STORIA INCREDIBILE DI GABRIELA (CHE STACCÒ L’ANIMA E IL CORPO - TopicsExpress



          

STORIA INCREDIBILE DI GABRIELA (CHE STACCÒ L’ANIMA E IL CORPO E NON MORÌ E A LOS ANGELES SI INVENTÒ LEGGENDA) - di Luca Ronchi. La protagonista di questa storia si chiama Gabriela. I fatti hanno il loro epilogo in California, a metà degli anni Ottanta. Gabriela deve finire un lavoro. C’è un caldo pazzesco e si sta sentendo male, ma deve finire quel lavoro a tutti i costi. Anzi, deve finire “il” lavoro, il lavoro della sua vita. Sa che non gli verrà bene come aveva sperato ma lo vuole finire. E pazienza se non sarà perfetto, alla fine. Nelle cose, come nelle azioni e nelle persone, vivono storie. Una, di solito, è quella principale, la storia su cui grava il compito di dare un’identità a ciò che incarna, in modo che si possa dire “ecco questa cosa è così, questa situazione è cosà, oppure, quella persona è uno stronzo, oppure, è un angelo” ecc. Poi però in una storia, in un oggetto o in un essere vivente, basta che ti scosti un attimo dalla traiettoria normale e ti accorgi che dietro un nome e un’identità ufficiale c’è spesso un abisso colorato e senza fine. Dove nuotano le possibilità. Gabriela sta quasi per morire; forse se lo sente, sicuramente se lo chiede. Spera di farcela ma ha paura. Il suo corpo bolle. Non è ancora asciutto ma scotta. Ha pochi liquidi, pochissimi sali, ha il ferro sotto le scarpe e anche la pressione è da Pronto Soccorso. Non è che lo sappia. Lo sente, si sente così. Ma quel lavoro lo deve finire a tutti i costi. Sono andati via tutti, ormai. Tutti chi? Tutti gli altri. Certo, ci sono quelli che la guardano immobili ma Gabriela non ci pensa nemmeno a farsi toccare da loro: un lavoro abbandonato è infinitamente peggio di un lavoro uscito come non doveva. Questa è l’idea cui si appoggia tra un capogiro e l’altro; le è venuta su da quell’abisso di colori in movimento che sta dietro le cose: è la sua possibilità. Il sole continua a bollirle il cervello nel cranio. Nonostante il cappellino con visiera, nonostante l’acqua che qualcuno ogni tanto le butta addosso. A un certo punto Gabriela lo vede. Cazzo, ci siamo. È lì davanti, manca poco. È pieno di bandiere, è circondato di macchine e di antenne e c’è un sacco di gente che inizia ad accalcarsi lungo la strada. Mamma mia che casino che si sente. È il Memorial Coliseum ed è pieno di gente intenta a guardare quello che le va, c’è chi guarda i lanci, chi i salti, chi aspetta una batteria di velocisti e chi va a cercarsi un bicchierone di pop corn con coca allegata. Nessuno di quelli che sono dentro immagina quello che sta per vedere. Gabriela zoppica, ha sempre più paura di morire ma ormai il lavoro è quasi finito. Vede il cancello, lo punta e lentamente lo attraversa. Il casino è impressionante ma non è ancora nulla. Gabriela vede un muro di folla sulla sua destra; il muro lentamente gira su se stesso, torna indietro e la prende alle spalle. È circondata, è dentro. Ed è una bolgia. Il casino inizia lentamente a smorzarsi. Diventa sopportabile, diventa discreto, diventa curiosità e attenzione. Poi diventa un silenzioso rumore di fondo. Gabriela sente una specie di anestesia dentro. Dev’essere la dopamina, o la serotonina, o una di quelle cose che il cervello si fa produrre per sé e per il resto del corpo. La chiamano la droga dell’atleta dilettante ed è legale, come il sangue e l’aria. Il silenzio diventa brusio, un brusio che ce l’ha con lei. Ormai l’hanno vista tutti. Cosa cazzo vuole questo? Togliti, ce la faccio, non vedi dove sono arrivata? Non vedi che forse sto per morire e sono ancora in piedi? Tutti si avvicinano ma non la toccano, che se ci provano si prendono una manata. Gabriela va avanti. Tutti la guardano e piano piano, uno alla volta, in più di centomila si alzano in piedi e le telecamere li inquadrano mentre iniziano a parlare tra di loro. Guarda! Guarda quella! Ma cos’ha? Non ci arriva. Ci arriva. Ce la fa. Dai. Vai. Vai che sei dentro, vai che sei arrivata. Vai che ci siamo anche noi. Eri qui per questo, no? Gabriela è piegata su un fianco e si tiene la testa con la punta delle dita; il cappellino è ben fermo al suo posto. Tre uomini vestiti di bianco la seguono e la guardano. Lei li vede e va avanti. Completa il suo giro di pista. È un giro infinito. Vede il traguardo. È lì fermo ed è il suo. Quella linea che si avvicina oscillando è solo sua, per sempre. I centomila che la guardano dal muro di gente e i milioni che la vedono da casa assistono a una cosa impossibile per qualsiasi scienza ma anche per la maggior parte delle filosofie e delle religioni: vedono un’anima che trascina un corpo. I tre che le camminano a fianco allungano il passo e le si piazzano davanti. Lei li guarda, vede il traguardo sotto di sé, lo scavalca con i piedi e si lascia prendere in braccio. Lo stadio scoppia. Ha vinto lei.
Posted on: Fri, 15 Nov 2013 05:34:56 +0000

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