STORIA DELLA CHIESA Medioevale IV PARTE: Il problema del - TopicsExpress



          

STORIA DELLA CHIESA Medioevale IV PARTE: Il problema del Concilio 553 il nuovo patriarca, nel giorno della sua intronizzazione (6 gennaio), consegnò al papa una professione di fede orto­dossa, firmata da Apollinare, patriarca di Alessandria, da Donnine, patriarca di Antiochia, e da Elia, arcivescovo di Tessalonica. Il 28 gennaio il papa approvava la professione di fede di Eutichio e dichia­rava di acconsentire alla riunione di un concilio ecumenico per trat­tar la questione dei Tre Capitoli, concilio da lui presieduto, che procedesse secondo giustizia (servata aequitate) e conformemente alle decisioni dei quattro concili ecumenici. Erano già state diramate alcune lettere di convocazione al con­cilio. Vigilio voleva che si tenesse in Sicilia o in Italia, affinché i ve­scovi di Occidente e specialmente dell’Africa vi intervenissero nume­rosi; Giustiniano si oppose e decise che ciascuno dei cinque patriarchi mandasse lo stesso numero di vescovi, il che conferiva ai Greci una schiacciante maggioranza. Invano Vigilio protestò; ben presto venne annunziato che i ve­scovi greci sarebbero stati 150, mentre a Costantinopoli vi erano appena 25 vescovi occidentali. Nessuno venne dall’Illirico, dalla Gallia, dalla Spagna, e coloro che rappresentavano l’Africa, erano stati scelti dal governo imperiale. Il papa, ammalato, era indeciso, per quanto Pelagio lo incoraggiasse alla resistenza, e chiese uno spazio di tempo prima di far conoscere la sua deliberazione. I documenti ci rivelano le sue esitazioni. Poco prima di Pasqua, Giustiniano gli propose l’arbitrato di un numero uguale di vescovi greci e latini: Vigilio rifiutò; qual­che giorno dopo rispose favorevolmente agli approcci fatti dai tre patriarchi di Costantinopoli, Antiochia ed Alessandria. Chiese infine la riunione di una conferenza tra lui, tre vescovi latini e quattro ve­scovi greci. Giustiniano non vi acconsentì se non a condizione che ciascun patriarca fosse presente o rappresentato da quattro vescovi. Il papa rifiutò e finì col dichiarare che avrebbe ammesso che il con­cilio deliberasse seguendo le sue proprie ispirazioni e che egli stesso avrebbe fatto conoscere la sua sentenza; il 1° maggio, però, Giustiniano gli faceva sapere, per mezzo di Belisario, che questa sentenza non sarebbe stata accolta. II 5 maggio, il V concilio ecumenico si riunì nel secretarium di Santa Sofia, spaziosa sala attinente al palazzo patriarcale. In assenza del papa, presiedeva il patriarca Eutichio, circondato dai patriarchi di Alessandria e di Antiochia, dai rappresentanti di Eustochio, patriarca di Gerusalemme, e da centoquarantacinque me­tropoliti o vescovi, sei dei quali venuti dall’Africa. Il concilio, innanzi tutto, diede lettura di un messaggio dell’imperatore, recato dal silenziario Teodoro: in esso Giustiniano ricordava gli sforzi dei suoi predecessori per far condannare le eresie dai concili, le decisioni dei quali erano state trascritte nelle leggi imperiali. Gli imperatori venivano così presentati come difensori della fede definita dai con­cili, e Giustiniano, fondandosi sulle consultazioni che l’imperatore Leone aveva chieste ai vescovi nel 457 riguardo al concilio di Calcedonia, presentava in modo del tutto inesatto la sua Professione di fede come una consultazione di tal genere. Per finirla con i residui dell’eresia nestoriana, egli dichiarava d’aver interrogato i singoli vescovi a proposito dei Tre Capitoli. Tutti li avevano condannati, ma, siccome vi erano ancora difensori di questa empia dottrina, l’im­peratore aveva convocato in concilio i vescovi per dar modo di manifestare la loro volontà. In quanto a Vigilio, «papa religiosis­simo dell’antica Roma», era anch’egli stato consultato dall’impe­ratore ed aveva lanciato l’anatema sui Tre Capitoli, assicurando l’imperatore che gli avrebbe fatto avere presto la sua risposta defini­tiva. Così, in forma deferente, Giustiniano, pregiudicava le decisioni del Concilio, segnandogli persino il programma dei lavori. Viceversa, la lettera sinodale di Eutichio a Vigilio, letta durante la prima seduta e firmata da tutti i vescovi presenti a Costantinopoli, sembrava che considerasse come intatta la questione dei Tre Capitoli. Tuttavia, alla fine della prima seduta, il concilio decise di man­dare al papa un’ambasciata per invitarlo a parteciparvi. Il 6 maggio, una numerosa deputazione, guidata dai tre patriarchi, si recò da Vigilio al palazzo di Placidia; il papa dichiarò che, essendo malato, gli occorreva un certo spazio di tempo, per far conoscere la sua deci­sione. Il giorno seguente l’invito fu ripetuto per ordine dell’impera­tore, e questa volta i patriarchi erano accompagnati dal magister officiorum e dal quaestor sacri palatii. Vigilio rimase irremovibile e dichiarò che non avrebbe presieduto, se non si fossero fatti venire al concilio altri vescovi italiani. Nella seconda sessione (8 maggio), il concilio, presa conoscenza della risposta del papa, passò oltre ed espose (3ª sessione) la sua professione di fede, dichiarando che avrebbe seguito in tutto le decisioni dei concili generali e le opinioni dei Padri della Chiesa, di cui venne fatta l’enumerazione, indi, il 12 (o 13) maggio, si diede lettura dei passi incriminati di Teodoreto, di Iba e di Teodoro di Mopsuestia. Senza punto esitare, il concilio si dichiarò d’accordo con l’imperatore per condannarli. «Era una gara a chi pronunciasse i più forti anatemi contro Teodoro, Iba e Teodoreto, o lanciasse le più entusiastiche acclamazioni in favore di Giustiniano, l’imperatore ortodosso, l’amico di Dio». Ma, il giorno seguente a questa sessione (14 maggio), il papa pubblicava la decisione che si era impegnato di dare entro venti giorni, senza essersi messo d’accordo con il concilio. L’atto, sotto­scritto da sedici vescovi (nove Italiani, due Africani, due Illirici, tre Asiatici) e da tre ecclesiastici romani, fra i quali Pelagio, era rivolto all’imperatore e ricapitolava tutte le peripezie della controversia fino all’apertura del concilio. Il papa poi esaminava sessanta proposizioni di Teodoro di Mopsuestia, e le condannava apostolicae sententiae auctoritate, rifiutando però di condannare la memoria di lui, perché morto nella comunione della Chiesa, e perché, del resto, era cosa inusitata condannare dei morti. Parimenti rifiutava di condannare Teodoreto ed Iba, perché non si doveva tornare sulle decisioni del concilio di Calcedonia, il quale li aveva liberati da ogni sospetto di nestorianesimo, per autorità della Sede Apostolica. Di conseguenza Vigilio vietava di scrivere o pubblicare cosa alcuna contraria al Consti­tutum e terminava con cinque anatematismi contro tutti coloro che impugnassero i Tre Capitoli con parole o scritti. Questo memoriale, dal tono fermo e moderato ad un tempo, destinato a salvaguardare l’opera dei concili precedenti e a portare la pace alla Chiesa, senza recriminazioni di sorta contro l’imperatore, senza alcuna scomunica per gli atti passati, è stato giudicato. Verosimilmente il 14 maggio, Vigilio mandò il diacono Servusdei ad avvertire i membri delle ambasciate inviategli precedentemente che la risposta all’imperatore era pronta. Costoro, cioè i vescovi Teodoro, Benigno e Foca, i patrizi Belisario e Cetego, i consolari Giustino e Costanzo, si recarono al palazzo di Placidia; ma, avvertiti del tenore della risposta, rifiutarono di accettarla senza un ordine dell’im­peratore, e dissero a Vigilio che poteva far portare direttamente al palazzo imperiale il documento da uno dei suoi diaconi. Servusdei fu incaricato di questa missione, ma Giustiniano si rifiutò di ricevere il Constitutum, dicendo che, se il papa vi condannava i Tre Capitoli, la sua iniziativa era inutile, poiché egli stesso li aveva già condannati, e, se invece ne prendeva le difese, si contraddiceva da sé, il che ren­deva la sua risposta inaccettabile. Giustiniano andò ancora più oltre. Per suo ordine, il quaestor sacri palatii recò al concilio, nella VII sessione (26 maggio), un inserto completo raccolto contro Vigilio, comprendente parecchie lettere del papa ad alcuni vescovi in difesa del suo Judicatum e tre documenti segreti in cui Vigilio prendeva decisamente posizione contro i Tre Capitoli: le due lettere consegnate a Giustiniano e a Teodora e il giuramento solenne prestato il 15 agosto 550, col quale Vigilio prometteva di non far nulla senza essere d’accordo con l’im­peratore e di impiegare ogni suo potere per farli condannare. Giustiniano chiedeva pertanto al concilio l’espunzione dai dittici del nome di Vigilio, tanto a Costantinopoli che altrove, per aver condannato i Tre Capitoli durante sette anni e per aver in seguito sconfessato le sue dichiarazioni più solenni. La lettera fu ricevuta senza opposi­zione dal concilio, che lodò lo zelo dell’imperatore per la difesa dell’unità della Chiesa. Il nome del papa fu cancellato dai dittici, ma il concilio non osò scomunicarlo, anzi aggiunse alla sua decisione una dichiarazione che affermava come tale provvedimento non intaccasse per nulla la comu­nione del concilio e dell’imperatore con la Sede apostolica. «Noi conserviamo, diceva Giustiniano nel suo messaggio, l’unione con la Sede apostolica ed è manifesto che voi pure la conserverete. Né il caso di Vigilio né quello di alcun altro, foss’anche peggiore, potrebbe nuocere alla pace delle Chiese»; e il concilio, approvando queste dichiarazioni, le faceva sue. Nell’intervallo tra la IV e la VII sessione, il concilio aveva pro­seguito l’inchiesta sui Tre Capitoli (V e VI sessione, 17 e 19 mag­gio 553) ed aveva ammesso, contrariamente al Constitutum, che era legittimo condannare i morti caduti nell’errore. Infine, il 2 giugno 553, nella VIII ed ultima sessione, il concilio emise la sua sentenza sotto forma di quattordici anatematismi riproducenti quelli dell’editto di Giustiniano. Esso condannava tutti gli scritti di Teodoro di Mopsuestia, le empietà di Teodoreto contro il concilio di Efeso e contro gli anatematismi di Cirillo, la lettera di Iba a Mari, in cui questi negava l’Incarnazione del Verbo ed accusava Cirillo di essere apollinarista [dottrina di Apollinare, vescovo di Laodicea (+ ante 392), ma attivo ad Antiochia. Contro gli ariani difese la divinità del Logos. L’uomo è composto da due o tre elementi: la carne e anima sensitiva e mente/intelletto, anima intellettiva, che formano insieme un essere perfetto. Nell’Incarnato il Logos divino deve prendere il posto dell’anima umana: Cristo è «Dio/Intelletto» nella carne. Cristo sarebbe un uomo maniera del tutto unica, un uomo celeste. La redenzione è possibile solo quando Dio e uomo sono effettivamente una sola cosa e quando colui che si è fatto uomo è senza peccato, senza conflitto di due volontà]; il concilio però accettava la dottrina dei primi quattro concili ecumenici, compreso quello di Calcedonia, che aveva rigettato gli scritti incriminati, pur riconciliandone gli autori con la Chiesa. Non si conosce nessun editto che abbia tradotto in articoli di legge le decisioni del concilio; sappiamo però da Cirillo di Scitopoli che Giustiniano mandò gli Atti del concilio in tutte le province ed esi­gette che fossero sottoscritti da tutti i vescovi, che non avevano partecipato all’assemblea. In Oriente, le adesioni furono facilmente conseguite e un concilio tenuto a Gerusalemme nel 553 approvò all’unanimità questi atti. Poche le opposizioni: il vescovo di Abyla fu deposto e, in Palestina, i monaci origenisti furono cacciati dalla Nuova Laura. Infatti, la questione origenista non era ancora sopita in Palestina, e i sostenitori della dottrina degli isocristi, secondo i quali, dopo la risurrezione finale, tutti gli uomini diverrebbero simili al Cristo, erano stati così influenti da far innalzare Macario, uno dei loro, a patriarca di Gerusalemme, dopo la morte di Pietro (autunno del 552). Ciò saputo, Giustiniano depose Macario, sostituendolo con Eustochio, diacono di Alessandria, e, prima dell’apertura del V con­cilio, riunì i vescovi presenti per informarli degli errori dei monaci di Palestina. I vescovi accettarono le conclusioni dell’imperatore, formulandole in quindici anatematismi. Da ciò le difficoltà incon­trate dal patriarca Eustochio quando volle far accettare i decreti del V concilio dalla Nuova Laura: finì col cacciare i ricalcitranti, sosti­tuendoli con monaci ortodossi, senza tuttavia poter ristabilire intera­mente la pace. Dopo il concilio, Giustiniano ricorse alle rappresaglie contro gli ecclesiastici romani: i diaconi Pelagio e Sarpato furono imprigionati, Rustico fu esiliato nella Tebaide. Secondo il Liber Pontificalis, anche Vigilio sarebbe stato esiliato e condannato a lavorare nelle miniere; ma ciò presenta qualche inverosimiglianza. Vigilio, soffe­rente di calcoli, sembra sia rimasto a Costantinopoli. Roma era stata occupata di nuovo da Narsete nel 552, e il clero romano invo­cava il ritorno del papa, assente dal 545; Giustiniano vi acconsentì a patto che il papa riconoscesse il V concilio. Dopo sei mesi di riflessioni, Vigilio scrisse al patriarca Eutichio una lettera, nella quale dichiarava di essere stato ingannato, egli e il suo clero, e che, quindi, non aveva alcuna vergogna a ritrattarsi, seguendo l’esempio di Agostino. Dopo avere scrutato nei santi Padri, egli riconosceva gli errori dei tre scrittori condannati dal concilio, e lanciava su di essi l’anatema (8 dicembre 553). 554 Il 23 febbraio, il papa pubblicava un secondo Constitutum, nel quale, dopo aver esposto la fede del concilio di Calcedonia, soste­neva che in tale concilio la lettera di Iba (della quale negava l’auten­ticità) non era stata approvata, e cercava di spiegare il voto dei legati romani al IV concilio. Dopo essersi riconciliato con Giustiniano, Vigilio rimase ancora un anno a Costantinopoli. Stando a Leonzio di Bisanzio, l’imperatore, che dopo il V con­cilio si riprometteva la riconciliazione dei monofisiti, non tardò a sentirsi deluso. Per di più, il concilio fu assai male accolto dai vescovi ortodossi d’Occidente, tenuti in disparte durante le delibera­zioni. L’opposizione fu particolarmente violenta in Africa, dove Primoso, sostituito a viva forza a Reparato nella sede metropolitana di Cartagine, era considerato un intruso dai vescovi della Proconsolare e della Numidia. Donde i brutali provvedimenti adottati dalle auto­rità civili contro i recalcitranti, i quali furono esiliati e maltrattati soprattutto dopo la pubblicazione del secondo Constitutum, che faceva apparire in Africa Vigilio come prevaricatore. Vittore, vescovo di Tunnuna, dapprima imprigionato, indi esiliato alle Baleari, fu infine internato in Egitto, a Canopo, contemporaneamente a Teodoro, vescovo di Cabarsussi. Felice, abate di Gillitanum e autore di un memoriale contro il concilio, fu internato a Sinope (557). Primasio, vescovo di Adrumeto, fu rinchiuso nel monastero di Studion; il dia­cono Liberato andò a raggiungere Reparato vescovo di Cartagine nell’esilio di Euchaìta. Altri riuscirono a nascondersi, come Facondo, vescovo di Ermiana, il quale, essendo stato scoperto, dovette comparire nel 564 davanti all’imperatore e al patriarca, come pure parecchi vescovi africani citati a Costantinopoli. Rifiutando di sotto­scrivere agli atti del concilio, furono gettati in prigione. Molti di questi vescovi ed ecclesiastici africani morirono nella miseria. La situazione rimase torbida, per quanto Primoso riuscisse a far ricono­scere i suoi poteri dalla maggior parte dei vescovi della Proconsolare e della Numidia (554-555). I vescovi dell’Illirico, che avevano rifiutato di partecipare al concilio, furono anch’essi sottoposti a rigorosi provvedimenti. Nel 554, Fronzio, metropolita di Salona, citato a Costantinopoli per aver difeso i Tre Capitoli, fu esiliato nella Tebaide e sostituito da un altro vescovo. Verso il 556, alcuni vescovi di una provincia indeterminata (forse l’Illirico occidentale) rivolsero a Giustiniano un memoriale in cui era vivamente criticata la con­danna dei Tre Capitoli, presentata come una soddisfazione data ai monofisiti. Questo memoriale è andato perduto, ma lo si conosce dalla risposta di Giustiniano. Questi, nella sua lettera, riproduceva parte della sua professione di fede e rimproverava ai vescovi di essersi separati dai loro colleghi ed orgogliosamente paragonati agli Apostoli. Additava inoltre, nel loro memoriale, parecchie proposi­zioni eretiche e stigmatizzava l’empio dottore venuto a turbare la pace della provincia (forse Fronzio). La pace non fu per questo ristabilita nell’Illirico, le cui Chiese fecero causa comune con quelle del patriarcato di Aquileia contro il concilio. Il successore di Fronzio a Salona, Probino, che ne condi­videva le dottrine, dovette rifugiarsi ad Aquileia. Imprigionato per l’opposizione al concilio, il diacono Pelagio, dalla sua prigione, compilava alcuni trattati in cui deplorava le debolezze di Vigilio e soprattutto la sua resa finale. Pelagio faceva l’apologia del primo Constitutum, scritto, se non da lui stesso, almeno sotto la sua ispirazione, e dimostrava che non c’era contraddizione tra il concilio di Calcedonia, che aveva rista­bilito Iba e Teodoreto nei loro vescovati senza condannarne gli scritti, e quello di Costantinopoli che non si era preoccupato di que­sta riabilitazione, e che peraltro aveva ogni ampia facoltà di pronun­ciare una sentenza dottrinale su tali scritti. Pelagio, in questo trattato, era manifestamente sulla via che doveva portarlo all’accettazione del V concilio e alla riconciliazione con Giustiniano; questi infatti lo rimandò in Italia. Giustiniano emana la Prammatica Sanzione, che riorganizza l’Italia in modo da cancellare ogni traccia dell’odiata dominazione gotica: tutti gli atti di Totila (sconfitto da Narsete nel 553) vengono annullati; tutte le terre della Chiesa gotico-ariana sono confiscate e date alla Chiesa cattolica, a cui vengono restituite le terre confiscate dai goti; tutte le terre confiscate dai goti nella misura di 1/3 vengono restituite ai primitivi proprietari romani. L’aristocrazia italica, se viene reintegrata nei possedimenti terrieri, si vede privata degli antichi privilegi e ridotta al rango di aristocrazia provinciale, alla mercé dell’amministrazione e del fisco di Bisanzio. Il comitatus (il complesso di cariche e onori spettanti a una sede imperiale) cessa di esistere. Per far carriera si deve andare a Bisanzio e confondersi con una fitta schiera di cortigiani e postulanti. 556 Pelagio fu eletto e consacrato il 16 aprile, sotto la protezione di Narsete, governatore militare d’Italia; il vescovo di Ostia, consacrante d’ufficio dei papi, si fece rappresen­tare da un semplice ecclesiastico alla cerimonia, alla quale non assi­stettero che due vescovi invece dei tre richiesti dai canoni. Parecchi monasteri ed alcuni membri del clero rifiutarono di comunicare con Pelagio, il quale, per far cessare questa opposizione, dovette emettere in San Pietro una professione di fede, in cui protestava il suo attac­camento ai quattro primi concili ecumenici e in particolare a quello di Calcedonia, omettendo tuttavia il V concilio. Per mezzo di questa poco gloriosa dichiarazione, nella quale giungeva fino a chiamar venerabili vescovi Iba e Teodoreto, Pelagio ottenne la pace in Roma; ma i vescovi della Liguria, Emilia, Venezia ed Istria, ai quali si unirono quelli della Dalmazia, rifiutarono di comunicare con lui. Capo dell’opposizione era Paolino, metropolita di Aquileia. Pelagio mandò in quelle regioni alcuni ecclesiastici romani ed intimò al patrizio Narsete, che gli pareva troppo tiepido, d’inter­venire, se occorresse, con la forza. Chiese pure che i metropoliti di Aquileia e di Milano fossero tradotti sotto buona guardia a Roma, per comparire in sua presenza; ma Narsete si astenne da ogni inter­vento. La doveva spegnersi completamente se non alla fine del VII secolo. Pelagio mandò pure la sua professione di fede in Italia, e in Gallia, a Childeberto, re dei Franchi. 565 Fino al termine della sua vita, Giustiniano fu assillato dal desi­derio di riconciliare i monofisiti, ma l’ultima sua inconsiderata inizia­tiva trascinò lui stesso in quell’eresia che voleva sradicare. Secondo Giovanni d’Efeso, fu un vescovo di Giaffa ad esporre all’imperatore l’aftartodocetismo, una dottrina diffusa da Giuliano di Alicarnasso in Egitto, dove aveva incontrato grande successo. Secondo tale dottrina, le sofferenze di Cristo durante la Passione non sarebbero state reali se non per un miracolo speciale, dovuto alla sua volontà. Giustiniano si persuase che un insegnamento simile potesse interpretarsi in maniera orto­dossa, in quanto non rappresentava che la dottrina dell’unità spinta alle estreme conseguenze. Conforme alla sua abitudine, Giustiniano preparò un editto dog­matico, che pretese imporre a tutti i vescovi; ma incontrò subito l’opposizione del patriarca Eutichio. Irritato e più intransigente che mai, Giustiniano lo fece arrestare (22 gennaio), e siccome Eutichio rifiutava di comparire davanti ad un tribunale di vescovi, fu deposto in contumacia sotto i più futili pretesti ed esiliato nel suo antico monastero di Amasea nel Ponto. Il 19 aprile seguente, l’im­peratore gli diede come successore Giovanni lo Scolastico, oriundo dei dintorni di Antiochia e distinto canonista, del quale ignoriamo se accettasse la dottrina imperiale. La notizia di quest’ultima iniziativa di Giustiniano si diffuse subito per tutta la cristianità. In Gallia, alcuni Siri monofisiti fecero correr la voce che Giustiniano fosse caduto negli errori di Nestorio e di Eutiche; Nicezio, vescovo di Treviri, scrisse all’imperatore per distoglierlo ed esortarlo a non più perseguitare gli ortodossi. Ma l’opposizione si manifestò soprattutto ad Antiochia, dove il patriarca di Antiochia Anastasio riunì un concilio di centonovantacinque vescovi. Tutti si dichiararono pronti ad abbandonare le loro sedi piuttosto che accettare le dottrine dei fantasiasti, come venivano chiamati gli aftartodoceti. Fu inviata all’imperatore dal patriarca e dai vescovi una lettera scritta in termini rispettosi, ma assai fermi, e per i monasteri della Siria vennero diffuse circolari allo scopo di metterli in guardia contro la nuova eresia. Il patriarca Anastasio si aspettava di essere espulso dalla sua sede, ed aveva già preparato un discorso di addio al suo popolo, quando sopravvenne la morte di Giustiniano, il 14 novembre: aveva 82 anni e regnava da trentotto anni. È molto difficile formulare un giudizio sintetico su di un’opera così complessa e piena di contraddizioni come quella di Giustiniano: alcuni lati di essa si manifestarono ben presto caduchi, altri invece formarono la base della civiltà europea. Considerando di quest’opera soltanto il lato religioso, la legislazione ecclesiastica di Giustiniano è una delle principali fonti del diritto canonico delle Chiese orien­tali; egli poi, con la sua diplomazia e con l’aiuto potente dato alle missioni, contribuì molto alla diffusione del Cristianesimo. Invece la sua politica religiosa fallì completamente. Infatuato del suo sapere teologico, ma in realtà docile all’influenza esercitata su di lui succes­sivamente da Teodora, da Teodoro Askida, da Pelagio e da molti altri ancora, egli predette che il redigere dei formulari bastasse a metter fine ai malintesi che dividevano le Chiese, ed, in virtù della sua onnipotenza e della sua responsabilità davanti a Dio, si arrogò il diritto di troncare di propria autorità le questioni dogmatiche, di dirigere e di sollecitare gli sforzi della Chiesa, di sostituire perfino la propria azione a quella della Chiesa stessa, e di considerare infine come ribelli tutti coloro, anche gli stessi più alti dignitari ecclesiastici - papi, patriarchi, vescovi - che avessero osato resistere alla sua volontà. La sua tumultuosa attività, i suoi colpi di forza, seguiti da mu­tamenti repentini, le persecuzioni, gli esili, le deposizioni di vescovi, riuscirono soltanto ad inasprire le polemiche e a rendere impossibile quel ritorno all’unità che egli aveva sognato. La sua morte liberò la Chiesa dalla nuova persecuzione che stava preparando. Con tutto il rispetto che dimostrava alla Sede apostolica, umiliò crudelmente la Chiesa romana e lasciò l’Occidente alla vigilia di uno scisma. In Oriente, le gravi concessioni da lui fatte ai monofisiti non porta­rono, a giudizio dei suoi stessi contemporanei, a nessun risultato. I Siri e gli Egiziani giacobiti rimanevano inconciliabili. Alla fine del suo regno, Giustiniano lasciava la Chiesa ancor più turbata di quanto lo fosse al suo avvento, e trasmetteva agli eredi il compito schiacciante di riparare i suoi errori.
Posted on: Wed, 23 Oct 2013 22:02:22 +0000

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