Spesso mi scrivono giovani ricercatori o studenti chiedendomi come - TopicsExpress



          

Spesso mi scrivono giovani ricercatori o studenti chiedendomi come si diventa divulgatori scientifici. Come si “diventa” non lo so: io ho iniziato quasi per caso e non lo faccio per professione. Però nel corso degli anni mi sono fatto un po’ di esperienza su come si può fare divulgazione scientifica. Ho pensato quindi di mettere per iscritto qualche consiglio (non richiesto) a giovani scienziati aspiranti divulgatori specialmente su qual è il modo migliore per comunicare temi controversi e scottanti come le biotecnologie, la sperimentazione animale, le energie alternative, la chimica nel quotidiano, l’omeopatia, i vaccini e così via. Sono consigli e considerazioni tratti dalla mia esperienza personale senza nessuna pretesa di una trattazione sistematica di come si debba comunicare la scienza in generale. Sarà un viaggio lungo e a puntate, diretto esplicitamente ai giovani ricercatori con la passione della divulgazione e quindi probabilmente interesserà solo pochissimi. Gli altri non temano perché questo rimarrà il blog della Scienza in Cucina, solo con qualche puntatina fuori campo. Come NON si comunica. Credo che il modo migliore per iniziare questo discorso sia spiegare come non si devono affrontare certi temi perché si va verso il fallimento sicuro. Gli scienziati tendono a pensare che “se solo il pubblico sapesse le cose che sanno loro non ci sarebbe più nulla da discutere e tutti la penserebbero nello stesso modo”. E questo soprattutto nei casi dove il consenso è quasi unanime tra gli scienziati ma non lo è affatto nel pubblico, vedi la sicurezza degli OGM, l’utilità dei vaccini, il funzionamento dell’omeopatia per effetto placebo, la necessità della sperimentazione animale ecc.. Piccola parentesi: non c’è mai l’unanimità, in nessun campo scientifico, ma di questo parleremo più avanti, insieme all’irresistibile e nefasta tendenza di certi giornalisti a scovare “la voce contro” e a dargli purtroppo lo stesso peso della cosiddetta “scienza ufficiale” (cioè della grande maggioranza degli scienziati) se non di più. Ci arriveremo. Tutti gli scienziati sono (o si ritengono) persone razionali, che davanti a fatti accertati, esperimenti riproducibili e ben fatti, ragionamenti solidi e logica inoppugnabile arrivano alle stesse conclusioni, raggiungendo un consenso quasi unanime (vedi sopra). Quindi perché il pubblico non dovrebbe fare altrettanto? Perché davanti agli stessi fatti una buona parte del pubblico giunge a posizioni diverse da quelle degli scienziati? La risposta standard dello scienziato è che il pubblico non ne sa abbastanza. Confonde virus e batteri, non sa che una molecola di sintesi è indistinguibile da una naturale, non sa che i geni sono in ogni essere vivente, non sa come funziona l’evoluzione e così via. La soluzione proposta dello scienziato è ovvia ed è quella che lui stesso ha appreso sui banchi dell’Università: ci si siede a sentire il luminare e si impara tutto quello che dice. Quindi basta spiegare al pubblico che cosa è il DNA, come funzionano i vaccini o la fisiologia umana e tutti abbracceranno gli OGM, abbandoneranno diete idiote a base di alimenti “acidificanti e alcalinizzanti” o gruppi sanguigni, faranno vaccinare i figli in massa e smetteranno di andare dal naturopata. Beh, non funziona così. Questo è quello che gli studiosi della comunicazione della scienza chiamano “deficit model”: si descrive il pubblico come fondamentalmente ignorante di questioni scientifiche e per colmare questa carenza è necessario riversare più informazioni nelle loro teste. È l’approccio che a volte viene chiamato Top-Down: le informazioni vanno dall’alto (della cattedra) al basso e non devono venire discusse. “Zitto e ascolta tu che queste cose non le sai”. Questo è l’approccio seguito da migliaia di anni in ogni scuola, (e credo che in certi casi sia insostituibile), ma non funziona nel mondo reale con un pubblico generico. In particolare le persone su molti temi si fanno una opinione basandosi spesso su processi non razionali e che coinvolgono altri aspetti oltre a quello puramente scientifico, e l’esperienza ha mostrato che questo tipo di approccio Top-Down semplicemente non funziona. L’idea che basti spiegare come funziona il DNA per far accettare al pubblico gli OGM è semplicemente una illusione, che piaccia o meno. Si possono trovare molti esempi di comunicazione scientifica diretta al pubblico, o al potenziale consumatore, effettuata secondo questa metodologia. In gran parte la storia della comunicazione delle biotecnologie agrarie (appunto, gli OGM) effettuata soprattutto dalle multinazionali del settore è leggibile in questa maniera. Sin dagli anni ’90 la comunicazione di Monsanto in questo campo è un esempio di come non si dovrebbe effettuare una campagna: “basterà spiegare alla gente che un gene è un gene e tutti accetteranno gli OGM”, dimenticando di considerare le implicazioni etiche, sociali, politiche ed economiche, le incertezze, i dubbi, gli interessi ecc. Robert Shapiro, CEO di Monsanto, lo dichiarò già nel 1999: “Siamo andati avanti sulla base della nostra fiducia nella tecnologia e abbiamo visto i nostri prodotti come grandi doni sia per gli agricoltori che per l’ambiente. Abbiamo pensato ingenuamente che il resto del mondo avrebbe guardato le informazioni e sarebbe giunto alle stesse conclusioni” Personalmente fossi in loro avrei licenziato in tronco da tempo il personale del settore comunicazione ma incredibilmente non hanno ancora imparato la lezione e continuano a commettere gli stessi errori. Questo ha creato danni enormi a tutto il settore, rendendo estremamente difficile per la ricerca pubblica, con molti meno mezzi a disposizione, correggere i danni comunicativi causati, anche ammesso che si sapesse come fare. Certo che glielo devi spiegare cosa è un gene, ma se ti fermi a questo ottieni l’effetto opposto. L’8 giugno scorso in giro per l’Italia è stata organizzata la giornata “Italia unita per la corretta informazione scientifica”, che spero diventi un appuntamento fisso. I temi trattati dai vari relatori erano proprio quelli che più generano divisione e incertezza nel pubblico: sperimentazione animale, OGM, vaccini, cellule staminali e così via. Una critica che è stata fatta ad alcune conferenze è che erano costruite proprio secondo questo modello: dirette più a degli studenti universitari che al grande pubblico. D’altra parte nessuno all’università insegna a noi scienziati come comunicare efficacemente, a meno di seguire un master post laurea. È anche per questo che ho pensato che forse le mie esperienze potrebbero essere di aiuto a qualche giovane scienziato aspirante divulgatore. Che piaccia o meno se un divulgatore vuole raggiungere il suo obiettivo, deve prepararsi in anticipo nel veicolare il proprio messaggio, soprattutto se questo è “problematico”, al pubblico specifico a cui vuole rivolgersi. Facciamo ora un passo indietro nel tempo e andiamo negli anni ’80: Michael Jackson e Madonna vengono consacrate come Pop Star, viene messo sul mercato il primo PC IBM e dopo qualche anno la Apple lancia il primo Macintosh. Al cinema si conclude la prima trilogia di “Guerre Stellari” e iniziano quelle di “Indiana Jones” e di “Ritorno al futuro”. Inizia la pandemia di AIDS, Kary Mullis inventa la PCR, che rivoluzionerà la biologia mentre la “crisi della mucca pazza” segna l’inizio di una crisi profonda di fiducia tra il grande pubblico e la scienza. Il PUS Nel 1985 la Royal Society, l’istituzione scientifica britannica più prestigiosa, pubblica un rapporto sulla Public Understanding of Science, (o PUS come tutti la chiameranno in seguito), la “comprensione della scienza da parte del pubblico”, conosciuto anche come Rapporto Bodmer dal nome del Dr. (futuro Sir) Walter Bodmer, direttore dell’Imperial Cancer Research Fund, che ha presieduto il comitato che ha stilato il rapporto. Il rapporto nasceva dalla considerazione che le conoscenze scientifiche del pubblico in un mondo sempre più scientificamente e tecnologicamente avanzato non fossero sufficienti per prendere decisioni informate, sia personali che all’interno della società o di una azienda. Dalla prefazione del rapporto Ora più che mai, le persone hanno bisogno di una certa comprensione della scienza, sia che debbano prendere decisioni a livello nazionale o locale, che gestiscano aziende industriali, che abbiano impieghi qualificati, nell’esercizio del voto come privati cittadini o nel prendere una vasta gamma di decisioni personali. Con la pubblicazione di questo rapporto il Consiglio spera di mettere in evidenza la necessità di una comprensione generale circa la natura della scienza e, più in particolare, del modo in cui la scienza e la tecnologia pervadono la vita moderna, e spera che genererà sia un dibattito che decisioni sul modo migliore in cui esse possono essere promosse. Il rapporto suggerì una serie di azioni per correggere la mancanza di conoscenze scientifiche del pubblico allo scopo di migliorare la capacità del cittadino di compiere scelte, sia individuali che collettive, che avessero un solido fondamento scientifico. Il cittadino consapevole Spesso la scienza e gli scienziati vengono criticati dalle scienze sociali, accusati di considerare le loro risposte “migliori” di altre. Il rapporto PUS è onesto e esplicito in questo: Il mondo sarebbe un posto migliore, o anche diverso, se il pubblico capisse di più la portata e i limiti, i risultati e i metodi della scienza? [...] Una migliore comprensione generale della scienza, a nostro avviso, migliorerebbe significativamente la qualità del processo decisionale pubblico. Non perché si prenderebbero le decisioni “giuste”, ma perché le decisioni prese alla luce di una comprensione adeguata delle questioni è probabile che possano essere migliori di decisioni prese in assenza di tale comprensione. E ancora Per decidere tra le affermazioni contrastanti dei vari vociferanti gruppi di interesse su questioni controverse come le ‘piogge acide’, l’energia nucleare, la fecondazione in vitro o la sperimentazioni sugli animali, l’individuo ha bisogno di conoscere alcuni dei dati di fatto così da essere in grado di valutare la qualità delle argomentazioni presentate. Una più ampia comprensione degli aspetti scientifici su una questione non porterà automaticamente ad un consenso circa la risposta migliore, ma porterà almeno ad un processo decisionale più informato, e quindi migliore. Non ho difficoltà ad ammettere che da scienziato la penso in modo simile: i fatti scientifici devono essere il punto di partenza per la discussione pubblica di molti temi (certo non di tutti). Non è ammesso accettare le opinioni di chi pensa che 2+2=5. Le opinioni non sono tutte uguali. Alcune si rispettano altre no. E tutti devono accettare il fatto che 2+2=4 e partire da lì. Questa è la struttura che ho volutamente dato a molti capitoli dei miei libri, “Pane e Bugie”, “OGM tra leggende e realtà” e “Le bugie nel carrello”. Prima ho esposto i fatti accertati, facendo una selezione ragionata nella letteratura scientifica, cercando di mostrare i vari aspetti della questione, e poi ho mostrato i miei ragionamenti basati su quei fatti. Chiarendo bene i miei passaggi logici, ed esponendoli al lettore senza però pretendere che accetti le mie conclusioni a scatola chiusa. Pretendendo però che si parta da quei fatti accertati per arrivare, magari, a conclusioni diverse seguendo ragionamenti diversi. Questo modo di strutturare i capitoli è, incidentalmente, stato anche apprezzato da molti lettori, citandolo esplicitamente in varie recensioni per cui mi sento caldamente di consigliarlo ai giovani scienziati aspiranti divulgatori: separare bene i fatti dai ragionamenti e le opinioni basati sui fatti. Esattamente come si fa in un normale articolo scientifico. Quando parlo di biotecnologie o di rischio chimico non voglio solo raccontare i fatti nel modo più obiettivo possibile, ma anche spiegare perché a partire da quei fatti traggo le mie conclusioni. E mi infastidiscono molto coloro che pretenderebbero che uno scienziato raccontasse solamente i fatti nudi e crudi, come se a ragionare e discutere fossero tutti autorizzati (letterati, filosofi, sociologi, preti, politici, giornalisti ecc..) tranne che gli scienziati, marmaglia secondo alcuni pericolosa e quindi da tenere sotto stretto controllo (a questo proposito mi sento di consigliare la lettura di “perché gli scienziati non sono pericolosi”, di Gilberto Corbellini). Non solo Top Down Già pochi anni dopo la pubblicazione del rapporto ci si è resi conto che il comportamento del pubblico rispetto alla scienza non era interpretabile solamente in termini di ignoranza del pubblico nelle questioni scientifiche. Il fisico John Ziman, membro del comitato che ha stilato il rapporto PUS, nel 1990 coniò il termine “Deficit model” per indicare questa visione inadeguata del rapporto del pubblico con la scienza. Il rapporto PUS è stato a volte criticato, a mio parere ingiustamente, dipingendolo come se suggerisse solamente di riempire di informazioni scientifiche il pubblico. Non è così. Lo dicono chiaramente sin dall’introduzione: “Comprensione, per noi, significa capire la natura dell’attività scientifica e non solamente la conoscenza di alcuni fatti”. “Comprensione della scienza” non include solamente i fatti scientifici, ma anche il metodo ed i suoi limiti, nonché un apprezzamento delle implicazioni pratiche e sociali. In più una parte essenziale della comprensione della scienza riguarda una comprensione di base della statistica, della natura del rischio, dell’incertezza e della variabilità, insieme alla capacità di assimilare dati numerici.” E in molti altri punti: L’insegnamento della scienza non dovrebbe solo impartire la conoscenza di fatti scientifici ma anche la familiarità col metodo scientifico, la natura e le limitazioni di questo, la storia della scienza e il ruolo nella società di scienza e tecnologia. Le critiche Come accennavo il PUS è stato molto criticato, specialmente nell’ambito delle scienze sociali. Non è questo il luogo per discutere delle varie critiche al PUS e dei vari approcci che seguirono per coinvolgere il pubblico (con acronimi altrettanto repellenti, come PEST ) Tornando al “Deficit Model”, concludendo questa prima chiacchierata, il mio parere personale di scienziato con la passione per la divulgazione è che sì, è sostanzialmente corretto dipingere il grande pubblico come carente scientificamente (come altro interpretare il fatto che il 40 per centro degli italiani pensi che il sole è un pianeta e non una stella o il 50 per cento che confonde virus e batteri?) È altrettanto banalmente ovvio che se il pubblico avesse davvero lo stesso livello di conoscenze degli esperti dei vari settori, e condividesse i loro modelli di ragionamento razionale, arriverebbe alle stesse conclusioni su vaccini, OGM e sperimentazione animale (sempre con il caveat della non unanimità accennato sopra, esiste sempre uno scienziato che dice stupidaggini. E’ un teorema): dopo tutto anche gli esperti erano “pubblico” prima di diventare esperti e sono ancora “pubblico” nei campi in cui non sono esperti. Purtroppo però non basta una conferenza per trasformare il pubblico in “esperto”, anche perché spesso e volentieri il pubblico non ha il minimo interesse a diventare esperto. Non si può essere esperti di tutto. Non vuole sapere del DNA e dei geni. O quanto meno non vuole sapere solo di DNA e geni. Vuole capire che valori sono coinvolti, chi ci guadagna e chi ci perde, chi controlla gli sviluppi tecnologici, se è in contrasto con la sua morale, la sua etica, la sua religione, con il suo modo (anche legittimamente irrazionale) di vedere il mondo. Se ci si può fidare, quali sono i rischi e i benefici, come cambia la sua identità sociale e così via. Quindi pensare che con una lezione stile universitaria “dalla cattedra al banco” le persone cambino idea sui vaccini e sugli OGM è semplicemente illusorio. Una piccola parte forse lo farà, ma dipende molto da cosa e soprattutto da come vengono dette le cose. Insomma, l’analisi del rapporto Bodmer era condivisibile ma la condotta suggerita non era sufficiente. Necessaria ma non sufficiente. Non era sbagliato suggerire di investire nell’educazione scientifica nella scuola primaria, di potenziare i musei scientifici di tipo innovativo dove le persone “fanno e capiscono”, di invitare gli scienziati ad aprirsi verso la società, di aiutare gli insegnanti a preparare esperienze da fare con i bambini, potenziare le biblioteche, istituire premi scientifici per piccoli aspiranti scienziati, organizzare festival scientifici e così via. Solo non era sufficiente. Focalizzarsi solamente sull’ignoranza del pubblico non era una strategia efficace. E non lo è nemmeno tuttora se si vuole che il pubblico condivida le conclusioni degli “esperti” sulla sperimentazione animale, sulla sicurezza degli OGM, sui vaccini e così via. Sono di parte? Certamente. Il “take home message” agli scienziati La raccomandazione finale del rapporto PUS, quella più importante, è da sposare interamente anche ora, 30 anni dopo: “Comunicare la scienza ad un pubblico generico non è facile e, si potrebbe pensare, dovrebbe essere lasciato a coloro che lo fanno di mestiere e non agli scienziati. Tale atteggiamento non è più appropriato, e probabilmente non lo è mai stato. Gli scienziati nel loro complesso devono riconoscere che hanno la grande responsabilità di parlare con il pubblico.” “Il nostro messaggio più diretto e urgente deve essere agli stessi scienziati: imparate a comunicare con il pubblico, siate disponibili a farlo e consideratelo un vostro dovere.” Non posso che reiterare l’invito: siate disponibili a farlo e consideratelo un vostro preciso dovere sociale. Dopo tutto è il cittadino che vi paga lo stipendio da scienziati, e la società potrebbe beneficiare anche da questa vostra attività, e non solo nella produzione di pubblicazioni scientifiche. Come farlo? Qualche suggerimento dalla prossima volta. Dario Bressanini
Posted on: Mon, 29 Jul 2013 12:05:33 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015