franco Antonicelli, l’apparato comunista disse: sfogatevi, ma dopo il ’48 non voglio più vedere morti per strada. E De Gasperi, che aveva formato un governo con Togliatti dal 10 dicembre 1945 al primo luglio ’46? Nel romanzo cito una sua frase, che davvero lui pronunciò dinanzi a un alto prelato: “Oggi con i comunisti, domani senza di loro, dopodomani contro di loro”. Molta gente pare ancora ignorare le scomodissime verità che lei ha descritto. Mi riferisco a certi politici e storici che non prendono atto della complessità della nostra guerra civile. Come mai? No, non “molta gente”, come dice lei. C’è comunque un accanimento quasi assurdo di alcuni accademici, ma la loro cecità culturale io la considero minoritaria nell’opinione pubblica e anche nelle scelte elettorali. In ogni caso non capisco perché si continui a sostenere che sono stati i partigiani da soli a liberare l’Italia occupata dai nazisti affiancati dai fascisti. Non è così. Il nostro Paese ha riconquistato la libertà e la democrazia soprattutto grazie ai sacrifici degli americani e degli inglesi che, nella lunga campagna d’Italia, hanno visto morire in battaglia decine di migliaia di loro giovani. Insieme a soldati francesi, canadesi, sudafricani, indiani, nepalesi, angerini, marocchini, senegalesi e volontari della Brigata Ebraica. Sono molte le cose che la indignano, vero? Sì. Non capisco perché si continui a sostenere che la guerra civile è stato un confronto tra angeli (i partigiani) e i diavoli (i fascisti della Repubblica Sociale Italiana). Le guerre sono sempre sporche. Quelle civili lo sono ancora di più. La mia patria morale è da sempre la Resistenza. Ma non accetto la retorica falsa per cui da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. La sinistra che afferma ancora questa grande bugia reca solo danno a se stessa. E andrà incontro a nuove sconfitte, perché un’opinione pubblica sempre più larga rifiuta questa lettura della guerra civile.
Posted on: Mon, 19 Aug 2013 12:02:49 +0000

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