Squame gialle, nere e prestiti dai rettili. Pavimento il - TopicsExpress



          

Squame gialle, nere e prestiti dai rettili. Pavimento il mangiandosi del resto angoli e soffitti, mentre sconfitti nascondigli con sguardi che trapassano i tetti, i cieli, i davanti, i dietri. Sono due occhi fiammeggianti enormi, veloci come timori, immensi come mondi che ci s’inventa noi da soli, come soffio, coda e spine in grado di vedere me mediante gli occhi e gli atti di una popolazione immaginata istantanea con le caratteristiche filtrate nel Signore Oscuro. Pur essendo fuori e dentro, pur plasmando a mio piacimento lo spazio-tempo, io, pur avendo generato gli estremi e gli oltri di questo mondo, non riesco a prenderlo, a sottoporlo al suo terrore freddo del disprezzo superiore caldo nello sciogliersi e ricomporsi nel vuoto che forgia ogni sua diversa manifestazione. Dove la sua tana è casa non è mai quella. Il drago mi sfugge, entra ed esce come vuole dalla mia terra-testa. Smettila di giocare al piccolo ermetico: approfondisciti e spiegalo, questo imprendibile! Ma cosa vuoi spiegare, il mondo onirico a parole in modo univocamente comprensibile? È per questo che dello scritto bisogna leggere non il significato ma lo spirito, tutto quello che le parole non dicono. Allora perché non stiamo zitto o diventiamo mimico? Tanto l’ascoltatore non distingue se stesso dal pubblico. Intanto rendiamo pubblico questo gettito che sarà sempre superficiale – poi chi vuole avrà tutti gli strumenti per tracciarne l’impianto radicale. Le radici tracciate vengono individuate e non sentite come proprie. Nessuno può essere te! Sbagliato: noi posso essere gli altri, quindi è probabilissimo che la situazione si ribalti, e i risvolti continui che ottieni con gli assassinî degli estremi, i veri semi della dicotomia. Troppo complicato: noi me ne vado nel sogno lucido, un cruciverba nel dormiveglia. Che cosa trovi nello svago di un sogno? Sul fondo hai sempre quel punto di contatto tra te e l’altro! Non gridate, fate piano: ci sono cose che dormono diverse dal drago. Giusto, facciamo casino, facciamo un disastro! Casino? Disastro? Di’ un po’, ma chi ti insegna la lingua? Un libro? Una professoressa? Resta in parte e guarda in mezzo a gente che non parla ma pensa. Abbiamo visto? Che personalità intensa. Sembra quasi che io non siamo uno solo. Siamo un sistema, un accordo, un tavolo coi segnaposto. Posto che l’attività cerebrale si sta faccendo meno frattale e più sequenziale, meno fluida e saporitamente ruvida, meno acuta, più funzionale, credo proprio che io ci stiamo per svegliare. Una vistosa violazione grammaticale, detta errore, cosa significa? In pochi secondi, molti anni. Svegliarsi assomiglia, ha gli stessi effetti del non ancora scoperto teletrasporto: il passaggio dal mondo in cui il punto ed il momento non esistono al mondo del causa-effetto, sillogismo e tempo lineare. Le prime linee come Linneo alludono a una classificazione dei dati di tipo sensoriale: sono sdraiato nel caldo, immerso nella luce, colpito alle spalle da un materasso a molle impertinente atroce. L’umidità di un’aria controllata altrove mi comanda di cercare acqua, di scostare la coperta. Una sega circolare: il mio compare di fianco a me che russa. Soffitti alti e letti livello terra: è un’ospitalità, una finestra a fine marzo fa sì che io mi alzi alle nove e mezzo, anche se la sera prima ho preso parte a quello che siamo soliti dire “concerto”. In verticale, equilibrio, scarpe, fame, stanza, zaino, pavimento, legno rumoroso; un trapezio appeso pende dal soffitto, una porta che non conosco, prese elettriche che differiscono. Il problema “dove sono, dove mi sono svegliato?” si fa molto interessante. Dal corridoio al bagno, dallo scricchiolare del pavimento in legno a un odore di campagna – mi ricordo adesso, so dove mi trovo: è un appartamento nel centro di Lubiana, Slovenia, città con boschi attorno e poco hinterland. Ieri sera abbiamo suonato al Metelkova, un complesso di locali autogestiti con in mezzo una piazza senza memoria storica. La mia mano sulla maniglia della porta del bagno – per cena abbiamo mangiato minestra, abbiamo fatto domande a gente che parla una lingua diversa per scoprire come comportarci quando anche da noi verrà la guerra. La porta del bagno è aperta, e, mentre penso alla tranquillità complessa di chi ieri sera ci ha dato una risposta, un maiale – sì, un suino – mi corre incontro. Vi assicuro che non stavo sognando. Con la chiave apro la porta, con la scala sfrutto la forza di gravità, con la strada non mi perdo. Mi aggiro per Lubiana: non capisco una città solo passandoci il finesettimana, men che meno quando la mia padronanza della lingua slava è limitata ai termini come “umri”, “dobrot”, “crkni”, “voda”, e il mio blocco d’imbarazzo m’impedisce di gettarmi in un discorso in finto inglese, rischiando che le mie richieste siano troppo complesse rispetto alle poche parole sentite e lette nella lingua del yes. Cerco una panetteria con prodotti e prezzi ben esposti, in modo da potermi esprimere a gesti, versi, sgranate d’occhi. Quando sono accompagnato mando avanti gli altri, poi mi inserisco nei contesti. Ho problemi a chiedere persino in italiano, che irrisolti, ma tappati con degli espedienti, si ripresentano con degli accenti già quando gli abitanti parlano dialetti. Compro dolci austroungarici facendo gesti con le dita. Ieri sera sotto il palco la gente era molto ricettiva, e questo basta a compensare la diversità linguistica con la disattenzione di molti conlinguanei, che costruiscono muri con l’onestà intellettuale, con un’idea impersonale di spontaneo e naturale. Se qualcosa non vi è chiaro, fate domande, non fate discorsi! Generazioni intere di devoti dei dualismi, generazioni intere di devoti delle generazioni – sono le barriere dei patriarchi nei confronti di noi maghi. Voi non siete persone, non siete dialoghi, siete solo allenamento costante per me che so già di cosa sto morendo, io che sono consumato nel nervo, non nel nerbo, genero forza motrice anche dal vento e dalla forma di un cumulonembo, da questo strudel caldo pieno di semi di papavero. Mi perdo nei vicoli di queste case ignote, con le tegole quadrate, sottili, sfasate. Strada principale, negozi come ovunque, cielo grigio perla. Qualcuno parla, commercia, tratta. Levo il filtro dell’esotico, immagino che questa sia la mia città natale, le strade che frequenterei, le case lungo il fiume. Chi sarebbero i miei amici se io abitassi qui? Quali mezzi pubblici preferiti? Quali luoghi nascosti obliqui? E con quale lingua renderei i miei pensieri comprensibili? Quanti mesi – anni? – per adattarmi agli abitanti? I miei sacchetti di leccornie comandano i miei passi, mi dicono: “smetti di immaginarti. Torna a fare colazione con gli altri, ricaricati e riparti!” I miei ritorni sono i percorsi contrari e rovesci di quelli appena fatti e, mentre sono a pochi angoli dalla casa dei miei ospiti, la mia sorpresa si trasforma in elemento: diventa il cappotto giallo indossato da un veloce soggetto fatto di capelli, collo, gambe, passo, e un colore intenso e scelto, un panno morbido, deciso, caldo, avvolge un corpo che non identifico in altro modo se non “ragazza”. Non faccio a tempo a perdermi nelle opinioni inutili sulla bellezza per la troppa fretta, ma vorrei fermarla e dirle che la sua scelta determina molte più cose delle caratteristiche fisiche a lei date dall’ordine spontaneo e naturale. Non riesco a fermare una ragazza così, dal niente: temo sempre che non capisca quel che io voglio da lei, temo sempre che sovrapponga i pensieri degli altri ai miei, e poi, in inglese, a gesti, potrei soltanto fare disastri… cosa dico? Excuse me miss, hey girl! I saw you walking on this little street, strictly for fit. I want only tell you that I was impressed by the color of your long jacket: I think that the choice of a color for a girl is more important than the somatical beauty, because you can choose the color of your clothes, but you can’t choose the shape of your nose. I love your human side, that is best expressed in this warm yellow. Sì, è molto stupido, però, adesso che ci penso, avrei molta più difficoltà a spiegare la magia in italiano, a un italiano, quindi, in rapporto alla magia, posso fare qualunque cosa, anche toccare un ragno, o presentarmi a una ragazza, anche toccare una ragazza, presentarmi a un ragno. Un ragno è naturale, come una verdura, come un cumulo di spazzatura, una macchia solare, un’esplosione nucleare, un pino loricato, o smanettare con una cellula, la clonazione di una libellula, l’esistenza di mondi virtuali, come riposare sui prati, l’inquinamento, il materiale plastico che sto stringendo e ruotando col mio palmo, il cartello verde di metallo con scritto “area di servizio”, le centinaia di sostanze nella sigaretta che Stefano sta confezionando. Fermiamo la macchina, facciamo una pausa – naturale come l’asfalto che ha smesso di muoversi e che stiamo pestando. Naturale come un Autogrill, un parcheggio, un pompa di benzina, un’aiuola che divide il traffico di uomini veloci, dalla socialità da sosta piegata alla domanda/offerta. La risposta è: noi tre coi Tupperware, riso e verdure sul marciapiede. Noi, siamo noi a tramutare in naturale ogni luogo che trovi impossibile da frequentare. Un camionista. Un’inserviente. Un’automobile nuova. Una vecchia. Una vecchia che protesta. Una coppia scende dalla motocicletta. Una famiglia gusta un pranzo naturale. Impressione od oggettività? La risposta è: un pullman che parcheggia lentamente sotto il nostro naso naturale, mentre finiamo di mangiare, ferma il motore, apre le pneumatiche portiere con un sibilo. Le frontiere tra spontaneo e artificioso si annichiliscono, mentre dal veicolo allagano, sciamano, si diffondono, prendono piede delle moltitudini di ragazzine, che determiniamo essere sui diciassette. Le minorenni sono animaletti da osservare nel loro habitat naturale. Sembrano formate, ma sono nate in primavera e si dirigono all’estate. Chi conosce inverno, autunno, e chi già accetta la ciclicità di un anno dopo l’altro. Chi non vive nel rimpianto ha capito già da tempo che l’unico modo per rapportarvicisi è aiutarle a fare i compiti, dare indizi per gli ascolti e le letture, generando grosse crepe nella moltitudine di statue a somiglianza e immagine del Freud. E così, e così guardiamo le ragazze di dieci anni in meno. Un’occasione di ironia più che di desiderio: in realtà siamo noi ad avere dieci anni in meno. Siamo dei bambini che fanno segno “sette” con le dita, giochiamo ai maghi, inventiamo soluzioni inapplicabili per comandare i draghi, senza guardare i ranghi, infrangere vetri inarrampicabili, immaginarci gli scenari più potenti per poi realizzarli. Siamo persi: abbiamo pensieri più grandi della lotta tra le classi, i sessi, gli interessi, e non ci siamo accorti che guardando le diciassettenni queste cominciano a sentirsi viste, dando luogo a conseguenze. Sistemi che osservano, sistemi che osservano. La magia è complessa. Una ragazza si distacca dal suo gruppo, fomentata dalle sue compagne – ridono, provano a mandarci un’emissaria dall’aria seria: pantaloni, maglietta, capigliatura perfetta, indistinguibile da un’altra, uno stereotipo vivente viene al nostro cospetto, uno slancio umano fatto di gambe, petto e collo, come quando vai dal fruttivendolo e stai pensando al cosmo. Davanti a me – sono seduto – una ragazza che non mi fa sentire né giovane né troppo cresciuto. Mi sorride, mi porge un saluto: “Ciao viandante, io sono uno spirito guida, incarnato in questo corpo da ragazzina. Mi chiamano figlia, alcuni sorella, altri figa. Sono qui per dirti che nonostante tu sia un mago, nonostante tu abbia fatto sette dischi, la tua ricerca è appena agli inizi. Cerca di vivere il più possibile, almeno fino a centoventi anni. Miliardi di cicli verranno. Trovarsi e perdersi. Sbagliarsi e correggersi. Il tuo destino è scritto e da scrivere. Maturi le caratteristiche e gli strumenti per modificarle in simultanea. In questi giorni intensi vivrai contrasti nel chiamarti e paragonarti ad una tartaruga, nel mischiarti coi cerbiatti e dimostrarti esagerato nell’entrare in una femmina, sbilanciando la tua falsa etica in una ciotola di riso e schiaffi. Non riuscirai mai a rilassarti davanti ai fuochi. Devi farti invadere dalle vibrazioni dolorose, che stendono sul suolo e tirarti fuori dal dolore da solo, senza un espediente farmacologico od un attimo di riposo. Devi vivere due vite come una sola per trovare il drago, e devi farlo senza parlare, senza star zitto, disintegrando te stesso ed il concetto di adesso – scusate, qualcuno di voi ha una sigaretta da offrirmi?” Il mio compare porge il tabacco, mentre io sono estasiato. So che per me è difficile. So che non sai perché. E che tu ci creda o meno, io non sono una persona ma quattordici. E che tu ci creda o meno, io sono gli altri, sono il caso. Uno scoglio tra le ondate di pragmatismo ed astrazione. Mi disintegro nell’acqua per gli effetti di erosione. (Aspetta, aspetta che rispondo al telefono. Pronto?) Amica mia, è da tempo che non parliamo, non capitiamo negli stessi posti, ed i concerti sono son certo i luoghi adatti a concentrarsi e completarsi. Bisogna ritagliare spazi, anzi, dedicarli, ché quei ritagli a tempi stretti non son possibili i racconti. Amica mia, cosa racconti, cosa mi accenni, come vivi in questi giorni? Ti affanni, ti appanni gli occhi dai pianti, e pianti i ragazzi gli uni dopo gli altri? Che devo dirti, di concentrarti su quel che cerchi? Disegna cerchi e poi distruggili… sì, lo so, non ascoltarmi, non darmi retta, io che sono lento come una caretta caretta rimasta a terra che cerca l’acqua. Dici che sono buffo perché mi immergo e non mi tuffo, perché rifiuto di fare rima con quel personaggio belga dei fumetti e cartoni, con la pelle blu, i pantaloni bianchi, che si muove in branchi, nei boschi, nei villaggi. Amica mia, mi piace dirti stupidaggini, perché parliamo di argomenti pesanti e ci è concesso distrarci, farci dei ritratti reciproci in cui specchiarsi per poi ritrarsi e ritrattare i fatti. Incontriamoci, mangiamo qualcosa dai piatti, dai cartocci, così mi spieghi i tuoi rapporti complicati, i nuovi sfoghi che si son palesati. Io ti racconto invece di come non riesco a sfogarmi dei poteri magici che uso per controllarmi nelle situazioni normalmente assurde in cui sono solito ficcarmi. Amica mia, non guardiamo film assieme, non andiamo a divertirci: sono cose che fanno i conoscenti, non gli amici, sono scuse e gesti per occupare il tempo tra persone che non sanno cosa dirsi, che non voglion preoccuparsi. E noi siamo preoccupati, non parliamo mai del fatto che non ci siamo mai baciati. Ne parliamo adesso: perché, è ovvio, noi siamo la risposta alla domanda “possono due persone di diverso sesso dialogare a fondo senza che scatti un movimento od ingranaggio che si muove sempre nello stesso modo, e che non fa mai un rumore nuovo?”. Amica mia, siamo al telefono, i miei compari ridono, fanno battute allusive, mi diverto a dare loro risposte elusive. E non sarebbero compari se non sapessero dei miei poteri: li senti ridere con umorismi sottili e fittizi dovuti ai Fumetti della Gleba, e non ai servi della gleba. Cantami o musa del tuo lavoro, lo stai cercando? Ne hai trovato un altro? È un’occasione? Bada, le occasioni non esistono: se fai una scelta mentre stai male qualsiasi occupazione in poco tempo comincia a pesare, e tu a ripeterti e non capire come sia possibile che con un lavoro così comodo e stabile il tuo pianto rimanga inestinguibile, al limite tra l’angoscia del perfettibile e quel barile di irresolutezza di cui non ti liberi né in una casa nuova né con una compagnia diversa, e queste cose le so perché anche io, e queste cose si disgregano con il tempo, amica mia, un millimetro dopo l’altro, occupando lo spazio astratto, soluzioni proprie, mai obsolete, mai prese in prestito come le diete, o perlomeno rimodernate, senza rispetto per chi le ha prestate. Amica mia, quando mi riporti un libro fai sì che sia spiegazzato, senza copertina, tutto scritto e sottolineato. Dai, vediamoci per parlare. Stai spendendo troppi soldi: in questo modo non posso usare i miei poteri, posso al massimo darti dei consigli. Sono troppe le persone di cui vedo il potenziale e che non mi permettono un’efficace interazione per pigrizia, per sfiducia o per diritto, che il mio non-rispetto lede, e si ritraggono. Dimmi quando invado troppo. Lo so, ti fermi, devi andare. Fammi sapere quando trovi un lasso spazio-temporale per camminare, parlare, fare merenda. Stammi bene – retorica a parte, ti saluto, persona densa. Un amico si presenta a casa mia alle quindici e trenta. Porta con sé la sua ragazza. Il campanello suona: io apro, loro entrano. Si accontentano di succo di frutta e biscotti. A volte mi capitano dei pomeriggi vuoti, che occuperei guardando cartoni animati, giocando con i videogiochi. A volte questi pomeriggi vengono solcati dai volti noti. Seduti al tavolo, io, un mio amico, una ragazza, un aggettivo possessivo: sua. Lei è zitta. Seguo la conversazione con gli occhi. Io mi chiedo cosa lei stia pensando. Il suo ragazzo mi chiede di tenerla d’occhio per qualche ora fino al suo ritorno: deve andare in qualche posto, vuole disfarsi ad ogni costo di questa occhi da cerbiatto. Io accetto. L’amico mi saluta, esce, chiude uno sportello, consapevole del fatto che, fidandosi del sottoscritto, ha vinto un viaggio di qualche ora, lontano da una persona con cui non parla tanto. E siamo qui: mi giro e la osservo. Il suo sguardo è vuoto come il mu, in questa casa non abbiamo la TV, e questa tipa straripa di una voglia matta di avere un dialogo, di aprire la bocca. Lo capisco dal fatto che finora è stata zitta. Io non sono un vero uomo, sono un parcheggio, dove gli uomini si fidano a lasciare le loro donne in macchina ad aspettare. Ed io non sono un parcheggio, sono una scavatrice. Schiaccio le vostre auto vuote, pulite. Scarico lavastoviglie tra il volante e il parabrezza. Ti piace questo mio modo di fare? Io ti sfondo la Golf in modo irreparabile, poi mi prendo la tua colf sessuale, e ci mettiamo a parlare fino a che non si riempie. Il cerbiatto di cui sopra non si distingue. Non arriva ai ventiquattro o ai venticinque. Storia dell’arte, comunicazione, oppure lingue. Io dico: bene, adesso il tuo ragazzo si è dileguato nel niente, lui adesso non c’è, giochiamo alle signorine che prendono il tè? “Cosa intendi?” Voglio dire che nella mia testa c’è un interruttore che quando voglio bypassa a comando ogni interesse di natura sessuale. “Ma così diventi gay!” Ma così diventi stupidina! La persona omosessuale è un’invenzione cattolica, che inscatolava dei comportamenti normali per gli esseri umani, per poter dare un’identità al male e arrostire dei poveri cristi, che oggi chiedono diritti come tutti, e che spesso fomentano i dualismi. Al posto di distruggere dei generi, ne creano di sempre più fissi. Nuovi stili nei sessismi. È per integrarsi tra i generi diversi che io spengo i miei interessi imposti e mi concentro sugli individualismi. Mi individui? Voglio solo tu capisca che non sto cercando di provarci. “Sì ma non c’era bisogno di farmi questo discorso!” Ammetto che forse la mia spiegazione è un eccesso di zelo, che mi rende più ambiguo, e tu capisci di meno, ma ne ho bisogno, perché io cerco di tenere esposto quello che gli esseri umani di solito tengono dentro e nascosto. “Mi piace, ho capito. Premi quel pulsante, spegni gli interessi con un dito. Per qualche motivo adesso mi fido, anche se sembri costruito. Ora sono serena.” Molto bene. Ora possiamo andare insieme a spaccarci di tè e paste alla crema fino alle sei di sera. Così mi spieghi quello che non capisco del tuo ragazzo, che è mio amico. Divertimento uguale merenda, amiche, discorsi sull’amore. A volte invento aneddoti falsi come questo in cui l’ascoltatore possa calarsi, per spiegargli dei fatti di cui non potrebbe capacitarsi. È questo il mio cyberpunk! In un futuro presente senza passato, senza nemmeno una macchina volante, o un espediente narrativo che possa buttarti nel mondo nuovo di Aldous Huxley. Io sono qui che m’impegno, non per affermarmi, ma per avvisarti che ci sono umani diversi da quelli che puoi trovare informandoti. Sbiadisco l’immagine di me stesso e del cerbiatto che mangiamo dolci dallo stesso piatto. Rimango solo io che parlo, quasi contento, con questi suoni intorno, sopra, sotto. Nessun canone, nessun contesto. Questa non è musica, è un artifizio spontaneo di qualcuno che vede oltre l’umano. Piano piano arreda il vuoto. “Ma il vuoto non lo puoi arredare!” Dai, cerbiatto, fammi dire le mie stronzate da mago! Il mio problema (uno dei) è che divago subito, è che pretendo tu capisca tutto in una sera. Quindi faccio uno sforzo, sospendo la pretesa, ti racconto qualcosa che non mi interessa, ad esempio di questa altra ragazza. Mentre cammino in strada, in piazza, il vento freddo non mi taglia la faccia. Vorticata e bassa, la città universitaria in passato già citata dove la gente non si ammazza ma si ammassa. Ed è subito gabbia di Faraday, ovvero: aperitivo, localino, barettino, svago del mercoledì in prima serata. Abitudini indistruttibili, come una rete metallica che scarica gli stimoli, impedisce alla gente di rimanere folgorata, tranne quando viene fotografata. Ed in pratica io entro in uno di questi localetti da aperitivo. Schivando l’estrazione di un dagherrotipo, riscopro l’imbarazzo antico di colui che folgorato più volte non è protetto da un titolo. Ma io mi abituo, mi situo, mi incastro anche se non partecipo al rito collettivo. Mi siedo al banco, ordino un digestivo. Cos’hai capito? Non un amaro! Il mio farmaco è una tazza di acqua calda ed erba aromatica, rigorosamente senza zucchero. Alla barista cala la vista. È più difficile preparare un tè caldo rispetto ad un’arista al forno con prugne, castagne e patate di contorno. Mi pronuncio: non importa, aspetto, ho tempo, niente fretta, non importa, aspetto, mento, non ho tempo, non ho fretta. Accanto a me siede una ragazza, per l’esattezza è un’essere di razza umana da cromosoma x doppia, la quale scoppia in una risata: “Questo tipo di bevanda – credo si riferisca al tè – non è molto adatta a una serata come questa. Guarda che faccia. Dai, divertiti, bevi una birra”. Io sorrido e poi mi esprimo: mi dispiace, sono astemio, ho degli amici che mi aspettano, e bevo un tè per ristabilire l’assetto del mio clima energetico interno, disturbato dal poco sonno, dal troppo movimento, da una postura scomoda che conferisce patimento a tutto l’organismo ed in particolare al mio trigemino, allo stomaco, al nervo vago. “Accidenti, te ne intendi. Scusami, non volevo mica disturbarti. Ne sai a pacchi sullo yoga e su ogni cosa lo riguardi!” Ti sbagli, non ho mai preso una lezione. Sparo solo cazzate per sostenere una conversazione. “Mi sembri una persona intelligente. Io mi chiamo Azzurptkl, e tu come ti chiami?” Il mio nome è: sono entrato in questo locale che non mi va a genio, ma che sopporto per ottenere supporto allo spostamento. Tramite un comportamento reputato ai margini di un contesto, sono in viaggio a piedi. Stasera partecipo e parlo ad un concerto. Sono gentile con gli sconosciuti e mi interesso. Indefesso nel discorso, non mi tiro mai indietro. Non apprezzo il dare contro. cerco sempre un compromesso senza tendere al ripiego. Mi spiego? Il mio lavoro è il mago. “Rido. Scusami. Sei simpatico. Sei strano. Ti va se parliamo?” Ehm, ma noi stiamo parlando. “Allora ti va se parliamo di qualcos’altro?” Certo. Il mio situazionismo spicciolo mi impone di indagare su di un fatto. Se ti offendo meno rifiutando il tuo invito all’alcol, senza che tu mi tacci di purismo, proibizionismo, straightedgismo. È che più ne capisco, meglio interagisco. Dai sconosciuta, colma queste lacune che non mi caratterizzano. “Non saprei che dire. Per me è normale offrire quando mi vado in giro a divertire. Seguo i miei impulsi, il mio cane, il mio intuito femminile”. Apriamo una parentesi: io non odio gli uomini. Io non odio nemmeno le donne. Purtroppo per risultare simpatico ai primi e farsi amare dalle seconde molto spesso è necessario evitare di fare certe domande. Molte domande. Approfondite domande. A volte non ce la faccio proprio a fingere che mi interessino meno le arti magiche piuttosto che arrivare a spingere un seme all’interno delle parti intime senza rendermi conto di cosa ho fatto e soprattutto con chi. La mia passione si accende quando interviene il soprannaturale, quindi quando qualcosa va oltre la natura, sopra la natura, attorno alla natura. E non si tratta di una metafora per dire che mi masturbo pensando alle streghe o alla telecinesi. Ed è per questo che mi interesso, quando la ragazza dice “intuito femminile”. C’è sempre una possibilità remota che non lo stia dicendo solo per autoconvinzione o per l’adesione ad un’idea di donna tramandata dalla nonna di tutti noi, o dai giornalacci tipo Cosmopolitan che albergano nel cuore di tutti noi. Intuito femminile. Intuito femminile. Intuito femminile. Intuito femminile? Spiegami, ragazza, di cosa si tratta. Mi interessa capire ciò che tu chiami “intuito femminile”, dato che io conosco solo l’intuito semplice nella sua complessa accezione molteplice. “Non sono stupida. Usi la tecnica socratica della maieutica. In pratica mi chiedi di spiegarti qualcosa che non saprei spiegarti solo per darmi contro, girarmi attorno, cuocermi a puntino come se fossi un pollo. Sei uno stronzo, un lupo travestito da agnello!” Complimenti, è tutto esatto, mi hai scoperto grazie al tuo intuito, ma non hai capito affatto il mio comportamento. Le mie intenzioni non sono quelle di distruggerti. Voglio solo portarti in posti scomodi. “Scusami, ma preferisco smettere di parlarti. Non sopporto gli uomini subdoli” Sei una stupida! La persona subdola è l’uomo che ti vezzeggia e che ti coccola con la finalità più pratica, dimenticata persino da lui stesso, chi sottende nel compromesso di un rapporto una voglia di possesso. E se davanti al tuo invito a parlare e poi rifiuto di parlarmi, io mi adeguassi, smettessi di cercare di capirti e cominciassi a corteggiarti, scusandomi e dandomi per matto ti sembrerei un po’ meno stronzo? “Non capisco cosa hai detto e non ti credo. Sei uno di quelli che si sentono superiori agli altri e non si occupano di chi soffre per davvero!” Il litigio è l’espressione massima del salto nel vuoto dentro una persona definita come “sconosciuto”. Il tentativo di riempire questo abisso con le definizioni che ti hanno detto ad un banchetto a volte non lo sopporto, ma non chiedo rispetto. Perché il rispetto è un contenitore, e sono qui per espandermi, non per contenere. Ragazza, stammi a sentire. Ho proprio voglia di spiegarmi, farti capire. Prima mi scuso per le mie parole… “Era ora!” …dopodiché ti faccio un regalo e me ne vado. “Non so se voglio un regalo da te”. Le parole della ragazza non arrivano alle mie orecchie, ma i bordi della mia tazza già lambiscono le mie labbra. L’acqua bollente mi rilassa. Sto per usare la magia. Mi concentro sull’istante. Particella atomica della situazione. Ogni frammento di tempo diventa protone, neutrone, elettrone. La rappresentazione atomica del tempo si distrugge! Eccomi. Sono sul piano senza rappresentazioni. Richiamo l’arte più profonda, quella di non essere me stesso. Chiedo al dio del caso il permesso di incarnarmi contemporaneamente nel mio corpo e in quello della ragazza che mi siede di fianco. Nessuna risposta. Nessun ostacolo. Intorno a me il tempo si è fermato, o per meglio dire era già fermo. Ne approfitto. Dormo un’ora, visto che ho tutto il tempo che voglio, e che per svolgere l’incantesimo dell’immedesimazione serve la stessa energia che useresti per correre tu 10 chilometri in salita per un’ora. Quando corro guardo la natura, gli alberi, le foglie, la terra, una casa, il cielo. “Se corro così tutti i giorni potrebbero rassodarmisi i glutei! La prossima volta vengo a correre con il cane, il mio amore, eh?” Ecco, ecco! sono nel corpo della ragazza. Sento i suoi pensieri, sento le sue percezioni. “Ho la testa leggera e pesante che fluttua, coadiuvata da tre birre. Ho la gola un po’ infiammata, e la voglia di fumare una sigaretta (questa poi…) ma non abbastanza. Mi sento scomoda su questo sgabello da bar, ma non voglio cambiare posizione. Devo mostrarmi forte nei confronti di questo buffo ragazzo con gli occhiali, che utilizza termini intellettuali. Probabilmente gli piaccio, ma non capisco. Vuole scusarsi. Speriamo che riesca a non giocarsi anche questa seconda possibilità che voglio dargli”. Davvero poco interessante. Voglio cercare qualcosa di più nucleico. Certo, potrei anche palparmi le tette, così finalmente potrei dire di aver esplorato dentro un corpo femminile senza dover usare la scusa del sesso per supportare la mia curiosità apparentemente senza senso. Bisognerebbe scindere le due cose, in due momenti ben distinti: in un momento ci si esplora, si conosce e ci si tocca, e in un secondo momento si lascia che gli istinti prevalgano, mai le due cose mischiate. Volete negarlo? Vi siete mai chiesti perché non riuscite a capire, conoscere il partner e perché raramente riuscite a fare del sesso soddisfacente? È logico: volete fare entrambe le cose contemporaneamente. E chi vi propone alternative lo rinchiudete in una definizione tipo “macchinoso” o “razionale”. Dai, mentre voi ci pensate io continuo a cercare il punto nodale della ragazza in questione. Evito i pensieri sulle scarpe, sulle mestruazioni, sui rapporti pregressi con uomini dozzinali. Voglio sapere cose più fondanti. Cosa distingue questa persona dagli altri? Qual è la sua forza? Di cosa è composta l’essenza di ciò che è definito “intuito”? E perché lo lega al cromosoma doppia x senza y? Ma vedo solo sensi di colpa. Un concetto di amore riversato su di un cane al guinzaglio come guardare una natura morta. Rimembranza distorta di sport, una storta. Voglia di fare, molta, ma travolta dai contesti, distrutta da termini come “debolezza” e “forza”. Dai, fammi vedere cosa c’è dietro quando arrivo al tuo concetto di sofferenza, dai! È L’estasi. Ecco! È l’estasi. L’enfasi dell’eureka. Questa ragazza ha sofferto in seguito a un aborto. E voi che state ascoltando, vorreste che adesso io mi esprimessi sulla giustezza o meno dell’abortire per il vostro sollazzo politico? Siete fantasmi che portano all’esasperazione. Ci si avvicina ad una scelta in maniera individuale. Ci sono scelte che si fanno al di fouri della collettività. Senza coscienza identitaria, senza tradizione rivoluzionaria, e l’aborto è una di queste. Questa ragazza è stata male perché attorniata dagli spiriti della morale in un momento doloroso e di concentrazione. E questi spiriti nascono da voi quando producete un’opinione. E come cercherete di ignorarmi? Dicendo che è una mia opinione? Allora lo faccio anch’io, dai. Vi glisso, vi sorvolo. Mi rimane solo una cosa da fare: voglio guardarmi attorno con gli occhi di questa persona ed intuire qualcosa di correlabile a questo nucleo che mentirei se definissi centrale. Ma il fatto è che non ho sufficiente energia mentale per spingermi oltre. “Mi guardo attorno: dentro questo pub sordido, arredamento stupido, qualcuno indossa un indumento orrido, il sottofondo musicale mi fa muovere a tempo un piede. Sento il bisogno di ballare, ordinare qualcosa di più forte, forse vino, whisky, grappe. Dovrei stare in casa per studiare e non perdere tempo in un locale. Mi piacerebbe incontrare un uomo vero, che si interessi, si prenda cura dei miei interessi, si fermi a guardarmi e capisca i miei traumi, che sappia sempre cosa dire senza urtarmi. E invece chi ho davanti? Uno stupido che cerca solo di incantarmi con stupidaggini sui maghi, discorsi vaghi. Ma dai, svagati e staccati. Smettila di proteggerti dagli altri bevendoti acque calde, raccontando aneddoti. Prenditi sul serio, prenditi meno sul serio. Mentre tu parli delle tue teorie filosofiche c’è gente che soffre per davvero. E poi guardati, con quel giubbotto sei ridicolo, ingenuo nei movimenti, nel taglio di capelli. Mi ricordi un bambino”. Perdo la concentrazione. Torno sul piano. Torno nel mio corpo. Mi volto e mi rivolgo: ragazza, chiedi di essere compresa, ma non sei disposta ad abbassare nessuna tua difesa. Tu sei in guerra. Un nemico, una divisa. Ma il nemico ha dei pensieri. Finché dispenserai inadeguatezza, finché ti chiuderai nel tuo concetto di giustizia, potrai soltanto schiacciare gli altri e combatterli. Le tue armi sono i lontani e vicini esempi di chi soffre veramente. Finché inali sofferenze tu sarai vincente, dalla parte giusta della morale. Potrai ordinare agli altri quando ci si deve divertire con un’offerta di alcol all’interno di un locale. Oppure quando bisogna piangere pensando ad un essere umano morto o al tuo aborto. Io soffro del tuo vedermi ridicolo. Accetto fatica e morte, ma soffro di ogni equivoco. Hai vinto. “Ho vinto cosa? Non capisco! Come ti permetti di parlarmi dell’aborto?” Finisco il tè e me ne vado, tanto non ti importa se parliamo. Tu vuoi un dialogo controllato, la risposta ad un richiamo, un cane pavloviano. “Cos’hai fatto? Non abbiamo quasi parlato. Sembra che questo dialogo tu te lo sia inventato!” Non importa, non ho colpa. Ho gli occhi color porpora. Non posso staccarti dal tuo concetto di uomo e di donna. Piangi ora, e non sapere bene perché! La mia sedia non era poi così scomoda. Sono uno stupido. Usare la magia per comprendere gli altri non mi esula dai colpi. Anzi, sappiatelo: un mago riceve sofferenze anche da come viene mosso un bicchiere, dall’uso improprio di un termine, dalle volontà altrui quando sono vanamente troppo ferree. E me ne vado dal luogo e nel momento massimo di svago. Mentre tutti ridono, io mi piego, scompaio nascosto dalle lievi lacrime di una persona sconosciuta che si è imbattuta nella pretesa ridicola di una persona ridicola. violando le conseguenze che la violazione dei sacri limiti tra due persone comporta… …no, sto sbagliando in qualcosa, il nervoso ed il quieto si alternano freneticamente . Come fai a svegliarti questa mattina, con la nausea, l’emicrania, come in stato interessante – com’è stato, interessante? La sorpresa di una cervicale, un rilascio di tensione esplode da stanotte. È un dolore pulsante che parte dalle spalle, spinge dentro il collo, si ramifica nella tempia, tra l’occhio e il naso. Forse non è il caso di una colazione, cosa dici? Cosa dici, ovatta della realtà, circostanza desaturata? Una mano si avvinghia all’occhio, vedi homunculus? No. Perdi il senso della profondità, non sai se indossi le ciabatte, non sai se il dolore ti abbatte sul water fino a farti vomitare. È il tuo ciclo mestruale: arriva quando vuole e anche più di una volta al mese, a tradimento. Alla fine del tuo sonno non devi usare il braccio destro, non devi leggere, disegnare, cucire, cucinare, guardare uno schermo. “Quindi cosa devo fare?” Una progressione di farmaci dal più blando al più alto in grado. E non scappare subito in un bicchiere di acetilsalicidico, ibuprofene: alimenta la paranoia complottistica che tiene i prodotti farmaceutici lontano dalla vista. “Quindi qual è il mio farmaco?” Acqua calda! Lo sappiamo, non scomodarti a preparare il tè: non c’è tempo, potrebbe avere effetto emetico. Sono io il tuo medico. “Quindi?” Mezz’ora sotto un getto idrico che sfiora il quarantaquattresimo grado centigrado: vapore, avvolgilo, conducilo alla distensione, alla stabilizzazione termica del fisico. E intanto stai male: contorciti ancora per 13, 14, 15 secondi, poi accorgiti di un dettaglio e concentratici. Elemento: acqua; molecola: agitata. Risonanza termica con il resto del corpo. Elemento: ceramica; molecola: tensissima. La ceramica è naturale, nasce dalla terra. Elemento: plastica; molecola: molto complessa. Nasce dal petrolio, fatto di fossili, piante, animali, umani – sono anche io un essere umano? Che mal di testa, sono molto simile alla mia tenda della doccia. Elemento: accappatoio; molecola: morbida e protettiva. La doccia è finita, ora vestiti e riassemblati al mondo reale, facendo una camminata illimitata. “Agli ordini, sei tu il capo!” Ambiente: bagno; ambiente: camera. Il passaggio da un ambiente all’altro è sottolineato dal dolore di testa che si è calmato, ma che pretende ancora un sacrificio del mio tempo e spazio. Non mi piace stare sempre e solo in casa. Oggetto: indumenti; preparazione: equipaggiamento. Secondo farmaco: la passeggiata. Funziona per tutto: dubbio, delusioni d’amore, mancanza di idee, rabbia, tristezza, parole che non riusciranno mai a descrivere come ti senti, noia, e pure per il mal di testa. Pronti alla somministrazione? Fai ridere, c’è gente che mangia le lasagne con gli ansiolitici a pranzo e cena, chi non dorme senza sonnifero, chi non scopa senza progestinico. Parola: scopare; etimologia: sconosciuta. Cosa ne pensi di questa parola? “Eh, non lo so bene, non riesco a formulare una frase che stia in piedi in merito”. Ecco, bravo, allora usciamo. Scarpe, soprabito, i nervi che pulsano. Emblematico che mentre esci per dar sollievo al tuo cervello ci sia qualcuno che suona a sorpresa il campanello. Drin!, due sagome dietro la porta vetri: apro. Due sagome sfuocate dal dolore dei miei nervi non saldi. Salve, stavo uscendo! “Ciao, noi stiamo diffondendo la parola di Cristo, posso lasciarti un opuscolo?” Oh, certo i vostri opuscoli mi divertono, li leggo sempre con trasporto, come ho detto stavo uscendo, il mio tempo sta dolendo… “Mi fa piacere, hai piacere anche a leggere la Bibbia?” È chiaro che sono testimoni di Geova: non ti interessano, adesso non parlarci, vai a curarti in mezzo ai prati. Niente conversazioni con questo yuppie religioso e la sua compare di trentott’anni passati, che indossa vestiti datati, austeri – tailleur, capelli raccolti – che non si accorge dei risvolti sensuali dei suoi sguardi, dei suoi comportamenti. Che parola abbiamo detto davanti alla porta? Nonono, la tesimone no per favore. Sono il tuo avvocato, il tuo dottore. Non ho mai letto la Bibbia e trovo la vostra interpretazione degli scritti imprecisa e pedissequa. Tenere l’etica in un libro mi fa abbastanza schifo. Non condivido il motivo che vi porta al rifiuto delle trasfusioni; apprezzo invece che andiate a proporvi casa per casa, che non abbiate una chiesa vera. Fate breccia in chi è dubbioso, non in chi è pervaso da un forte credo religioso. Fate proseliti spargendo questa idea di male, retorica e rudimentale. La prima sensazione che ho provato vedendovi arrivare è una volontare di limonare questa donna così modesta, quasi vuota, e a dire il vero questa volontà mi è già passata. Me ne vado, passeggiata, mal di testa, buona giornata. Sei stato bravo! Non dire stupidaggini: a volte non ho la minima idea di quel che sto dicendo, di cosa mi capiti. Il disordine trionfa, il caos nel dialogo. E secondo voi chi sta parlando adesso? Sono io? Uno dei miei me? Un testimone di Geova? I miei nervi? Perché non sono intero quando cammino, quando parlo ad un amico, quando curo il mal di testa, quando vedo una ragazza che forse mi interessa – no, forse no, forse sì, cosa voglio? Cosa mi manca? Quale altra domanda soddisfa questo buco nello stomaco? Fame di espansione? Oh no. Cosa c’è? No, no, niente. No, adesso lo dici! Forse… Cosa? Forse credo in Dio? Non l’avrei mai detto! Probabilmente il punto è questo: tutto ciò che mi rende incompleto ora ha un nesso: Dio, la suprema risposta a ogni quesito, il momento in cui dico “adesso ho capito”. Sì, ne sono certo, io credo in Dio, Diosordine! Ora come faccio a dirlo a mia madre, a mio padre, a mia sorella, ai miei amici, come faccio a spiegarlo ai concerti? “Ehi ragazzi, credo esista un essere superiore che ha generato tutto!” Beh, no, aspetta, aspetta: io sono un mago, Dio non può essere un mago! Dio è stata la scintilla che ha portato l’Universo ad essere generato, non può essere una persona, non può assomigliarmi come umano, non può avere la barba, il triangolo in testa, l’abito bianco – no, questo non è il mio dio. Il mio dio è un’entità con la coscienza, una forza che scorre e permea tutte le cose – no, nemmeno così, altrimenti sarebbe solo una morale da opporre al caos, e a me il caos piace un po’. Quindi cos’è Dio per me? È un insieme di forze – quindi sono politeista! Non dire cazzate, forze come energie disseminate nell’universo, nel Sistema Solare. Quindi Dio è negli elementi, è un legame di tutto ciò che esiste, un algoritmo complessissimo? Sì, va bene pi greco, vai a prendere il trapano: la matematica mi piace ma non ho voglia di studiarla – cos’è, se non risolvo un integrale Dio si arrabbia? E cosa succede, prendo 5 nel compito? E quando arriva il messia? Quando gli scienziati che stanno studiando riescono a chiudere l’M-teoria? Hai ragione, forse non credo in Dio, sono solo una persona molto disordinata a cui non basta mai lo spazio. Sbagliato! Tu non sei una sola persona. Giusto! Hai bisogno di parlare con qualcuno di esterno al tuo sistema che identifichi con il vocabolo gli altri. Per parlare di cosa? Ma è ovvio, della giornata in cui hai creduto in Dio per due minuti, la giornata in cui ho creduto in Dio per due minuti, la giornata in cui ho creduto, la giornata… Sono in pezzi. Qualcuno per favore può raccogliermi? Quando sono intero è a caso. Non aspettatevi che io spieghi cosa è per me il caso – è il motivo per cui l’uomo crea Dio a sua immagine e somiglianza. Il mio dio è il mal di testa.
Posted on: Wed, 14 Aug 2013 15:15:52 +0000

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