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SULLA CONDIVISIONE ECCO LA STUPENDA RELAZIONE DI MONS . DONATO NEGRO ARCIVESCOVO DI OTRANTO DELLA CONDIVISIONE DEI BENI Meditazione biblico - teologica 1. Quadro di riferimento fondamentale Ecclesiologia di comunione. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, siamo tutti d’accordo nel ritenere che la nozione di “comunione” (koinônia - communio) esprima, senza alcun dubbio, quel che la Chiesa è nel suo essere, nel suo agire e nella sua destinazione ultima. Lo ha ufficialmente affermato Giovanni Paolo II allorquando, chiudendo il Grande Giubileo del 2000, ha scritto che la comunione “incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa” . Si badi bene: i verbi qui adoperati dal “santo” Pontefice – incarnare e manifestare – collocano la comunione ecclesiale sul piano della concreta visibilità. Ovviamente, non facciamo riferimento ad un puro mettersi in mostra, bensì ad una visibilità che è manifestazione dell’essenza intima della Chiesa, un mostrarsi che rende tangibile l’esperienza del Vangelo secondo la dinamica dell’Incarnazione; di una visibilità necessaria, ma non vanitosa. Infatti, si dà Chiesa, come proclama la 1 Gv, perché il Verbo della vita si è fatto visibile e tangibile. È come dire che c’è un disegno di Dio, ora accessibile agli uomini e alle donne di ogni tempo, che la Chiesa ha da rendere visibile non per annunciare se stessa, magari per dire che essa esiste e conta nella storia degli uomini, ma per dare un volto concreto al Vangelo. Una visibilità non confezionata secondo le obsolete logiche del trionfalismo, illusa che tutto si giochi sul piano dell’immagine di sé, ma sostanzialmente affine alla categoria forte ed impegnativa della testimonianza. Una visibilità, dunque, esigente e, soprattutto, disposta a lasciarsi disegnare dalla gratuità di Dio, a riflettere amore, a puntare sulla qualità delle relazioni. Ebbene, a partire dal quadro di riferimento fondamentale segnato dall’ecclesiologia di comunione, vogliamo imbastire questa nostra meditazione sul senso della nozione di Koinônia al fine di cogliere talune esigenze e implicazioni teologico – pratiche. 2. Il ricco e articolato lessico della comunione 2.1. Comunione e condivisione. È significativo che, nel linguaggio ordinario e tra la nostra gente, il termine comunione faccia riferimento alla Chiesa e alla Eucaristia. Oltre le evidenti e valide ragioni storiche, la prossimità di Eucaristia e Chiesa è teologicamente legittimata dal fatto che la communio è la più alta espressione dell’unità: un solo pane, un solo corpo. Tuttavia, questa affinità di significato può ingenerare qualche equivoco e scadere in pericolosi riduttivismi soprattutto là dove l’Eucaristia – e con essa la comunione che essa significa e realizza – vengano sottoposte a processi di astrazione o di universalizzazione o, comunque, private della loro efficace e concreta incidenza quotidiana. Per quanto l’Eucaristia sia ‘fonte e culmine’ della vita della Chiesa, non è corretto, sul piano teologico e ancor meno su quello esistenziale, limitare la comunione al momento celebrativo o, peggio, confinare la sua significazione su livelli di astratto e vago spiritualismo. È questa la ragione per cui gli studi biblici e patristici tendono a restituire alla nozione di communio una significazione più esistenziale o, meglio, integrale accentrandone il momento segnatamente ecclesiologico, senza tuttavia sacrificare la sua fondamentale correlazione al mistero eucaristico. Equilibrio e moderazione ci portano, quindi, a ritrovare l’Eucaristia quale sacramento della comunione ecclesiale e la Chiesa quale sacramento della comunione eucaristica. Sappiamo, infatti, che la Chiesa è inseparabile dall’Eucaristia quanto l’Eucaristia è inseparabile dalla Chiesa . Diremo, allora, che quella di koinônia è una nozione che manifesta il carattere integrale ed aperto della realtà ecclesiale; o, ancora meglio, è una nozione pluridimensionale, capace cioè di inscrivere in sé ogni aspetto, dimensione ed espressione della vita ecclesiale: dalla condivisione della fede all’assemblea liturgica, dalla fraternità alla missione. 2.2. Semantica relazionale. Il passaggio dal piano linguistico a quello etimologico ci permette di acquisire qualche altro dato importante in ordine alla comprensione della koinônia. Facendo da contrappunto ad idios, che di solito designa ciò che è proprio, particolare o privato, koinos indica ciò che è pubblico, sia nel senso di ciò che è comune che di quello di accessibile a tutti. Da questa radice fondamentale deriva poi quel complesso di espressioni che ordinariamente adoperiamo quando vogliamo indicare l’azione del mettere in comune, del partecipare, del comunicare e a cui sono implicitamente associati i verbi o, meglio, le dinamiche del dare e del ricevere. Lungo questo tracciato fondamentale corre altresì il significato del termine latino communio che, però, veicola una peculiare ed interessante sfumatura: questo termine, infatti, mentre esprime una associazione di persone (soprattutto tramite la preposizione cum), vi aggiunge anche il senso di un evidente impegno derivante dal sostantivo munus . Possiamo allora ritenere che quel che noi oggi chiamiamo communio presenta una duplice e complementare dimensione: il momento ‘statico’ di una comunità già istituita che i membri ‘ricevono’ (la comunità dono che si riceve) e il momento ‘dinamico’ degli scambi che si attivano al suo interno tra coloro che vi appartengono (la comunità – impegno a cui si dà il proprio contributo). Al di là di non poche altre sottigliezze terminologiche e semantiche su cui potremmo a lungo soffermarci, al nostro discorso interessa in maniera particolare il dato di fondo: e cioè che tutti i termini che gravitano attorno a koinônia – communio indicano sempre rapporti tra ‘persone’, ovvero disegnano quella trama relazionale entro cui, attraverso cose e beni materiali, uomini e donne partecipano ad un progetto di vita comune o addirittura condividono la vita. 2.3. Le indicazioni del Nuovo Testamento. Se accostiamo le diverse affermazioni disseminate nel NT e distinguiamo le parole dai contenuti, siamo posti di fronte a quattro dati: la non univocità del lessico della comunione , ossia il fatto che gli stessi termini dicano realtà molto diverse tra loro ; il sostantivo koinônia non definisce la Chiesa, quanto piuttosto gli elementi costitutivi della vita comunitaria: l’unità della fede, la comunione fraterna, la condivisione dei beni e l’unanimità dei sentimenti; la koinônia connota l’esperienza cristiana sotto diversi punti di vista: da quello trinitario a quello eucaristico, da quello esistenziale a quello escatologico; la comunione non è sotto una realtà di fatto – vale a dire, il risultato o l’esito – ma anche l’atteggiamento fondamentale – o, se vogliamo, lo stile – con cui si tende a realizzarla in concreto ; ma a monte di questi dati evidenti, vi è un punto fermo fondamentale: l’impossibilità di pensare la comunione ecclesiale in chiave spiritualista ; se così fosse, alcuni aspetti della prassi ecclesiale delle origini, concernenti l’uso dei beni, sarebbero di fatto inspiegabili: a) La cura dei bisognosi non può che essere concreta: tale attenzione non è limitata ai sommari degli Atti, ma si ritrova in Paolo (cf. Gal 2, 10) che, a sua volta, la raccomanda ad altri (cf. Gal 6, 10). L’eco si riverbera anche nelle Pastorali là dove si ribadisce la necessità di dare una mano a coloro che sono economicamente vulnerabili (cf. 1 Tim 5, 9-10). La 1 Gv manifesta in termini chiari la coscienza di sostegno ‘anche’ materiale da prestare a quanti sono nel bisogno: “Ma se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 17). b) La colletta organizzata per la comunità di Gerusalemme è una ulteriore ed eloquente testimonianza di concretezza. Anche in questo caso, un elemento materiale è posto a servizio di straordinarie finalità teologiche . Dal punto di vista materiale, la colletta è senza dubbio un atto di solidarietà nei riguardi di coloro che ne hanno bisogno , una prova tangibile dell’amore per i fratelli (cf. 2 Cor 8, 24), un motivo di gratitudine e un’occasione di rendimento di grazie , il pegno per una benedizione ancora più grande (cf. 2 Cor 8, 19). Tuttavia, il gesto, oltre ad essere conforme all’insegnamento del Signore , diventa nelle intenzioni dell’Apostolo un vero e proprio tema di teologia della storia: le “cose materiali” che i Gentili offrono servono per sdebitarsi delle ‘cose spirituali’ che hanno ricevuto dai fratelli Giudei : questi ultimi, infatti, sono stati i primi a ricevere da Dio tutti quei doni – l’adozione a figli, la legge, la gloria, le alleanze, il culto, le promesse, i patriarchi (cf. Rom 9, 4) che ora condividono con i Gentili in virtù della medesima fede in Cristo . c) Sono soprattutto i sommari degli Atti a fornire la prova decisiva dell’importanza della condivisione dei beni. Nel descrivere la vita di comunione profonda della Chiesa delle origini, Luca non si accontenta di registrare il fatto, ma offre una spiegazione di quella koinônia che portava i credenti ad avere tutto in comune o addirittura a vendere i loro beni per condividerne il ricavato con i fratelli bisognosi . Soprattutto nel secondo sommario, l’evangelista adopera espressioni immediatamente evocatrici in persone del mondo pagano, educate a quei modelli di amicizia proposti e legittimati dalla cultura del tempo , ma ovviamente a partire da una differenza fondamentale: cioè dal fatto che ora la radice e la motivazione della condivisione dei beni non provengono dall’amicizia umana, quanto piuttosto dalla fede in Gesù Salvatore . Le diverse indicazioni del NT convergono, dunque, verso quella realtà che la tradizione cristiana conosce sotto il nome di comunione dei beni e in cui sono sempre implicati due aspetti tanto fondamentali quanto complementari: la messa in comune dei beni sul piano materiale delle cose e la comunione di intenti sul piano esistenziale delle relazioni. E ciò, logicamente, in perfetta sintonia con quella mentalità entro cui Luca cerca di inscrivere la sua peculiare visione di Chiesa. La nostra riflessione approda così ad un importante punto fermo: l’insistenza di Luca sulla fede insinua il criterio teologico decisivo. Nella prassi dei cristiani, l’ambito dell’avere non è considerato secondo i pur nobili ed apprezzabili ideali filantropici, ma vissuto quale conseguenza diretta della fede nel Signore Gesù. 3. Lo specifico cristiano tra idealità e utopia Sulla scorta di quanto precede, possiamo ora interrogarci più approfonditamente sul discorso lucano della condivisione dei beni. Certo è che le formule adoperate da Luca nel Libro degli Atti non indicano un programma politico, ma vogliono mettere in evidenza un ideale di comunione che, in un certo senso, realizza tanto le attese di Israele quanto le aspettative della cultura greco-romana. La comunione – intesa anche nella accezione di condivisione dei beni – non è infatti una novità del cristianesimo: scuole filosofiche e movimenti radicali dell’ebraismo cercavano di praticarla riannodandosi alla situazione felice dell’umanità agli inizi della storia – la presunta età dell’oro – allorquando tutti i beni della terra appartenevano a tutti . L’ideale è sostanzialmente quello di eliminare la povertà e l’indigenza venendo incontro ai bisogni di ognuno in virtù della pratica della condivisione: la generosità di chi ha di più soccorre i fratelli poveri ed elimina l’indigenza in seno alla comunità. D’altra parte, una Chiesa senza beni in comune sarebbe come un cielo senza sole. Per i cristiani, però, le cose non stanno proprio così. C’è, infatti, una specificità anche nella pratica della condivisione dei beni che l’evangelista cerca di evidenziare in diversi modi. Come si è detto, il suo non è un programma politico. Anzi, nei sommari non si cura nemmeno di proporre quell’ideale di povertà che attraversa il Vangelo . Detto in altri termini, Luca vuol mettere in rilievo che la comunione dei beni, così come è praticata dalla Chiesa delle origini, appartiene a quello stile di vita completamente nuovo segnato dalla persona del Signore Gesù e intimamente alimentato dal suo Spirito. Nelle indicazioni dell’evangelista non è difficile cogliere le forti risonanze escatologiche di una comunità che, riconoscendosi come il compimento dell’autentica promessa, vive la koinônia non solo quale realizzazione di un antico e sfuggevole ideale umano, ma come segno della sua propria autenticità: una Chiesa secondo Dio, infatti, si riconosce soprattutto se non presenta indigenti nel suo grembo. L’utopia qui indicata – se di utopia vogliamo parlare – è quella di una koinônia ora germinata nella comunità dei discepoli di Cristo in quanto comunione autentica che sollecita a condividere il pasto nelle case, la memoria degli apostoli, la preghiera e persino le persecuzioni. Essendo animata dal dinamismo soprannaturale del Regno di Dio e modellata sulla prassi di Gesù, è una comunione che sorpassa di gran lunga quella meramente naturale. L’intenzione di Luca in proposito affiora proprio là dove egli afferma la realizzazione del progetto di Dio rimarcando, come leggiamo in At 4, 34, che “non c’era tra loro nessun bisognoso”: espressione che – come insegnano gli esegeti – riprende il passo di Dt 15, 4 trasposto al futuro dai LXX a mo’ di promessa in attesa di adempimento: “non ci sarà alcun indigente presso di te”. È proprio questo che la comunità cristiana – secondo Luca – realizza alla lettera, come fanno pensare diverse altre affermazioni che troviamo in questo medesimo contesto. Così in At 2, 44, secondo la accreditata lezione del Codice Vaticano che insiste sulla esperienza della koinônia da due diversi punti di vista: quello del ‘radunarsi’ e quello del ‘condividere’. Il versetto in questione – “Tutti i credenti insieme avevano tutto in comune” – in buona sostanza afferma che tutti i credenti, in quanto comunità, avevano tutto in comune. Ma ciò non fa che ribadire quanto abbiamo sopra accennato: per quanto spirituale e misterica possa essere, l’unità della fede chiede di essere incarnata, cioè trasposta sul piano dell’esistenza storica e materiale. La koinônia, in effetti, non sarebbe autentica né piena se non divenisse concreta condivisione dei beni; anzi, deve assumere la forma della condivisione proprio per assicurare ad ogni credente ciò di cui ha bisogno . È dunque in questa prospettiva che siamo invitati a comprendere la ragione profonda per cui l’evangelista, almeno nei sommari concernenti la vita della comunità delle origini, non sia interessato al distacco dei beni né all’ideale della povertà , ma ad affermare questo modello di condivisione dei beni che rende visibile e manifesta sul piano esistenziale l’essenza teologica della Chiesa. Secondo Luca, si condivide ciò che si ha non per diventare poveri, ma per essere tanto ricchi da non avere alcun povero in comunità, poiché non sarebbe degna di questo nome una comunità che comprendesse, da un lato, membri che vivono nell’abbondanza, e, dall’altro, membri che sono addirittura privi del necessario. 4. (Ap -) punti di riflessione Quanto abbiamo appreso dalla lezione di Luca stride palesemente con la logica dominante della nostra società in cui è venuto meno non solo il discorso della condivisione dei beni, ma addirittura il significato simbolico dei beni da condividere. L’economia, che ha messo le mani su tutto, ha trasformato i beni in merci. In tal modo, si è immiserito il legame comunitario, ridotto a mera trama di interessi e confinato entro forme di vita esclusivamente contrattuali. Ebbene, è proprio su questa realtà di fatto che le affermazioni di Luca si stagliano come una profezia ancora attuale. 4.1. Una profezia ancora attuale. Detto in senso positivamente provocatorio, il tema della condivisione dei beni presenta numerose sfaccettature e lascia intendere che si danno diverse modalità in cui i beni possono rendere più libera la nostra esistenza e più intensa la nostra comunione. Il discorso ideale ma non fuorviante di Luca ci porta a ritenere che il modello economico dominante ha bisogno di essere radicalmente rivisto: non pochi problemi del nostro tempo potrebbero effettivamente trovare una soluzione se le energie disponibili fossero indirizzate verso la condivisione di quel che abbiamo e non sugli utili di quel che solo alcuni possono ottenere. A me sembra che la condivisione apra nuove prospettive sulle questioni alle quali ogni generazione deve rispondere sotto la propria ed immediata responsabilità. Pertanto, una rinnovata attenzione a questa problematica ci aiuta non poco a capire che le realtà materiali, i beni, gli averi non sono realtà di nessuno e che, perciò, non possono essere né banalizzate da mentalità spiritualiste né assolutizzate in chiave prettamente materialistica. I beni da condividere sono le cose che danno consistenza al nostro quotidiano relazionarci, sono le cose che ci nutrono e ci consentono di comunicare, che ispirano i progetti e istituiscono legami di affetto. Sono le cose che incontriamo quotidianamente, a cui ciascuno dovrebbe poter ricorrere quando ne ha bisogno; fanno parte di quei presupposti, talvolta invisibili ma senz’altro reali, grazie a cui la comunità umana e cristiana si tiene in piedi. 4.2. Il senso di una utopia. La lezione di Luca viene a ricordarci che sul piano della concreta realizzabilità non è possibile alcuna comunità totalmente basata sul mercato. La comunità umana ha bisogno della condivisione, della solidarietà, quanto ‘la ricchezza’ ha bisogno di uomini e donne, e non soltanto di borse e mercati, che, proprio condividendola, la facciano circolare in tutte le dimensioni della vita. Parafrasando una parola della Scrittura, diremo che non si vive di solo accumulo dei beni perché è altrettanta necessaria la distribuzione nella forma della condivisione. Non tutto può essere gestito in termini di sola rimunerazione: esiste, infatti, una dimensione per così dire ‘simbolica’ che concerne l’istituirsi e il consolidarsi del legame sociale, che moltiplica la creatività e tesse trame di riconoscenza. E ciò, a maggior ragione, là dove – come nel caso della comunità cristiana – si tratta, in definitiva, di condividere un progetto o, meglio, di condividere delle esperienze per il tramite di determinati beni. C’è dell’utopia straordinaria là dove l’essere è mediato dall’avere, là dove l’esistenza è spartita nello spazio di una condivisione possibile, là dove la rispondenza pratica rende vera quella fraternità ecclesiale proclamata e celebrata a livello di principi. C’è dell’utopia, là dove, almeno per un attimo, cominciamo a pensare a cosa sarebbe la nostra vita se la condivisione dei beni fosse la regola e il mercato l’eccezione. È del tutto casuale che il premio Nobel di qualche anno fa sia andato ad Elionor Ostrom per aver brillantemente teorizzato la condivisione dei beni? 4.3. E, ancora, non vi è forse una valenza segnatamente formativa nella pratica della condivisione dei beni? In quanto partecipi della koinônia, siamo positivamente sollecitati ad esercitare la difficile virtù della condivisione maturando la consapevolezza delle inevitabili differenze che esistono nello spazio comune entro cui siamo collocati. Ciò ci spinge ad apprendere praticamente le modalità tramite cui ognuno, a partire dalla propria prospettiva, considera gli interessi degli altri e risponde ai bisogni di tutti. Detto in estrema sintesi, sono persuaso che il trascendere l’esclusività del proprio punto di vista – come pure dei propri interessi – mirando alla condivisione allargata e partecipata, favorisca non poco l’apprendimento comunitario e l’attivarsi di nuove pratiche di gratuità. Condividere ‘edifica’ la Chiesa. Per quanto preesista e ci preceda, lo spazio ecclesiale è continuamente re-istituito e riprodotto da noi che vi prendiamo parte e ne condividiamo appunto la fede, i valori, le esperienze, la prassi. L’habitus della condivisione, pertanto, mentre riflette l’esperienza che abbiamo della Chiesa, proietta verso il futuro i comportamenti e gli atteggiamenti dell’oggi. È in questo senso assolutamente teologico che la Chiesa è tenuta in piedi da quell’habitus che è solo una pallida immagine di quella condivisione – pericoresi – eterna, infinita e traboccante di Dio Trinità. Donato Negro Arcivescovo di Otranto
Posted on: Sat, 07 Sep 2013 06:56:54 +0000

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