STORIA & REVISIONISMO 2 PARTE di A. CASALGRANDE errata a bella - TopicsExpress



          

STORIA & REVISIONISMO 2 PARTE di A. CASALGRANDE errata a bella posta, perché nel numero furono compresi tutti i deceduti della zona di Marzabotto dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945; morti per malattie, bombardamenti angloamericani, scoppi di mine I morti ufficialmente dichiarati ( per voce comunista), furono 1800.Ma questa cifra è di gran lunga, fascisti uccisi dai partigiani, partigiani non comunisti uccisi dai comunisti…. Nel mausoleo eretto a Marzabotto, le salme furono 808, ma di queste, 195 erano di persone uccise da mine e di militari deceduti nella prima guerra mondiale. Perciò, i morti di Marzabotto, della rappresaglia nazista, furono 600. Numero alto di persone barbaramente assassinate dai nazisti, certo; ma si tenga presente il precedente stillicidio di civili italiani, soldati tedeschi, assassinati dai rossi spesso in modo feroce e spietato, non secondo le leggi militari, ma secondo l’odio politico e la legge della guerriglia terroristica. Quindi, quando si celebra la triste ricorrenza di quella rappresaglia, gli oratori, invece di ricordare solo le vittime, abbiano il coraggio di dire il perché ed il percome sono morte, non per scusare gli assassini, ma per ricordare agli italiani, mai volutamente informati, che quelle donne, quei bambini e quegli uomini, furono consciamente fatti immolare per convenienza e speculazione politica. Ma in Italia, perché ciò accada, ci vorranno ancora sessant’anni……Anche quando nel corso di trasmissioni televisive, si ricostruiscono questi fatti, si abbia il coraggio di dire come si comportarono i guerriglieri, e non si faccia l’espressione di “chi la sa lunga”…ma stigmatizza solo l’effetto e non la causa. Perché nessuno, a guerra finita, processò mai quegli assassini che accopparono gente inerme solo perché aveva una tessera o simpatizzante, fosse madre, o moglie, o figlio di militare della RSI. Tutto andò nel dimenticatoio con l’etichetta: ”Fatti di guerra”. La rappresaglia di Boves. Una banda partigiana, che si formò nel cuneese dopo l’8 settembre 1943, fu quella di Boves. Su questa banda, la cui attività provocò le prime rappresaglie tedesche, fu stampato un opuscolo, nel 1964, a cura del Comune di Boves. Eccone il testo: “8 settembre 1943. Alcuni alpini bovesani, sfuggiti alla cattura dei tedeschi nella stazione di Nizza, raggiungono Boves attraverso le montagne, con il loro capitano Ignazio Vian. “10 settembre 1943.Entusiasmo della popolazione che aiuta i partigiani a svuotare le polveriere per trasferire viveri e munizioni sulla Bisalta. “13 settembre 1943. Il maggiore Peiper, comandante del battaglione SS,si precipita su Boves con molti carri armati, fa 350 ostaggi, e minaccia con un bando la distruzione del paese, se i partigiani non si arrenderanno entro le ore 18. “10 settembre 1943.Il maggiore Peiper, sempre più in forze, fa la sua seconda irruzione su Boves, minaccia la distruzione immediata se i partigiani non si arrenderanno subito, e cannoneggia le ville sulle colline per far capire che fa sul serio. Viene ucciso il primo ufficiale dell’esercito, che volontariamente si era unito ai partigiani di Boves. “19 settembre 1943. Il maggiore Peiper, con perfida astuzia, manda due soldati tedeschi sulla piazza principale di Boves, nella certezza che verranno uccisi o fatti prigionieri dai partigiani, per creare il casus belli, e poi piomba con i suoi carri armati sul paese. Manda poi due ambasciatori ,don Giuseppe Bernardi , parroco di Boves, e l’industriale Antonio Vassallo, per fare restituire i due prigionieri, e quindi, a restituzione avvenuta ,mancando alla parola data, li finisce a colpi di pistola e ne brucia i cadaveri con i lanciafiamme. Sguinzaglia poi la sua soldataglia, che massacra 45 civili ed incendia 350 case” Questa epica versione, risultò poi, secondo testimonianze di molti bovesani, e delle stesse fonti partigiane, del tutto inattendibile.Secondo la cronaca storica di Giorgio Pisanò, si erano raccolti, sulle colline di Castellar e di San Giacomo, presso Boves, tra il 9 ed il 12 settembre, circa 1000 soldati della disciolta IV Armata, in prevalenza meridionali che volevano tornare al Sud, assieme a giovani piemontesi, che temevano d’essere rastrellati e portati a lavorare chissà dove, dai tedeschi.I giovani, guidati da ufficiali, erano ben equipaggiati, ed osservavano una discreta disciplina militare. Queste forze, credevano ad un imminente sbarco Angloamericano in Liguria.Anche i tedeschi, impensieriti da una probabilità del genere, intendevano “ripulire” le loro retrovie. Il 16 settembre, un reparto tedesco, guidato dal maggiore Peiper, arrivò a Boves, avvertendo con manifesti che era necessario che i reparti dell’ex-regio esercito acquartierati a Castellar e San Giacomo si consegnassero. In caso contrario, i tedeschi avrebbero ripulito la zona, con danno anche della popolazione civile. I partigiani non risposero. Il 19 settembre, una camionetta tedesca, andò in panne sulla piazza di Boves. Arrivò in quel momento un camion di partigiani da San Giacomo. Questi, presero in ostaggio i due tedeschi della camionetta, e li portarono via con loro. Un’ora dopo, una colonna di SS raggiunse San Giacomo, ove venne accolta da spari. Un ufficiale tedesco restò ucciso. Allora, il maggiore Peiper andò dalle autorità di Boves, pretendendo la restituzione dei due militari prigionieri dei partigiani. Andarono dal maggiore Peiper due cittadini di Boves:il parroco Don Giuseppe Bernardi, e l’industriale Antonio Vassalli, con l’intendimento di andare a parlamentare col comando partigiano affinchè rilasciasse i due soldati tedeschi prigionieri. I due andarono dai partigiani; questi discussero violentemente la proposta, e alla fine rilasciarono i tedeschi. La banda si disperse, ed attorno al tenente Ignazio Vian restò una decina di uomini.Don Bernardi ed Antonio Vassallo, tornarono a Boves con i due tedeschi. Sembrava che tutto si fosse appianato. I tedeschi decisero allora di andare a fare una perlustrazione a San Giacomo, per verificare che i partigiani se ne fossero davvero andati. Dei mezzi leggeri, andarono così in quella zona, e, quando vi giunsero, i militari scesero dalle camionette per sgranchirsi le gambe. Ma gli uomini di Ignazio Vian, che si erano appostati, aprirono il fuoco ed uccisero diversi tedeschi. Allora, il maggiore Peiper arrivò in forze, e disperse i pochi partigiani. Tornato in paese, fece fucilare il parroco e l’industriale, ritenendoli responsabili di quella specie di trappola, e ne fece bruciare i cadaveri con i lanciafiamme. Fucilò 23 bovesani, ed incendiò parecchie abitazioni. Resta incomprensibile il fatto che il Comune di Boves, quando fece la pubblicazione menzionata qui all’inizio, avesse citato come decedute 45 persone, mentre la lapide nella piazza ne elenca 23.Come si vede, in questa occasione, ma come del resto in tutte le altre vicende di rappresaglie, esiste sempre ed immancabilmente un casus belli provocato dai partigiani, sul quale, in tutte le commemorazioni ufficiali, dalla fine della guerra, si sorvola bellamente, e la gente che non s’intende di storia, e non conosce questi fatti, beve tutte le storielle che vengono ufficialmente raccontate, presenti le autorità ed i rappresentanti di quei corpi che furono, checchè se ne dica, forze irregolari, sotto l’egida non del governo del Sud, ma del Partito Comunista Italiano, almeno all’80%. I tedeschi, potevano avvalersi, o no, delle clausole della Convenzione dell’Aja, riguardanti le rappresaglie. In diverse situazioni, non se ne avvalsero, in altre, come negli episodi sin qua raccontati, se ne avvalsero. Dal loro punto di vista di militari, non fecero che applicare quanto era loro consentito, e non si può dire che fecero ciò che non dovevano fare, secondo la logica del senno di poi e del ragionamento di parte. Furono coloro che provocarono le rappresaglie, che dovevano pensarci prima ; essi fecero non delle azioni belliche, ma degli attentati di tipo terroristico, in funzione delle rappresaglie che ne sarebbero inevitabilmente seguite. La logica della politica, specie se di tipo marxista, si sa, è spietata, e non bada alle spese (altrui). Le Foibe. Le Foibe, sono cavità naturali che si trovano nella Venezia Giulia. In genere, si presentano come spaccature del terreno, come dei grossi buchi nella roccia. Facendo una immaginaria sezione verticale di tali fenditure, ci si presenta una forma ad imbuto rovesciato, la cui profondità varia da pochi metri, sino a qualche centinaio. Nella prima guerra mondiale, alcune di queste cavità divennero un deposito di ferraglie militari, cannoni, bombe ecc. Nella seconda guerra mondiale, le foibe divennero il cimitero naturale per moltissimi italiani, tedeschi, e a volte anche militari inglesi e neozelandesi. Quante furono le persone disperse in queste caverne verticali? Da una stima approssimativa di molti storici, si va da un minimo di 12.000 ad un massimo di 20.000, secondo stime assai prudenti. Quali furono i motivi per cui vennero gettate, queste persone, nelle foibe? Il motivo principale è da ricercarsi senz’altro nell’odio politico degli slavi nei confronti degli italiani, nel desiderio di eliminare per sempre la etnia italiana dall’Istria e dalle zone intorno a Trieste. Non furono eliminati solo militari italiani e tedeschi, ma in gran parte semplici civili, contadini, impiegati, insegnanti, preti, operai, e tanta gente che con il fascismo non aveva nulla a che fare, ma aveva il grande torto di essere italiana. A Trieste, durante i 40 giorni dell’occupazione dei Titini, infuriarono le persecuzioni antiitaliane, e con l’aiuto dei partigiani comunisti italiani, con il beneplacito della dirigenza del PCI. I partigiani non comunisti, come quelli della Brigata Osoppo, fecero una brutta fine, finendo massacrati dai comunisti, i capi dei quali ricevettero, a guerra finita, anche la pensione dall’INPS italiano.Si parla delle Foibe da una dozzina d’anni; prima, chi osava solo parlarne, veniva subito tacciato di “fascista”….così come si impediva, appena terminata la guerra, ai familiari dei “fascisti” uccisi, di andare a piangerne le spoglie, quasi ciò costituisse un affronto alla “resistenza”.Il tema era tabù, e tale doveva restare. Quando però, con l’andar degli anni, molti storici vennero a parlarne, grazie anche ai ritrovamenti di spedizioni speleologiche, con il rinvenimento di tanti resti umani, allora se ne potè discutere, ma senza fare commenti sugli autori degli eccidi. Quei morti…”erano la giusta risposta alle persecuzioni fasciste contro le pacifiche comunità slovene e croate”……”Quei morti, erano tutti dei fascisti responsabili di crimini contro le comunità balcaniche”………….E poi……quanti erano mai questi morti? Al massimo, qualche centinaio…….non le migliaia di cui vociferava la stampa reazionaria!!…..Il sistema adottato dai comunisti, era sempre lo stesso.Prima, bisognava negare, parlando sempre di “Provocazione”……poi, a fatti accertati, i comunisti parlavano di “Fatti già noti”………e infine, a fatti accertati, poi di ”Speculazione e strumentalizzazione”…… minimizzando sempre i fatti. Sempre imbattibili nella propaganda, e fabbricatori di slogans di facile presa sul popolo.E allora, andiamo a revisionare le storia delle Foibe. La situazione della Venezia Giulia nei primi mesi del 1945. Le forze fasciste avevano cercato, sul finire della guerra, un accordo con i partiti antifascisti moderati, per far fronte comune contro l’avanzata degli Slavi di Tito. Questo accordo fallì, perché i partiti antifascisti si illusero che gli americani arrivassero quanto prima, o almeno prima dei Titini.I comunisti, invece, stavano già dall’altra parte, con i Titini, nel “Fronte di liberazione Italo-Sloveno” .Purtroppo, gli Angloamericani arrivarono a Trieste volutamente in ritardo, lasciando per 40 giorni i triestini alla mercè delle truppe di Tito.Nel pomeriggio del 28 aprile, un gruppo di giovani percorse le vie della città , con cartelli, bandiere tricolori e coccarde. Il federale di Trieste decise di cedere tutte le armi dei fascisti ai rappresentanti del Comune, che iniziarono a girare con bracciali tricolori. Questo fatto irritò moltissimo i tedeschi. Il podestà, e gli altri esponenti triestini, pensarono che la cosa migliore era non opporsi ai tedeschi, che avevano ancora notevoli forze, affinchè questi potessero resistere agli slavi sino al giungere degli Americani. Ma gli esponenti del CLN, decisero diversamente. Attaccarono i tedeschi, con poche centinaia di uomini (e non 3000 come si raccontò a guerra finita), ma furono sanguinosamente battuti. Arrivarono i militari titini del IX Corpus, al quale dettero man forte i partigiani del CVL triestino. I tedeschi vennero battuti, e demoralizzati dalle brutte notizie provenienti dalla Germania, ed iniziarono a ritirarsi. I rappresentanti del CVL (Corpo Volontari della Libertà), accolsero…..fraternamente gli slavi, i quali subito disarmarono gli italiani. Dal 3 maggio, il potere fu assunto dagli slavi. Tutti i rappresentanti del CVL vennero ricercati e fuggirono per non farsi arrestare. Palmiro Togliatti inviò un messaggio in cui si invitavano tutti i lavoratori italiani a mettersi al servizio delle truppe di Tito per “schiacciare le ultime resistenze tedesche e farla finita una volta per sempre con il fascismo”.Ma la città di Trieste rifiutò di consegnarsi agli slavi, ed il 5 maggio, 50.000 italiani dettero una calorosa dimostrazione pubblica di attaccamento alla Patria, Furono dispersi a suon di mitragliatrice, e una decina rimasero uccisi. Nel frattempo, erano arrivati reparti neozelandesi, comandati dal Generale Freyberg, che, tuttavia, non aiutò per nulla i triestini. Dal 5 maggio, iniziò il calvario di tanti italiani, uccisi e gettati nelle foibe.Fu dichiarata l’annessione di Trieste alla Jugoslavia di Tito, nel salone del Comune imbandierato da vessilli titini, ed anche i rappresentanti americani e sovietici brindarono alla “seconda fondazione di Trieste”……Trecentonovantasette partigiani comunisti italiani, formanti la “Guardia del popolo”, aiutarono i titini nell’opera di repressione contro i triestini: l’elenco di costoro fu pubblicato nel terzo volume di Giorgio Pisanò “Storia della guerra civile in Italia 1943-1945”.Con nome, cognome, data di nascita e recapito.A Gorizia, 250 carabinieri che si erano opposti ai titini, furono sopraffatti e massacrati in foiba. Nella città, comandavano i delinquenti comuni che si erano dichiarati comunisti. Contadine analfabete iugoslave, con il mitra a tracolla, invasero gli uffici, divenuti alberghi dove si mangiava e si dormiva in promiscuità. Era il caos completo. Fu istituito il lavoro obbligatorio per gli uomini e le donne dai 18 ai 50 anni. Gli impiegati italiani furono esautorati dal lavoro, salvo che si dichiarassero comunisti. Agricoltori e commercianti dovettero consegnare ai nuovi padroni denaro e cose, secondo le richieste dei nuovi arrivati. Gli operai delle industrie, furono obbligati a rinunciare al salario e costretti a mangiare nelle mense collettive. Chi osava esporre un tricolore, veniva bastonato. Gli ospedali furono invasi da infermieri e studenti in medicina jugoslavi, che comandavano ai medici italiani. Dappertutto, ritratti di Tito e di Stalin, con la scritta “Morte al fascismo- Viva la libertà dei popoli”. Le derrate alimentari, che durante la guerra non erano mancate, iniziarono a scarseggiare. Sporcizia e devastazione dappertutto.Intanto, migliaia di italiani venivano prelevati e nottetempo trasportati con automezzi non si sa dove. Vane furono le richieste dei familiari, cui i titini rispondevano evasivamente o con sghignazzate. Dopo i 40 giorni di terrore titino, la verità si fece strada.A Trieste, erano scomparse 5000 persone. A Gorizia, 4000. Dall’ Istria, 2000 persone. Nell’Udinese, oltre un migliaio. In totale, circa 12.000 persone.Dopo la fine della guerra, iniziarono le ricerche di quei morti. Si accertò così che, nelle foibe che si elencano, erano state gettate migliaia di persone, spesso vive. Foiba di Basovizza. Questa foiba, non era una cavità naturale, ma un pozzo per la ricerca di carbone. La sua profondità era, nel 1904, di 256 metri. Oggi, la profondità è di 135 metri. I 121 metri di differenza, sono costituiti da oltre 500 metri cubi di resti umani. Calcolando quattro morti per ogni metro cubo, gli italiani gettati nella foiba sono circa 2500, di cui: 1000 civili rastrellati a Trieste tra il 1° ed il 15 maggio; 500 Guardie di Finanza e Carabinieri, e circa 1000 soldati della RSI.Dalla cavità, furono estratte 600 salme, e tra queste quelle di 23 soldati neozelandesi ancora con la divisa.…… Foiba di Monrupino. Si trova ad 11 km da Trieste, lungo la linea ferroviaria Trieste- Monfalcone. Ha un diametro di sette metri ed una profondità di 126 metri. In questa foiba giacciono circa 2000 morti. Purtroppo, in questa voragine scorrono acque di varii impluvi, che hanno trasportato i resti umani ancor più nel profondo. E’ perciò difficile estrarre quanto rimase di quei corpi. Foiba di Cernovizza. Vi furono gettate circa 200 persone. Nel settembre 1945, gli slavi, onde prevenire qualsiasi ricerca, fecero franare l’imboccatura della voragine. Foiba di Gropada. Vi furono gettati una cinquantina di triestini. Foiba di Minerva. Vi fu gettato un centinaio di persone. Non potendo recuperare salme, il Comune di Trieste vi ha chiuso l’imboccatura con una lapide ricordo. Ci sono poi molte altre foibe, tra cui quelle di Podgomila e di Sella di Monte Santo, nel goriziano, che conservano i resti di molti abitanti di Gorizia. L’eccidio di Porzus. Uno degli episodi in cui apparve chiara la volontà dei comunisti di lasciar arraffare dagli jugoslavi una buona parte del territorio italiano, con Trieste, Monfalcone, e terre sino a Pordenone, fu quello ancor oggi ricordato come “L’eccidio di Porzus”. Porzus è una località nei pressi di Udine, in montagna. Qui avevano trovato rifugio i partigiani della Brigata Osoppo, che inalberava il tricolore, comandati dal capitano degli alpini Francesco De Gregori detto “Bolla, e dal tenente Alfredo Berzanti detto “Paolo”. In un primo tempo, i circa 500 uomini costituenti la Brigata, erano stati incorporati nella Brigata “Garibaldi- Osoppo”, unendoli a quelli comandati dal comunista Giovanni Padoan detto “Vanni”, che erano circa 2000. Quando però i titini del IX Corpus sloveno, avanzarono proposte atte ad incamerare totalmente la “Garibaldi- Osoppo”, gli osovani si rifiutarono, non volendo sottostare ad una proposta che li avrebbe resi conniventi con i titini nell’annessione di terre italiane alla Jugoslavia di Tito.Dopo la guerra, diverse pubblicazioni di marca comunista, dichiararono che l’eccidio di Porzus fu dovuto ad un comandante partigiano che aveva agito di testa sua; certo Mario Toffanin detto “Giacca”, il quale ha goduto della pensione INPS fino alla sua morte, avvenuta qualche anno fa.Il Toffanin era un capo partigiano sui-generis, abituato a spedire al creatore fascisti o presunti tali, ma poco adatto alle regole di squadra, che pur tuttavia i partigiani dovevano osservare. Al momento buono, il Toffanin ed i suoi subalterni, massacrarono il capitano De Gregori, il vice Berzanti ed altri partigiani osovani, sfigurandoli e sputacchiandoli dopo morti.Dopo varie trattative tra il comandante “Bolla”, ed il comandante “Vanni” della “1^ Brigata Garibaldi”, già passata con i titini del IX Corpus, fu decisa in alto loco la eliminazione di “Bolla” e dei suoi. Si intenda bene: la eliminazione di Bolla non fu un fatto deciso al momento da qualche capo partigiano, ma una operazione studiata nei minimi particolari.Ciò si desume da una pubblicazione edita in Udine, nel 1965, dalla Democrazia Cristiana:”Porzus 1945”. Così si trascrive testualmente: “Bolla aveva intuito il pericolo, e dalle malghe di Porzus, aveva levato il grido di allarme. Il 16 gennaio 1945, nuovo gravissimo incidente: tre osovani “Mache”, “Rinato” e “Vandalo”, in servizio di pattuglia fissa a Taipana, furono prelevati dagli slavi. I loro corpi, dopo la Liberazione, vennero riesumati nella zona di Ruchin. Il 17 gennaio, “Bolla” inviò una delle sue ultime lettere ai soliti indirizzi. La riportiamo parzialmente, perché in essa prevede la tragedia di Porzus e termina con un accorato richiamo affinchè si provveda, una buona volta, a rafforzare la zona. Nella lettera,, dopo avere riferito l’incidente di Taipana, così “Bolla” scrisse: “Questo comando ha iniziato a gettare i suoi gridi di allarme sulla questione slovena fin dall’ottobre scorso, chiedendo a chi di ragione accordi diplomatici, soluzioni politiche ed apporto di forze per potenziare le possibilità di reazione di questo Comando. Se la situazione politica esige che malgrado tutto quello che è avvenuto, i reparti garibaldini e sloveni debbano essere ancora considerati come reparti amici, vengano elementi politici ad assumere il comando di questi nostri reparti, che nei disagi considerevoli imposti dalla stagione vedono intorno a sé ovunque nemici e non vedono dietro le proprie spalle nessuna forza che li sostenga materialmente e moralmente. La parte militare di questo comando è composta da uomini che non sanno essere altro che soldati, e come tali, hanno già sopportato più umiliazioni di quante l’amor di Patria ne possa esigere”, “Gli atti di sabotaggio, la cattura e l’uccisione di osovani isolati. Il saccheggio dei loro depositi viveri, la diffamazione, la persecuzione degli amici e dei simpatizzanti tutto s’infranse contro l’appassionata volontà degli osovani di servire la libertà”. “Il destino volle che le formazioni di “Bolla”, per la zona che occupavano, e per i compiti da assolvere, fossero le più esposte alla malevola considerazione dei capi politici garibaldini e che “Bolla” stesso fosse l’uomo che più frequentemente dovette impersonare la comune fierezza degli osovani contro la prepotenza degli avversari, i quali lo reputarono un tale ostacolo alla realizzazione dei loro piani, da poterlo debellare soltanto con la morte .Così infatti fu deciso in alto loco”…..”Una volta deciso dall’alto di far piazza pulita dei “reazionari” italiani, assediati nelle malghe di Porzus ,la macchina dell’eccidio si mise in moto .Ecco l’ordine: ”Cari compagni, vi trasmetto per l’esecuzione, l’ordine pervenuto dal superiore Comando generale. Preparate 100-150 uomini, completamente armati ed equipaggiati con viveri a secco per 3-4 giorni, da porre alle dipendenze della Divisione Garibaldi -Natisone, operante agli ordini di Tito. Vi raccomando la precisa esecuzione del presente ordine che è di carattere di estrema importanza per il prossimo avvenire. Non appena gli uomini saranno pronti, mi avvertirete immediatamente .Provvedete ad eseguire immediatamente e cospirativamente. Gli uomini dovranno sapere solo quando saranno in viaggio. Quando verrò da voi, e cioè tra qualche giorno, vi spiegherò meglio ogni cosa. Ricordate che ne va del buon nome dei GAP e che è cosa della massima importanza. L’Armata Rossa gloriosa avanza, e i tempi stringono. Fraternamente”-----“Ultra”----- “Alla fine del gennaio 1945, ad Orsaria, in casa del presidente il Comitato di liberazione, Armando Basso, si tenne il consiglio dei mandanti e degli esecutori del piano contro gli osovani. Erano presenti “Franco”, ”Ultra” , “Ferruccio”, ”Giacca”, ”Valerio” e “Marco” .Fu stabilito di mandare in avanscoperta il partigiano “Dinamite”, ben conosciuto dal Comandante “Bolla”, perché il “Dinamite” si recava spesso alle malghe a prelevare armi ed esplosivi .Il 6 febbraio, i comandanti spiegarono alla truppa quale sarebbe stato il suo compito .Avrebbero dovuto fingersi come sbandati sfuggiti ad un rastrellamento e da un treno che li doveva deportare in Germania. Il 7 febbraio, verso mezzogiorno, la colonna dei cospiratori passò dall’abitato di Porzus, dirigendosi verso Nord; dove a circa un’ora e mezzo di cammino si trovano le malghe. Poco sopra l’abitato gli assalitori s’imbatterono in un partigiano osovano, ”Atteone” figlio di una maestra di Faedis e laureato in medicina. Fu fermato, un capo controllò i documenti, quindi gli ingiunse di scendere in pianura e mantenere il silenzio. Costui invece, una volta libero ,scese in paese e temendo che quelli potessero andare a dar fastidio al Comandante “Bolla”, raccolse armi automatiche, organizzò una piccola squadra e li seguì alla volta delle malghe .Intanto, la colonna di “Giacca”, che procedeva verso nord….fu avvistata da una pattuglia osovana. Ad un solo uomo, in funzione di parlamentare, fu permesso di avanzare….Costui fu “Dinamite”, il quale avvertì che si trattava di sbandati….elementi appartenenti sia alla Osoppo che alla Garibaldi, che desideravano parlare con “Bolla”. ”Bolla”, rassicurato dalla presenza di “Dinamite”, incaricò “Enea” di andare ad accogliere gli sbandati. ”Giacca”, appena vide spuntare da lontano “Enea”, che ben lo conosceva di fama, si nascose con gli uomini di Ruttars dietro una malga. ”Enea”…decise di separare gli uomini a seconda che dichiaravano la loro appartenenza alle formazioni osovane o garibaldine. Una quindicina di garibaldini finsero di allontanarsi verso Canebola, distante circa 20 minuti di sentiero. Ad un segno prestabilito ,”Giacca” e gli uomini di Ruttars sbucarono dai loro nascondigli ed unitisi agli altri che si trovavano davanti alla malga ( i finti osovani), ingiunsero il “mani in alto” spianando le armi .Infatti poco dopo ,accompagnato da “Centina”, arrivò “Bolla”. Furono circondati, disarmati ed avviati verso la malga vicina. ”Giacca” dette istruzioni ad una quarantina di uomini per l’assalto alla seconda malga ,e la cattura di tutti gli osovani del presidio. Questi, del tutto ignari di quello che stava accadendo, sedevano attorno al fuoco, e perciò furono circondati e prelevati con facilità”…. Nella terza malga, c’era un portatore osovano, in compagnia di Giovanni Comin ,di 17 anni, il quale, fuggito da una tradotta tedesca che lo stava portando in Germania, stava per venire a parlare con “Bolla” per entrare a far parte degli osovani. Il Comin tentò di fuggire, ma fece pochi passi, raggiunto da raffiche mortali. ”Bolla sentiva vicina la sua ora; pur tuttavia cercava di rincuorare i suoi soldati, a cui venne chiesto se preferivano stare con il comandante o seguire i garibaldini. Dovette essere un momento di grande drammaticità .Quei ragazzi affezionati sentivano incombere sui due comandanti un tragico destino, ma non si sentivano di abbandonarli. ”Bolla” intuì il drammatico imbarazzo ,e li rincuorò: ”Andate, andate pure con loro ,basta che combattiate per l’Italia!”. Ad uno ad uno gli osovani si avvicinarono a “Bolla” e ad “Enea” in un commovente abbraccio. Erano circa le 17.Caricato il materiale saccheggiato sulle spalle dei prigionieri, venne formata la colonna per scendere in pianura. Circa venti garibaldini con a capo “Giacca” rimasero alla malga, e dopo non molto furono udite delle raffiche. Era la fine di “Bolla” ed “Enea”. I loro corpi vennero poi sfigurati, pugnalati e sputacchiati”. Francesco Moranino, detto “Il boia del Biellese”. Prima di parlare del personaggio Francesco Moranino, detto “Gemisto”, spietato partigiano comunista, bisogna descrivere la situazione , tra il 1943 e 1945, della zona del Biellese.Il Biellese, è una zona cui convergono diverse vallate alpine, per poi divenire una zona piana, cosparsa di molte fabbriche di filati; infatti, è la zona , riguardo alla lavorazione della lana, la più attrezzata d’Italia. Tra il ’43 ed il ’45, vi lavoravano più di 50.000 operai. La ricchezza industriale di questa zona, attrasse le bande partigiane, che potevano così contare sull’aiuto, volenti o nolenti, degli industriali tessili. Non solo; dopo l’8 settembre 1943, nella zona c’erano, nativi del posto, Pietro Secchia e Francesco Moranino, attivi comunisti. Il Secchia, fu chiamato a far parte della direzione del PCI, e Moranino, nato a Tollegno(Vercelli) nel 1920, divenne il più noto capo partigiano comunista del Biellese, tale da meritarsi, dalle popolazioni del luogo, l’appellativo di “Boia del Biellese”. Arrestato nel 1941 per attività sovversive, era stato liberato nell’agosto 1943.Organizzò il distaccamento “Carlo Pisacane” della II Brigata Garibaldi, e, nell’estate del 1944, divenne, in pratica, il padrone del Biellese, uccidendo anche degli altri partigiani non comunisti,, come si vedrà. Nelle valli del Biellese, c’erano solo sei stazioni dei Carabinieri, che contavano una decina di militari ciascuna. Fu facile, ai partigiani di Cino Moscatelli e Francesco Moranino, disarmare quei Carabinieri, ed impossessarsi delle armi. Unica formazione non comunista, era quella del “Partito d’azione” comandata dal torinese Felice Mautino, il quale, quando si trattava di parlamentare con i rossi, teneva sempre, come i suoi uomini, il dito sul grilletto della pistola, ben conoscendo i metodi comunisti.I comunisti, visti gli scarsi successi con le popolazioni locali, iniziarono a fare imboscate, e ad uccidere tedeschi isolati e militi, come il milite stradale Celestino Baragiotta, freddato da due partigiani in motocicletta, cui aveva chiesto i documenti. Questo fatto produsse una rappresaglia tedesca, con sette fucilati, tra cui cinque civili innocenti. Ma, visto che le popolazioni del Biellese, non dimostravano soverchia adesione alla causa partigiana, i comunisti decisero di dare uno spietato esempio, per far decidere la gente a sostenerli, a quattrini e vettovaglie. La notte del 17 febbraio 1944, alcune pattuglie comuniste scesero dai monti ed entrarono in Cossato, Strona e Lessona, paesi nei pressi di Biella. Ogni pattuglia aveva il compito di prelevare alcune persone, scelte tra le più note della zona. Dopo due ore, i comunisti riuscirono indisturbati a prelevare dodici persone. Una tredicesima persona, il signor Enrico Carta, fu uccisa sulla soglia della sua abitazione, mentre apriva, con un bimbo in braccio, ai partigiani. Tra i prelevati, c’erano cinque donne. I capi dell’azione, erano Piero Maffei, Ermanno Angiono, ed Edis Valle, che però restarono uccisi in uno scontro con i tedeschi. Nelle tasche di uno dei capi uccisi, fu trovato un elenco di ben trenta persone da prelevare, tra le quali molti noti industriali della zona. L’esecuzione….” come esempio”, dei dodici prelevati, fu eseguita alle ore 12 del 18 febbraio, presso il cimitero di Mosso Santa Maria.Sotto il fuoco dei comunisti, caddero, senza alcuna colpa, senza alcun processo, e senza avere i Sacramenti :Carlo Botta, di 59 anni; le sue figlie Duilia , di 23 anni, e Gemma di 21; l’agricoltore Francesco Repole, di 61 anni; l’impiegato Raffaele Veronese, di 42 anni; l’operaia Giuseppina Goi, di 49 anni; il negoziante Ernesto Ottina, di 46 anni;sua moglie Tecla, di 45; il commerciante Leo Negro, di 46; l’agricoltore Giovanni Maffei, di 39 anni; il commerciante Sandro Tallia, di 25; Palmira Graziola di 57 anni.Il 19 febbraio,il maresciallo carabiniere Alfonso Taverna, di 39 anni, comandante la stazione di Mosso Santa Maria, disperato per non aver potuto impedire la strage, si suicidò con un colpo di pistola alla tempia. Questi erano i sistemi con cui i comunisti “convincevano” la popolazione a contribuire alla lotta di liberazione. I dodici assassinati, furono fotografati, stesi su un prato, e dodici copie della tragica immagine, piegate in due in una busta, furono fatte avere , da parte della “II^ Brigata Garibaldi”,alle dodici famiglie delle vittime.Naturalmente, nei resoconti resistenziali del dopoguerra, quei dodici assassinati furono fatti passare per “spie”. Sulla fine di febbraio 1944, si sviluppò una decisa azione di rastrellamento, da parte delle forze tedesche e repubblicane. Le bande di Moscatelli furono sbaragliate, e non dopo una epica battaglia, come narrò poi il Moscatelli, perché nessuno degli abitanti della zona la ricorda come tale. I partigiani persero otto uomini, ed altri dieci furono presi prigionieri e fucilati dai tedeschi il 14 marzo nel cimitero di Rassa. L’eccidio di Tollegno. Quando i partigiani furono dispersi, ne fecero le spese i civili delle valli. I partigiani, affamati, entravano nelle case con il mitra spianato. E per seminare nuovo terrore, i comunisti decisero un altro atto “A mò d’esempio”…..Nella notte del 22 marzo, a Tollegno, presso Andorno, i partigiani di Moranino uccisero con i mitra l’operaia Caterina Tiboldo, e le sue figlie, Mariuccia di 18 anni, Carmen di 16, e la figliastra Angiolina di vent’anni. Quale era, semmai, la colpa di queste donne? Forse, perché esse, facendo le sarte, avevano lavorato per il locale presidio fascista di Andorno, per arrotondare i pochi guadagni della famiglia……..Cino Moscatelli, in un libro di sue memorie, riesce a trasformare l’assassinio di quattro donne incolpevoli, nella “fucilazione di alcuni militi ed ufficiali repubblicani sorpresi a gozzovigliare in una casa”……tale fu la faccia tosta di questo “storico”……Ecco, come si falsa la Storia, cari signori! Il giorno dopo l’eccidio, i fascisti presero cinque antifascisti prigionieri e li fucilarono, nello stesso luogo ove erano state uccise quelle povere donne. Sul luogo della fucilazione, la cinta del cimitero di Tollegno, compare ancora oggi la targa commemorativa dei cinque antifascisti fucilati: Ernaldo Gili, Marco Ferrarone, Felice Loiodice, Raffaele Loiodice,e William Furino. Nessuna targa ricorda, però, le quattro donne di Tollegno assassinate…”per dare un esempio”- Già, ma….. “la storia non si riscrive”, come ha affermato O.L.Scalfaro……… La vera storia di Francesco Moranino. Il 2 giugno 1965, l’onorevole Giuseppe Saragat, eletto Presidente della Repubblica grazie anche ai voti del PCI, emanò un provvedimento di “grazia” per l’ex comandante partigiano comunista Francesco Moranino, detto “Gemisto”, divenuto a fine guerra deputato del PCI, ma condannato nel 1956 all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Firenze, per essere stato riconosciuto colpevole di aver assassinato cinque partigiani non comunisti e le mogli di due di questi, nel 1944.Il Moranino, non aveva fatto un giorno di galera, poiché era subito fuggito in Cecoslovacchia; non aveva mai dichiarato il suo pentimento per i delitti compiuti, e non aveva mai chiesto il perdono dei parenti delle vittime. Questa “grazia”, motu proprio, dell’allora Presidente Saragat, era stata, secondo taluni, il baratto concordato per i voti dei comunisti alla elezione del nuovo Presidente.Francesco Moranino, era nato a Tollegno, nel Biellese, il 15 gennaio 1920.Suo padre, Eugenio, era un socialista. Fu lui, ad instillare nel figlio le prime idee populiste. Il Francesco, frequentò con poco profitto le scuole elementari, e dopo si iscrisse all’Istituto Tecnico Inferiore. La madre, Caterina Giachetti, voleva farne un ragioniere, ma, date le restrizioni economiche della famiglia, il Francesco fu costretto ad abbandonare lo studio e ad andare come operaio nella Filatura di Tollegno. Nella Filatura, conobbe degli operai comunisti, e ben presto ne divenne il capo. Nel 1940, il Moranino chiese ed ottenne di essere accettato nelle file del movimento comunista del Biellese. Dopo la sua adesione al PCI, il Moranino si dette parecchio da fare per aumentare il numero di iscritti e simpatizzanti comunisti, ma la polizia fascista, che non dormiva, arrestò tutti il 17 gennaio 1941, e li rinchiuse nelle carceri di Vercelli. Nel febbraio 1941, il Moranino, riconosciuto come il capo della cellula, si prese 12 anni di prigione. Inviato a scontare la pena nel penitenziario di Civitavecchia, il Moranino, là, conobbe i dirigenti del PCI, che già si trovavano a scontare delle pene, come Giancarlo Pajetta, Aldo Natoli, Ilio Bosi, Giacomo Pellegrini, Pietro Amendola, e Remo Scappini.All’interno del penitenziario, Pajetta e compagni dettero vita ad una “scuola di partito”, che , alle nozioni di dottrina marxista-leninista, univa i più sperimentati metodi della guerriglia bolscevica, già sperimentata durante la guerra civile spagnola, unitamente ai testi del famoso teorico militare tedesco Von Clausewitz. Il corso teorico-pratico di guerriglia, si concluse con l’analisi della guerra per bande, di concezione mazziniana. Così Moranino, uno dei più attenti discepoli, apprese quelle tecniche che dovevano fare di lui uno dei più preparati e spietati capi partigiani comunisti. Nel 1943, Moranino fu trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia, dove, dopo pochi mesi, tornò libero durante i 45 giorni di Badoglio. Dopo l’8 settembre, Moranino era alla testa di un piccolo nucleo di partigiani, pronti a scatenare la guerra civile. Moranino, adottato il nome di battaglia di “Gemisto”, dette vita al “distaccamento Montecucco”, assumendone le vesti di commissario politico. Il 16 gennaio 1944, il distaccamento Montecucco, irrobustitosi, dette vita alla 2^ Brigata Garibaldi ed al “Distaccamento Pisacane”, agli ordini di “Gemisto”. Da quel periodo, il nome di “Gemisto” divenne sinonimo, in tutto il Biellese, di feroce spietatezza. Gemisto iniziò a far uccidere tutti coloro che fossero minimamente sospettati di connivenza con le autorità della RSI. Presto, i morti ammazzati nel Biellese, superarono il numero di 1000, tra cui 150 donne. Queste ultime, prelevate, sfruttate come cuoche…..ed altro…. e poi fatte fuori, affinchè non potessero rivelare le basi partigiane. Il partito comunista premiò le alte qualità politiche ed organizzative di Moranino, nominandolo, nell’agosto 1944, comandante della 50^ Brigata Garibaldi, e nell’autunno, comandante della 12^ Divisione (400 uomini),nella zona orientale della Valsessera biellese.E’ in questo periodo che Moranino attuò ciò che, nel 1956, doveva costargli la condanna a dodici anni e sei mesi di galera, e cioè l’eccidio della “Missione Strasserra”: cioè l’ assassinio di cinque partigiani non comunisti, che dovevano trasferirsi in Svizzera, e delle mogli di due di questi.Per sommi capi, lo spietato episodio si svolse così: la sera del 26 novembre 1944, vennero attirati in un’imboscata a Castagnea di Portula, Emanuele Strasserra, Giovanni Scimone, Ezio Campasso, Mario Francesconi, e Gennaro Santucci, ed uccisi a colpi di mitra. E la sera del 10 gennaio 1945, le signore Maria Martinelli e Maria Dau, mogli rispettivamente del Francesconi e del Santucci, furono prelevate dalle loro abitazioni nel comune di Flecchia, con la falsa promessa di portarle dai loro mariti (già assassinati), ed uccise alla periferia del paese, con sventagliate di mitra alla schiena, per impedire che scoprissero la fine dei loro congiunti.I cinque uomini che dovevano trovare la morte per mano di Moranino, erano tutti partigiani non comunisti. Emanuele Strasserra, nato a Nervi nel 1909, si era dedicato ad aiutare gli angloamericani subito dopo l’armistizio. Infatti, molti prigionieri angloamericani, grazie allo Strasserra, erano fuggiti dai campi di concentramento, ed avevano potuto rifugiarsi in Corsica. Dopo un periodo di istruzione trascorso a Bari, lo Strasserra, nominato capo-missione, aveva raggiunto il Nord-Italia su un sommergibile, insieme a dei commandos di fucilieri della marina americana. Egli era incaricato dagli Alleati di far eseguire i lanci di rifornimento ai partigiani, ma allo stesso tempo di informarsi e sorvegliare sulle brigate partigiane comuniste, che avevano preso il totale sopravvento su tutte le altre formazioni degli altri partiti antifascisti. Lo Strasserra prese con se il brigadiere dei Carabinieri Giovanni Scimone, un messinese di ventisette anni, datosi alla macchia per evitare l’internamento in Germania.Ma, ai primi di ottobre 1944, un grosso rastrellamento italo-tedesco scardinò rtutta l’organizzazione messa in piedi dagli angloamericani. Lo Strasserra fu catturato dagli alpini della “Monterosa”, ma fu rilasciato grazie a documenti falsi di cui si avvaleva. Emanuele Strasserra capì che l’unica via di scampo era il recarsi in Svizzera, per prendere contatto con altre missioni alleate. Dopo una ultima visita alla moglie Teresa, a Genova, divenuta madre da pochi giorni, lo Strasserra, assieme a Giovanni Scimone, prese contatto, il 18 novembre, con Francesco Moranino. Il Moranino, che non combatteva per gli stessi ideali che animavano Strasserra e Scimone, comprese subito che questi due non dovevano raggiungere la Svizzera. Ma, se fascisti e tedeschi il Moranino poteva ammazzarli con tutta tranquillità, non cosi facile era far uccidere altri esponenti antifascisti, come lo Strasserra e lo Scimone, ed altri tre partigiani. Lo Strasserra, che pure era a conoscenza dei sistemi comunisti, non arrivò ad immaginare che gli stessi comunisti arrivassero al punto di uccidere altri partigiani che non avevano le loro idee. Gli Alleati, compreso che i comunisti lavoravano per Mosca prima che per l’Italia, avevano preteso che le bande comuniste si raggruppassero in due o tre zone, al comando di ufficiali Alleati. I comunisti avevano risposto picche, e gli Angloamericani avevano sospeso tutti i lanci di rifornimanti. Fu così che i comunisti iniziarono a disarmare i “partigiani bianchi”, per prender loro le armi, e gli ufficiali alleati….iniziarono a cadere vittime di strani incidenti stradali e di….pallottole vaganti.Il Moranino decise di attirare lo Strasserra e lo Scimone in una trappola, assieme ad altri tre partigiani: Gennaro Santucci, Ezio Campasso e Mario Francesconi, che intendevano prendere contatti in terra elvetica con gli Alleati.Gennaro Santucci, torinese, era un impiegato in una ditta costruttrice di aeroplani, e nel 1934 aveva sposato Maria Dau, da cui aveva avuto una bimba, Barbara, nel 1938.Ezio Campasso, di 21 anni, nato a Buronzo (Vercelli),era figlio di un negoziante. Dopo la nascita della RSI, era stato nascosto per sei mesi, ma poi aveva deciso di presentarsi alle armi, ed era stato assegnato ad un reparto della GNR. In caserma, aveva conosciuto Mario Francesconi, nato a Vercelli nel 1914, diplomatosi in ragioneria, e sposatosi nel 1940 con Maria Martinelli, da cui aveva avuto una bimba, Maria Grazia, nel 1943. Il Santucci, era un vecchio amico del Francesconi. I tre, decisero di prendere contatto con le “missioni” alleate in Svizzera, per garantirsi i rifornimenti necessari per creare una organizzazione da opporre alle bande di Moranino. Ma commisero un madornale errore: si rivolsero…proprio a Moranino, per essere condotti in Svizzera. Tale errore fu fatale anche a Maria Dau e Maria Martinelli, che avevano voluto seguire i mariti prendendo alloggio in una casa di Flecchia, proprio vicino al comando di “Gemisto”, che così aveva avuto modo di conoscerle.“Gemisto” organizzò la mattanza per la sera del 26 novembre. Convocò lo Strasserra, lo Scimone, il Santucci, il Campasso ed il Francesconi, e disse loro che tutto era pronto per il trasferimento in Svizzera. Un partigiano di Moranino, Sandro dell’Acqua detto “Vispo” avrebbe condotto il gruppo. Nello stesso momento, sei partigiani si dirigevano lungo la strada che il gruppo Strasserra avrebbe dovuto percorrere. L’imboscata fu studiata con tutti i particolari. Quattro partigiani, a ridosso di una collina, avrebbero fatto un “posto di blocco” per fermare il gruppo Strasserra; altri due sarebbero saltati fuori all’improvviso ed avrebbero scaricato i mitra contro i cinque partigiani “bianchi”.L’eccidio si svolse rapidamente. I partigiani Zanin Lava detto “Cappone”, Remo Sguaitamatti detto “Sguaita”, e Antonio Scannagatta detto “Tigre” e Vogler Mantovani detto “Kim”, fermarono il gruppo nei pressi del confine. Alla richiesta di mostrare i documenti, uno dei cinque rispose:”Ma siamo partigiani anche noi!” Nello stesso momento, altri due partigiani, Ilvo Templa detto “Ilvo” e Luciano Regis detto “Negher”, saltarono fuori da un cespuglio e scaricarono i mitra sui cinque uomini. Ma restava da sistemare una faccenda…..per Moranino. I cinque partigiani uccisi, quando fossero arrivati in Svizzera, avevano promesso di far trasmettere dagli alleati la frase convenuta: ”Paolo sta bene”. Di ciò erano a conoscenza anche le mogli del Santucci e del Francesconi. Il Moranino, con un espediente degno del diavolo, fece in questo modo. Tra i prigionieri in sua mano, egli aveva anche un ragioniere della Fiat, certo Allora. “Gemisto” gli promise salva la vita se, espatriando in Svizzera, colà giunto avesse fatto trasmettere la frase “Paolo sta bene”. L’Allora accettò senza chiedere tante spiegazioni: espatriò in Svizzera,, e poi fece trasmettere la frase convenuta. Maria Santucci e Maria Francesconi l’ascoltarono, ed andarono persino a ringraziare “Gemisto”, che “tanto si era adoperato per aiutare i loro mariti”……….Moranino doveva far sparire le due donne, certo che prima o poi esse, non ricevendo più notizie dei mariti, sarebbero andate a cercarli. Ma era necessario che la responsabilità della loro morte non venisse attribuita ai partigiani. Moranino aspettò l’occasione giusta: quella di un rastrellamento della zona di Flecchia da parte dei fascisti. Quando si fossero trovati i due cadaveri delle donne, con i fascisti nella zona, la colpa del loro assassinio sarebbe stata fatta attribuire ai fascisti…..Così, la sera del 9 gennaio, due partigiani comunisti, Natale Santi detto “Volante” e Rinaldo Sguaitamatti detto “Renato” bussarono all’abitazione della Santucci e della Francesconi. “Ci manda Gemisto; vuol vedervi perché ha notizie dei vostri mariti”. Le due donne si avviarono tutte contente. I partigiani le seguivano da dietro. Giunte nei pressi del cimitero, le due donne vennero freddate con dei colpi di mitra nella schiena. Forse, non si accorsero nemmeno di dover morire…….Con il crollo della RSI, i partigiani di Moranino si abbandonarono ad episodi di massacri senza più ragion d’essere. Ventisei persone vennero trucidate a Sordevolo; ventotto a Graglia; trentadue a Biella; dodici a Coggiola; quarantasette a Lozzolo, diciassette a Rovasenda, e, il più spregevole di tutti, il massacro di settanta militi fascisti già feriti, nel cortile dell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli, il 12 maggio 1945, a guerra finita. Ecco quanto si legge in una relazione presentata alla Camera dei Deputati per ottenere l’autorizzazione a procedere contro gli “onorevoli Francesco Moranino e Silvio Ortona”riconosciuti quali mandanti e responsabili del massacro nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli: “Nella notte del 12 maggio 1945….si compì in detta città, nel recinto dell’ospedale psichiatrico, ove era accasermata la 182^ Brigata Garibaldi, un eccidio di oltre cinquanta prigionieri fascisti, che turbò profondamente la coscienza delle popolazioni…..Il 12 maggio 1945, era pervenuta al comando piazza di Vercelli, tenuto da “Gemisto”…e al comando del Biellese, tenuto da “Lungo”(onorevole Ortona) la notizia che truppe fasciste….stavano concentrate in un campo di prigionia a Novara, dopo essersi arrese a Castellazzo ai partigiani di Moscatelli. Tosto fu deciso che esse venissero prelevate , trasferite a Vercelli, e passate per le armi. Partirono alla volta di Novara un autobus ed un autocarro, scortati da elementi della 182^ Brigata Garibaldi. Una richiesta scritta ed un elenco nominativo furono presentati al comandante il campo di concentramento, e settantacinque prigionieri furono stipati sugli automezzi. Alle ore 19 dello stesso giorno, i due veicoli entrarono nell’area dell’ospedale psichiatrico di Vercelli, mentre era costretto ad uscirne il personale del servizio ospedaliero. I militi fascisti, in parte feriti, ed in parte agonizzanti per colpi ricevuti durante il tragitto ,furono scaricati, introdotti in due diversi cameroni e perquisiti sotto un
Posted on: Mon, 26 Aug 2013 09:45:11 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015