Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino - TopicsExpress



          

Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo. E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico. Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè, e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te. Pensa i bei giorni d’un autunno addietro, Vill’Amarena a sommo dell’ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata, e l’orto dal profumo tetro di busso e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa… Vill’Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina. Bell’edificio triste inabitato! Grate panciute, logore, contorte! Odore d’ombra! Odore di passato! Odore d’abbandono desolato! Fiabe defunte delle sovrapporte! Ercole furibondo e il Centauro, le gesta dell’eroe navigatore, Fetonte e il Po, lo sventurato amore d’arianna, Minosse, il Minotauro, Dafne rincorsa, trasmutata in lauro tra le braccia dl Nume ghermitore… Penso l’arredo - che malinconia - penso l’arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia sui divani della Bella Otero alle specchiere… che malinconia! Antica suppellettile forbita! Armadi immensi pieni di lenzuola che tu rammendi paziente…Avita semplicità che l’anima consola, semplicità dove tu vivi sola con tuo padre la tua semplice vita! II Quel tuo buon padre - in fama d’usuraio - quasi bifolco, m’accoglieva senza inquietarsi della mia frequenza, mi parlava dell’uve e del guaio notarile, con somma deferenza. e mi traeva inquieto nel salone, talvolta, con un atto che leggeva lentissimo, in segreto. Io l’ascoltavo docile, distratto da quell’odor d’inchiostro putrefatto, da quel disegno strano del tappeto, da quel salone buio e troppo vasto… > da quel parato a ghirlandette, a greche… > da quel tic-tac dell’orologio guasto… capiva poi che non capivo niente e sbigottiva:> - > Fortunatamente tu comparivi tutta sorridente: III Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga… E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto squadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia… Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina. Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina: e più d’ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi! Ogni giorno salivo alla tua volta pel soleggiato ripido sentiero. Il farmacista non pensò davvero un’amicizia così bene accolta quando ti presentò la prima volta l’ignoto villeggiante forestiero. Talora - già la mensa era imbandita - mi trattenevi a cena. Era una cena d’altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi e Maddalena decrepita, e la siesta e la partita… Per la partita, verso ventun’ore giungeva tutto l’inclito collegio politico locale: il molto Regio Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma - poiché trasognato giocatore - quei signori m’avevano in dispregio… M’era più dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina… Maddalena con sordo brontolio disponeva gli arredi ben detersi, rigovernava lentamente ed io, già smarrito nei sogni più diversi, accordavo le sillabe dei versi sul ritmo eguale dell’acciotolio. Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse…) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d’un grillo canterino mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio e il mio destino… Vedevo questa vita che m’avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, ed ecco rifioriva la speranza! Giungevano le risa, i motti brevi dei giocatori, da quell’altra stanza. IV Bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme! In quella tomba, tra le vane forme di ciò ch’è stato e non sarà più mai, bianca, bella così che sussultai, la Dama apparve nella tela enorme: > Il nostro passo diffondeva l’eco tra quei rottami del passato vano, e la Marchesa dal profilo greco, altocinta, l’un piede ignudo un mano, si riposava all’ombra d’uno speco arcade, sotto un bel cielo pagano. Intorno a quella che rideva illusa nel ricco peplo, e che morì di fame, v’era una stirpe logora e confusa: topaie, materassi, vasellame, lucerne, ceste, mobili: ciarpame reietto così caro alla mia Musa! Tra i materassi logori e le ceste v’erano stampe di persone egregie; incoronato delle frondi regie v’era Torquato nei giardini d’Este. > Io risi, tanto che fermammo il passo, e, ridendo pensai questo pensiero: Oimè! La Gloria: un corridoio basso, tre ceste, un cantarano dell’Impero, la brutta effigie incorniciata in nero e sotto il nome di Torquato Tasso! Allora, quasi a voce che richiama, esplorai la pianura autunnale dall’abbaino secentista, ovale, a telaietti fitti, ove la trama del vetro deformava il panorama come un antico smalto innaturale. Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese: Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta, gli alberi, le chiese; e il mio sogno di pace si protese da quel rifugio luminoso ed alto. Ecco - pensavo - questa è l’Amarena, ma laggiù, oltre i colli dilettosi, c’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi, la cosa tutta piena di quei > che fanno tanta pena… L’Eguagliatrice numera le fosse, ma quelli vanno, spinti da chimere vane, divisi e suddivisi a schiere opposte, intesi all’odio e alle percosse: così come ci son formiche rosse, così come ci son formiche nere… Schierati al sole o all’ombra della croce, tutti travolge il turbine dell’oro; o Musa - oimè! - che può giovare loro il ritmo della mia piccola voce? Meglio fuggire dalla guerra atroce del piacere, dell’oro, dell’alloro… L’alloro…Oh! Bimbo semplice che fui, dal cuore in mano e dalla fronte alta! Oggi l’alloro è premio di colui che tra clangor di buccine s’esalta, che sale cerretano alla ribalta per far di sé favoleggiar altrui…>> > - - >- - Tacqui. Scorgevo un atropo soletto e prigioniero. Stavasi in riposo alla parate: il segno spaventoso chiuso tra le ali ripiegate a tetto. Come lo vellicai sul corsaletto si librò con un ronzo lamentoso. > - > Nulla s’udiva che la sfinge in pena e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto: O mio carino tu mi piaci tanto, siccome piace al mar una sirena… un richiamo s’alzò, querulo e roco: - > - > Le fronti al vetro, chini sulla piana, seguimmo i neri pipistrelli, a frotte; giunse col vento un ritmo di campana, disparve il sole fra le nubi rotte; a poco a poco s’annunciò la notte sulla serenità canavesana… > - - > - > Ma ti levasti su quasi ribelle alla perplessità crepuscolare: V Ozi beati a mezzo la giornata, nel parco dei marchesi, ove la traccia restava appena dell’età passata! Le Stagioni camuse e senza braccia, fra mucchi di letame e di vinaccia, dominavano i porri e l’insalata. L’insalata, i legumi produttivi deridevano il busso delle aiole; volavano le pieridi nel sole e le cetonie e i bombi fuggittivi… Io ti parlavo, piano, e tu cucici innebriata dalle mie parole. > Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi leggevo uno sgomento indefinito; le mani ti cercai, sopra il cucito, e te le strinsi lungamente, e dissi: > Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..>> E ti piegasti sulla tua panchetta facendo al viso coppa delle mani, simulando singhiozzi acuti e strani per celia come fa la scolaretta. Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi che sussultavi come chi singhiozza veramente, né sa più ricomporsi: mi parve udire la tua voce mozza da gli ultimi singulti nella strozza; > - - - > - - - > - - - > Ed uscii dall’odor d’ipecacuana nel plenilunio settembrino, al rezzo. Andai vagando nel silenzio amico, triste perduto come un mendicante. Mezzanotte scoccò, lenta, rombante su quel paese che non dico. La Luna sopra il campanile antico pareva >. In molti mesti e pochi sogni lieti, solo pellegrinai col mio rimpianto fra le siepi, le vigne, i castagneti quasi d’argento fatti nell’incanto; e al cancello sostai del camposanto come s’usa nei libri dei poeti. Voi che posate già sull’altra riva, immuni dalla gioia, dallo strazio, parlate, o morti, al pellegrino sazio! Giova guarire? Giova che si viva? O meglio giova l’Ospite furtiva che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio? A lungo meditai, senza ritrarre le tempia dalle sbarre. Quasi a scherno s’udiva il grido delle strigi alterno. La Luna, prigioniera, fra le sbarre, imitava con sue luci bizzarre gli amanti che si baciano in eterno. Bacio lunare, far le nubi chiare come di moda settant’anni fa! Ecco la Morte e la Felicità! L’una m’incalza quando l’altra appare; quella m’esilia in terra d’oltremare, questa promette il bene che sarà… VIII Nel mestissimo giorno degli addii mi piacque rivedere la tua villa. La morte dell’estate era tranquilla in quel mattino chiaro che salii tra i vigneti già spogli, tra i pendii già trapunti di bei colchici lilla. Forse vedendo il bel fiore malvagio che i fiori uccide e semina le brume, le rondini addestravano le piume al primo volo, timido, randagio; e a me randagio parve buon presagio accompagnarmi loro nel costume. > - > - > E vidi la tua bocca sillabare a poco a poco le sillabe: giuro. Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette, coi nomi e con la data memoranda: trenta settembre novecentosette… Io non sorrisi. L’animo godette quel romantico gesto d’educanda. Le rondini garrivano assordanti, garrivano garrivano parole d’addio, guizzando ratte come spole, incitando le piccole migranti… Tu seguivi gli stormi lontananti ad uno ad uno per le vie del sole… - > > - > - > Giunse il distacco, amaro senza fine, e fu il distacco d’altri tempi, quando le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine… M’apparisti così come in un cantico del Prati, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico… Quello che fingo d’essere e non sono!
Posted on: Thu, 05 Sep 2013 15:59:18 +0000

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