Ultima parte: Nella solenne ed imponente cornice monumentale - TopicsExpress



          

Ultima parte: Nella solenne ed imponente cornice monumentale delle Ardeatine la Chiesa cattolica di Roma tornava a dare al mondo un messaggio di pace tra i popoli e rinnovava l’immagine sacrificale degli eroi nazionali, tante volte celebrata dalle istituzioni quale elemento simbolico del riscatto della patria e delle libertà, paragonandola all’olocausto del Cristo per amore di tutta l’umanità, un sacrifico che non aveva barriere di popolo, di lingua o razza. L’atto di offerta della propria vita in nome del valore supremo della patria, l’eliminazione di ogni differenza ideologica, politica, religiosa, d’età delle 335 vittime divennero gli elementi con i quali interpretare la strage alla luce della concezione universalistica cattolica della fratellanza, per appropriarsi delle Ardeatine quale simbolo di quella tradizione culturale cristiana, intesa come culla di ogni sentimento di civiltà ed elemento principale dell’identità italiana. Il dominio di questa tradizione religiosa, che faceva di Roma, grazie alla presenza della Chiesa cattolica, l’epicentro della pietas cristiana e dell’eredità latina, quale forte elemento dell’identità nazionale italiana, lasciava poco spazio alla pur millenaria religione ebraica, anch’essa presente nella tradizione cultuale di Roma. Del resto questa forte tradizione culturale-religiosa era rivendicata per Roma anche dalle istituzioni laiche poiché gli italiani erano «nati e sorti nella civiltà occidentale, la quale per dire meglio non è né occidentale né orientale, ma è la civiltà italica ed è civiltà che viene da Roma». La religione cattolica infatti si mostrava nel popolo italiano come l’elemento più forte e fecondo della solidarietà, tanto che «anche nella polemica, ogni parte tenta di richiamarsi alla comune legge del cristianesimo, al concetto della fraternità degli uomini». Il dominio della tradizione religiosa cristiana avrebbe trovato spazio anche nel cimitero monumentale delle Ardeatine, dove forte era anche la presenza ebraica ma dove questa avrebbe convissuto in una sorta di subalternità con la maggioranza dei caduti di religione cristiana. La monumetalizzazione delle Ardeatine, nuovo simbolo del sacrifico cristiano, avrebbe oscurato dalla memoria cittadina la tragica esperienza degli ebrei di Roma, il rastrellamento del 16 ottobre del ’44, divenuto esclusivo patrimonio della memoria della comunità ebraica. La preminenza delle Ardeatine nella memoria collettiva della città quale luogo monumentale-simbolico della lotta resistenziale romana, celebrata nell’emblema del martirio cristiano, portò l’oblio non solo su tutti gli altri eventi tragici che avevano caratterizzato i nove mesi dell’occupazione tedesca e sulla forte differenza di identità dei 335 martiri, ma anche sulla tragedia della comunità ebraica che non ebbe un riconoscimento nel dopoguerra per il contributo di sangue versato in nome della libertà. La capitale della cristianità non avrebbe reso omaggio ai martiri ebrei fino al 1982, quando la Giunta comunale di sinistra mise una lapide a piazza della Rovere dove erano stati trattenuti gli oltre 1022 ebrei rastrellati il 16 ottobre, mentre avrebbe reso omaggio alle Ardeatine e al Milite Ignoto. Tuttavia la comunità non avrebbe cercato mai celebrazioni ufficiali e riconoscimenti da parte di alcuna autorità politica: il culto della memoria fu per il popolo ebraico fonte di legittimazione identitaria, nonché ricezione e trasmissione dei valori religiosi all’interno di un panorama familiare e personale. La trasmissione della memoria «indicò alla città una modalità del ricordo di segno soprattutto emotivo e circoscritto nell’ambito privato e familiare»:le memorie della Shoah non divennero mai patrimonio della memoria di tutta la comunità cittadina ma furono l’elemento di trasmissione della memoria dei «figli della colpa», di coloro che si erano salvati perché altri loro cari avevano trovato la morte. Il lutto ebraico, inteso come lutto di tutta una comunità nella continuità degli eventi che caratterizzarono la sua storia, non fu mai elaborato nelle celebrazioni ufficiali dei caduti per cui […] la morte degli ebrei alle Fosse Ardeatine è come se fosse una parte della storia del popolo ebraico, delle sue tragedie. La comunità ebraica ha vissuto la tragedia delle Ardeatine come se questa fosse legata ad un filo conduttore alla Shoah. Per questo non potrà mai esserci una storicizzazione legata al monumento . La comunità rimase ai margini di una memoria collettiva nazionale fondata sull’esaltazione del mito della resistenza e dei valori della lotta antifascista, rinchiusa in un dolore e in un lutto vissuti nell’ambiente familiare, senza la retorica ufficiale che fece della strage un evento simbolico della rinnovata unità del popolo italiano. Tuttavia in quegli anni di solitudine, nonostante il lutto collettivo imponesse di ricordare in un unico evento tragico per il popolo d’Israele tanto la strage delle Ardeatine quanto l’esperienza della Shoah per conservarne una memoria da tramandare, la comunità ebraica fece dono alla nazione dei 75 ebrei trucidati il 24 marzo. La comunità ebraica infatti, in nome della concordia e della pace, abbandonò il proposito di seppellire nel campo ebraico quei resti, rinunciando ad una particolare sepoltura, quella per la quale «il corpo del defunto deve toccare il fondo della terra, dato il precetto biblico Polvere sei e polvere ritornerai»[196] . La strage delle Ardeatine fu percepita dal popolo ebraico come un fatto unitario con altri eventi tragici: la Shoah di 6 milioni di ebrei, i campi di concentramento, le Ardeatine, il 16 ottobre del ’43 rimasero nella memoria di intere generazioni della comunità come fatti appartenenti tutti alla storia del popolo d’Israele. Il lutto ebraico intorno alla strage delle Ardeatine si circondò di un forte nucleo familiare e comunitario tanto da essere elaborato sia religiosamente che collettivamente […] Dopo la morte di qualcuno si sta riuniti in casa e non si può fare alcun tipo di lavoro e non si può assolutamente uscire di casa per sette giorni perché l’unità di gruppo crea forza. Questo è l’aspetto principale della collettività nella elaborazione del lutto. I sette giorni perché si crede che l’anima ancora circoli all’interno della casa, poi man mano che sale si recita il Kaddish che è una preghiera per l’esaltazione dell’anima. I figli maschi per 21 giorni dalla morte del defunto non devono tagliarsi barba e unghie, per portare agli altri membri della comunità la visibilità di questo lutto, e si fa un taglio sugli indumenti intimi che simboleggia la separazione. Dopo questo periodo bisogna mangiare per quattro venerdì sera e il sabato a pranzo insieme. Dopo un mese trascorso dalla morte del defunto si torna al cimitero e si recita di nuovo il Kaddish. Poi per un anno intero bisogna vivere il lutto. La trasmissione della memoria attraverso questa particolare forma di elaborazione del lutto era da secoli destinata nella cultura ebraica alla formazione delle giovani generazioni e la lezione della Shoah, intesa come tragedia da non dimenticare divenne per il popolo ebraico più che una storia da raccontare, un lutto da tramandare ai posteri come elemento dell’identità di un popolo e di una cultura. I figli della Shoah, i nati dopo la tragedia dello sterminio del popolo ebraico, avrebbero portato per sempre il peso di essere nati grazie al sacrificio di qualcun altro e questo essere venuti alla luce per la morte degli altri rese impossibile superare definitivamente il lutto. a monumentalizzazione delle Ardeatine impedì la trasmissione della memoria del dolore per la perdita, come nella tradizione ebraica era d’uso, sia per la singolare sepoltura delle salme in sacelli, del tutto estranea alla dimensione psicologico-affettiva, familiare e di gruppo tipica del lutto ebraico, sia anche per la mancata individuazione dell’identità dei caduti. Nel mausoleo delle Fosse Ardeatine infatti furono inumate 12 salme di ignoti che le famiglie non poterono mai piangere, né le istituzioni avrebbero mai ricordato durante le celebrazioni dell’anniversario della strage nella suggestiva e commovente lettura dei nomi dei 343 caduti sepolti nel mausoleo, né la memoria collettiva ne avrebbe serbato il ricordo. La storia della rimozione della soggettività di queste salme prive di identità si legò alla vicenda di una delle tante famiglie di religione ebraica appartenenti alla comunità di Roma, già segnata dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Il 27 aprile del 1999 la segreteria della Presidenza nazionale dell’ANFIM inviava una lettera al colonnello Massimo Coltrinari, capo della segreteria del sottosegretariato alla Difesa, e al generale Italo Nicassio, del comitato per le Onoranze ai caduti di guerra, nella quale si invitavano le citate autorità a studiare il caso della tomba di un ignoto, la n. 329, contenente, secondo le dichiarazioni dei familiari, i resti di un partigiano di nome Marco Moscati. La questione del riconoscimento della salma dell’ignoto era stata sollevata dal Presidente nazionale dell’ANFIM, Giovanni Gigliozzi, che aveva riposto la soluzione della problematica al Commissariato Generale per le Onoranze dei caduti di guerra, sottoposto all’autorità del Ministero della Difesa, che aveva fin dal dopoguerra avuto in custodia il mausoleo delle Ardeatine. Il Ministero della Difesa tuttavia rispondeva che «dalla documentazione agli atti non risultano elementi probanti che permettano di attribuire al partigiano Marco Moscati i resti umani sepolti nella tomba n. 329 del Sacrario delle Fosse Ardeatine». Secondo il capo della segreteria, il sottosegretario di Stato Paolo Guerrini, la dichiarazione del signor Pizziconi relativa gli abiti indossati da Marco Moscati all’atto della cattura non aveva risolto il problema dell’identità della salma sepolta nel sacello, giacché la descrizione degli abiti indossati dal caduto non corrispondeva a quella redatta all’atto dell’esumazione dei resti dell’Ignoto. La storia dei fratelli Moscati. Emanuele, Marco e Davide, era da tempo nota alla comunità ebraica di Roma dove la famiglia Moscati aveva sempre abitato. Presso la Sinagoga di Roma, a Lungotevere de’ Cenci infatti una lapide dedicata agli ebrei partigiani «per la libertà d’Italia e l’onore del popolo d’Israele», che avevano combattuto la resistenza nella città e nei pressi dei Castelli Romani, riportava il nome di Marco, mentre nella lapide dedicata ai partigiani caduti per la Liberazione, in Piazza Santa Marita in Trastevere, appariva anche il nome di Emanuele. Inoltre nella piazza di Albano Laziale e di Genzano furono dedicate in ricordo di questo partigiano rispettivamente una piazza e una via. Tuttavia tra i nomi degli ebrei trucidati alle Ardeatine compariva solo il nome di Emanuele e non quello di Marco la cui identità non aveva potuto essere stabilita al momento dell’esumazione delle salme poiché la madre di Moscati non aveva riconosciuto gli indumenti che la salma aveva indosso corrispondenti a quelli che il figlio aveva l’ultima volta che ella lo aveva visto. Il nome dell’ultimo dei fratelli Moscati, Davide, deportato ad Auschwitz nell’aprile del ’44, non apparve mai su alcuna targa che ne segnasse il ricordo nella memoria collettiva della comunità e della popolazione di Roma, poiché la comunità ebraica preferì affiggere una lapide agli ebrei deportati da Roma nei campi di concentramento, senza citarne l’identità, data l’impossibilità di rintracciare i nominativi di 2091 romani deportati: […] non aride cifre sono queste ma nella civiltà offesa, nella offesa alla santa legge di Dio è questo un tributo di lacrime e di sangue, onde Israele nel martirio secolare richiama le anime ad una più alta visione della vita riaffermando indomita la rinascente fede dei padri. Secondo la ricostruzione presentata alle autorità competenti dal nipote del caduto per il riconoscimento, Moscati era stato incaricato il 22 marzo del ’43, un anno prima della strage delle Ardeatine, dal capo dei GAP di Albano di andare a Roma per prendere delle armi custodite in un’officina meccanica a Piazza Panico di Roma, ma una spia avendolo riconosciuto lo aveva segnalato e questi era stato portato in via Tasso lo stesso giorno, dove «fu picchiato selvaggiamente ma con grande onore riuscì a non dire nulla della sua rete operativa partigiana dei Castelli Romani» . Tradotto poi a Regina Coeli il 23 marzo aveva avuto modo di incontrare il fratello Emanuele, trucidato alle Ardeatine. È evidente come le date non corrispondano poiché la strage delle Ardeatine avvenne il 24 marzo del ’44, mentre Moscati era stato arrestato nel gennaio del ’44, in un momento in cui, in concomitanza con lo sbarco di Anzio, tutte le formazioni partigiane avevano allentato le misure di sicurezza, credendo che fosse imminente l’arrivo degli alleati. Non a caso il trasferimento di Moscati era avvenuto proprio in quei giorni, poiché la zona operativa dei Castelli aveva bisogno di rinforzi nelle zone operative di retrovia del fronte di Anzio. L’equivoco sull’identità di Moscati era stato determinato al momento del riconoscimento delle salme alle Ardeatine dagli stessi familiari del partigiano. Difatti mentre l’identità di Emanuele Moscati fu appurata dai genitori in base ad un pettinino e ad un vestito a righe che egli indossava al momento della cattura, quella di Marco no perché essendo partigiano ed essendo costretto a vivere in clandestinità non aveva gli stessi indumenti che i genitori sapevano appartenere a lui e per questo non furono in grado di riconoscerlo. Tuttavia secondo il nipote di questi caduti, i genitori dei due partigiani, già straziati dal dolore per la perdita di due figli, non vollero riconoscere il figlio Marco, «per una ragione strettamente psicologica, per non dover ammettere di aver perduto un altro figlio, negando così a loro stessi questa terribile verità». La madre di questo giovane partigiano infatti rimase per anni nella errata convinzione che il figlio potesse tornare chissà da dove da un momento all’altro e per questo «ogni sera, nei giorni di festività ebraica lasciava la porta di casa sempre aperta, pensando che il figlio avesse perduto le chiavi di casa, ma quella porta non fu mai chiusa dal figlio». Tuttavia secondo la testimonianza di Alberto Terracina, amico di Marco Moscati e compagno di brigata, quest’ultimo dopo essere stato interrogato a via Tasso, era stato portato a Regina Coeli, dove nell’ora d’aria libera aveva potuto parlare con il fratello Emanuele, e gli aveva chiesto di mettersi in contatto con la sorella tramite un detenuto che sarebbe uscito il 22 marzo, per farsi portare dei panni puliti, dato che dopo le percosse questi erano tutti imbrattati di sangue. Reale Moscati, la sorella dei detenuti, ricevendo dalla guardia carceraria gli indumenti sporchi di sangue del fratello Marco si impressionò e «per non creare una sofferenza maggiore al dramma che mia nonna e che tutti noi ebrei stavamo vivendo, li gettò a Ponte Capi, prima di recarsi a casa». Tuttavia secondo le dichiarazioni ufficiali rilasciate al Ministero della Difesa da Marco Pizziconi, amico di Marco Moscati, che aveva preso parte alla guerra partigiana nei Castelli romani presso la zona di Albano Laziale, i familiari di Moscati non avevano potuto riconoscerlo perché egli indossava al momento della fucilazione alle Ardeatine i vestiti che aveva scambiato con lui per poter fuggire il 10 gennaio del ’44. Nel 1999 il Commissariato Generale per le Onoranze ai caduti di guerra dichiarò che non c’erano gli elementi per poter dire che la salma del sacello n. 329 corrispondesse a quella di Marco Moscati. La richiesta esposta dai familiari del caduto di incidere sulla lapide il nome del loro congiunto, «di rendere vivo il desiderio di tutti i caduti della libertà affinché mai più tutti i popoli del mondo debbano mai udire le grida disperate di coloro che sono stati trucidati soltanto per un unico desiderio la libertà per la vita», non fu realizzata . Il caso di Marco Moscati, così come di tanti altri combattenti partigiani e soldati rimasti vittime sui campi di battaglia o sui fronti clandestini ignoti, senza un’identità, dimostra come l’integrazione dei singoli martiri nella realtà monumentale dei sacelli abbia provocato nella memoria collettiva della città la perdita della dimensione umana, complessa, viva dei caduti delle Ardeatine, cementando l’immagine di un corpo unico estraneo alla dimensione personale e familiare del lutto. III. 7. La «memoria di destra»: la visione di vinti intorno all’attentato di via Rasella e all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il 12 aprile del 1951 una lettera del Ministero degli Affari Esteri indirizzata al Consolato italiano presso Bonn e Monaco di Baviera informava sull’iniziativa di alcune vedove di guerra che aveva fatto sì che gran parte delle tombe dei soldati stranieri caduti in Italia, di ogni nazionalità, fossero curate da pietose mani di donne italiane. L’iniziativa secondo le informazioni ricevute dalle autorità italiane si era estesa anche all’estero a cura del Caritasverband, consistente in un gruppo di donne tedesche che si erano offerte per la cura delle tombe dei soldati italiani caduti in Germania, il cui numero superava i 30000[210]. L’interesse verso i propri connazionali all’estero tuttavia non rimase patrimonio di opere di volontariato ma riguardò anche le istituzioni democratiche consapevoli della responsabilità di dare degna sepoltura e onorificenze ai tanti figli d’Italia che in una guerra ingiusta e poco popolare avevano perduto la vita. L’iniziativa era volta soprattutto a dimostrare interesse da parte delle autorità verso quelle zone in cui la guerra civile era stata particolarmente cruenta e dove spesso i familiari dei caduti, a causa del collaborazionismo dimostrato, non potevano neppure seppellire i resti del proprio congiunto. Data l’importanza di tale iniziativa per una pacificazione che, attraverso la celebrazione dei caduti dell’esercito e della guerra partigiana, avrebbe consentito di costruire un nuovo capitolo della storia nazionale, la Radio Italiana si era impegnata a comunicare la lettura dei nominativi dei connazionali deceduti nei campi di lavoro di Uberlingen, presso il lago di Costanza. Il 28 novembre del ’45 del resto le autorità italiane avevano ricevuto notizia da parte della Stockholm Tidningen del ritrovamento delle salme di milioni di italiani in Polonia: circa 30000 soldati tra italiani, francesi e russi erano stati ritrovati in un ossario ad est di Varsavia, tra cui più di 1000 ufficiali. L’attenzione da parte dei governi dell’Italia liberata verso la sistemazione delle salme dei cauti del Regio esercito e di tutti quelli che avevano partecipato alla lotta di liberazione nazionale, non era volta solo a creare attorno alla nuova Repubblica un’aurea sacrale che ne giustificasse la nascita, ma anche e soprattutto a placare nell’immediato le polemiche nate intorno ai riconoscimenti che lo Stato aveva dato agli ex partigiani e all’oblio nato attorno a quei giovani adepti della Repubblica di Salò che pur avendo scelto di stare da un’altra parte erano pur sempre figli della stessa patria. Difatti molti cittadini italiani avevano segnalato le violenze da parte delle autorità jugoslave che avevano ordinato di rimuovere le salme degli ex fascisti repubblicani «straziando il cuore di quanti alla causa dell’Unità nazionale avevano dato la vita dei loro cari»[213]: quei caduti infatti non meno dei combattenti partigiani erano «assertori e custodi dell’italianità, del suolo consacrato col sangue». Tra i giovani volontari di 18 anni corsi da quella parte della barricata credendo di servire la patria, che «da volontari combatterono e da soldati morirono», e ai quali «non si poteva intentare un processo per aver creduto oltre la vita»,[215] vi erano anche dei bersaglieri del battaglione Mameli, sepolti senza nome, senza una croce, con le spoglie sparse nei campi, che avevano il diritto ad una degna sepoltura. Tuttavia, nonostante fin dal 1950 il Presidente del Consiglio dei ministri De Gasperi avesse auspicato un pieno riconoscimento della gioventù che «quando venne l’ordine accorse sotto le bandiere, si battè e si sacrificò nel pensiero della Patria»,ancora nel 1966 i governi democratici non avevano preso provvedimenti per la sistemazione delle salme degli italiani caduti all’estero. Tutto ciò portò alcuni deputati della Camera, il 4 ottobre del ’66, a richiedere una interpellanza parlamentare riguardo la sistemazione delle 9000 salme di soldati italiani caduti in Jugoslavia. Queste infatti dalla Jugoslavia erano state recuperate, trasportate ad Ancona e vergognosamente immagazzinate nella caserma Villarey, «offendendo coloro che per la patria erano morti con un atteggiamento colpevole sul piano nazionale ma anche su quello cristiano e morale». Dunque viste le polemiche provenienti da ogni parte d’Italia per il trattamento riservato a quei soldati che avevano servito la patria e a quei giovani rimasti fedeli fino all’ultimo ad un ideale, ed anche per evitare che il numero degli ignoti sfiorasse il 40% come nella grande guerra, le autorità italiane iniziarono a fare dei censimenti per stabilire il numero delle salme sepolte all’estero e la loro precisa ubicazione . Del resto esisteva una precisa legge del 12 giugno 1931 con la quale era stata decisa la sistemazione dei caduti di guerra italiani della prima guerra mondiale in grandi ossari e cimiteri militari, il cui assetto sarebbe stato stabilito da un Commissariato per le Onoranze ai caduti di guerra, dapprima dipendente dal Ministero della Guerra e poi sottoposta al governo. La celebrazione di questi caduti sarebbe stata pienamente accolta dalla retorica ufficiale della Repubblica che avrebbe celebrato le tappe del secondo Risorgimento nazionale non solo portando onori e tributi ai partigiani ma anche ai soldati che «sui fronti avevano ridato l’onore all’Italia e rinnovato l’unità del popolo, fondamento della Repubblica e della Costituzione» . Il patriottismo italiano trovò dunque fondamento in quella retorica cristiana, avvalorata nel dopoguerra dagli ambienti del Vaticano e dallo stesso partito della democrazia cristiana, tesa a sottolineare la necessità e l’urgenza di una pacificazione nazionale e sempre più orientata a una parificazione tra i vinti e i vincitori. L’omaggio ai caduti di tutte le guerre e a tutti i combattenti su ogni fronte divenne l’argomento preferito dalla destra missina nel periodo della guerra fredda, contro una sinistra volta a rivendicare, in opposizione alla retorica ufficiale della resistenza, il radicalismo della guerra partigiana comunista. La destra infatti utilizzò ampiamente il tema della fedeltà ai valori della patria rivendicando un proprio ruolo nella nuova compagine democratica, inteso come quello della difesa dello Stato dal pericolo comunista rappresentato in Italia dal PCI. Durante la seconda legislatura prese corpo così quella contrapposizione tra la resistenza comunista, patrimonio degli ex partigiani, segnata da una matrice sociale e di classe, e la resistenza patriottica, che presentava all’estero una nuova immagine dell’Italia rinata alla vita democratica dopo l’esperienza fascista, anche grazie alla capacità del suo esercito di essere fedele al valore dell’ amor di patria. Il discorso celebrativo per il decennale della Fosse Ardeatine, pronunciato dal ministro della Difesa Taviani fu perfettamente introdotto nella narrazione egemonica della resistenza patriottica il cui punto cardine era l’esaltazione del sacrificio dei 335 martiri delle Ardeatine, simbolo dei sacrifici affrontati dall’Italia durante la guerra, e la pacificazione alla quale quelle vittime chiamavano gli italiani, nella condanna di ogni forma di totalitarismo e di violenza[221]. L’attentato di via Rasella, simbolo della guerra radicale combattuta dalla resistenza contro il nazifascismo pertanto sarebbe divenuto per la memoria di destra, la memoria degli sconfitti, un atto di scellerata violenza da parte di individui antinazionali e antipatriottici, votati ad una assurda quanto deleteria lotta rivoluzionaria. La memoria collettiva della nuova Italia infatti non avrebbe dovuto formarsi sul mito della violenza rossa ma sulla dedizione alla Patria, sul senso dell’onore militare e del dovere, sullo spirito di sacrificio, valori celebrati nella cornice dei cimiteri di guerra come quello per gli italiani caduti ad El Alamein o a Cefalonia. Le associazioni partigiane e comabettentistiche, quelle dei reduci dai campi di prigionia o dei familiari delle vittime delle stragi avrebbero trovato una loro collocazione nel nuovo patriottismo repubblicano, celebrando la resistenza come secondo Risorgimento di tutto un popolo in armi, unito al di sopra delle differenze politiche che avevano segnato l’Italia nel ventennio, lasciando che questi valori fossero condivisi anche dalla destra monarchica e fascista, in nome di una comune appartenenza al suolo patrio. Dunque «si creò una certa assonanza tra l’appello alla pacificazione mosso dagli ambienti neofascisti in nome della retorica patriottica e lo spirito di riconciliazione che ispirava i politici democristiani», due forze politiche tese da un lato a superare gli scogli della guerra civile per una legittimazione sul piano politico interno e dall’altro ad impedire che si radicasse nella memoria collettiva del paese il ricordo della guerra e dell’occupazione tedesca, favorendo così la rimozione dei crimini di guerra commessi dai soldati dell’esercito occupante e liberarsi dal dovere di processarli. Nel clima della guerra fredda i vinti di destra estromessi nell’immediato dopoguerra dalla vita democratica del paese ritrovarono un loro spazio quali elementi sani della nazione contro i nemici sovietici all’estero e contro i partigiani comunisti, cultori di una dottrina totalitaria antidemocratica, all’interno. Il 1948, l’anno delle elezioni segnate dallo scontro bipolare tra DC e PCI, dell’attentato a Togliatti e del processo contro Kappler vide uno scontro molto duro tra l’ala dei fautori dei valori patriottici-nazionali e i rappresentati del pericolo comunista, i nemici interni, riguardo la questione di via Rasella. La memoria dei vinti oltre ad avere una sua contronarrazione mitica riguardo i fatti del 23 marzo del ’44 nella figura eroica di Salvo D’Acquisto, favorì nella memoria collettiva del paese, già predisposta ad accettare la criminalizzazione di una resistenza non sentita come valore nazionale, la nascita di falsi storici sul caso di via Rasella dei quali si è già parlato. Tuttavia la figura retorica che avrebbe prevalso nelle motivazioni di questa memoria e che avrebbe trovato larga eco nella memoria pubblica intrisa di miti patriottici reazionari fu quella di un paese in preda ad un complotto rivoluzionario da parte delle forze comuniste, di una macchinazione politica dettata da Mosca tesa a provocare feroci rappresaglie da parte delle truppe tedesche per eliminare le fazioni scomode della sinistra non ortodossa e antistaliniana. La politica di criminalizzazione sul piano della memoria storica messa in atto dal neofascismo italiano e dai partiti moderati della repubblica contro la resistenza comunista, era correlata alla realizzazione di un piano volto a favorire la nascita di una struttura anticomunista, all’interno dei paesi democratici, simile a quella antisovietica all’estero, che attraverso lo svilimento dell’avversario politico sul piano ideologico ed elettorale, favorisse anche una condanna sul piano della memoria storica di tutta l’esperienza resistenziale. Dunque il MSI durante il periodo della prima Repubblica non fu niente altro che lo strumento di applicazione di un piano messo a punto dagli Stati Uniti per bloccare l’avanzata dei partiti comunisti in Francia e in Italia, non solo attraverso l’appoggio del neofascismo ai partiti cattolico-moderati durante le elezioni, ma anche grazie ad una messa in accusa della resistenza comunista e della sua violenza che spingesse l’opinione pubblica a valutare negativamente tutto l’operato della guerra partigiana. Il piano, una sorta di memorandum top secret del Comando Generale di Stato Maggiore del governo americano, datato 14 maggio 1952, noto come piano Demagnetize, inteso come opera con la quale «ridurre la forza del partito comunista, le sue risorse materiali, le sue organizzazioni internazionali, la sua influenza sui governi francese e italiano, particolarmente sui sindacati, nonché l’attrazione che esso ha per i cittadini francesi e italiani»[224]fu dunque il fattore principale che in Italia favorì tutta la campagna di messa in accusa dei partigiani di via Rasella e più in generale di tutta la resistenza. La guerra parallela a quella combattuta in campo internazionale tra le due superpotenze prese corpo in Italia come lotta ideologica e di controspionaggio tra i due maggiori partiti di massa, una guerra fatta di informative sui presunti apparati militari clandestini del PCI, elenchi di armi e di nomi dei militanti, una guerra nella quale il Vaticano scelse di schierarsi a fianco delle forze della democrazia e della lotta all’ateismo marxista, con l’esplicito invito a invadere il campo avversario per portare qualcosa di Cristo e a studiare il fenomeno comunista per scoprire la sua rete organizzativa e sconfiggerla, riportando i figli di Dio alla luce della speranza e della salvezza. L’accusa maggiore rivolta dalla destra missina agli autori dell’attacco partigiano del 23 marzo fu quella di aver voluto provocare con esso il maggior numero di vittime civili, per utilizzarne la memoria e consolidare nella collettività il mito dei caduti per la libertà della patria. Secondo questa interpretazione La resistenza comunista indifferente alle conseguenze di quella serie di agguati, imboscate, uccisioni inutili, delitti contrari ad ogni norma di guerra, avrebbe utilizzato quei morti, quel sangue, spesso niente altro che povera gente estranea all’episodio che aveva scatenato la rappresaglia, per farne dei martiri della libertà e della democrazia] . La vulgata filofascista riprese anche l’argomento della eliminazione di oltre 300000 fascisti dopo la liberazione da parte delle bande partigiane del nord, argomento ritenuto falso persino da Gioacchino Volpe, storico e deputato fascista ex membro della Reale Accademia d’Italia, che si era distaccato dal regime durante il periodo in cui questo aveva collaborato con l’invasore tedesco: la polemica era rivolta non solo contro il commando partigiano che aveva ucciso Mussolini a Dongo ma anche contro tutti coloro che si erano macchiati di delitti contro i propri connazionali portandoli alla morte senza un regolare processo. L’argomento era stato definito da Parri durante un discorso tenuto al Senato il 1 luglio 1948 «leggenda pericolosa e velenosa» avendo in questo il pieno appoggio di De Gasperi. Difatti il governo centrista, nonostante la criminalizzazione adottata verso i comunisti esclusi dall’ordine democratico, prese nettamente le distanze da questa vulgata antiresistenziale, giacché essa avrebbe potuto invalorare il mito della resistenza eroica del popolo italiano, funzionale alla presentazione in campo internazionale del paese come nazione democratica. Il provvedimento per mettere a tacere tali calunnie contro il glorioso movimento di resistenza nazionale fu affidato al ministro dell’Interno Mario Scelba che dall’11 al 24 giugno del 1952 nelle sedute della Camera affrontò l’argomento, dimostrando tra l’altro che la cifra dei 30000 uccisi fascisti era falsa e assurda. Il ministro giustificava tale considerazione in base al fatto che la cifra indicata dal Compendio Statistico italiano per l’anno 1945, riguardo i caduti civili e militari, compresi fascisti e antifascisti uccisi per motivi politici, e i giustiziati nel corso del 1945, era di 22410, mentre secondo un altra pubblicazione dell’Istituto Centrale di Statistica, riguardo le cause di morte negli anni 1943-1948, il numero dei caduti nel 45 era di 2600 tra i militari e di 18057 deceduti per morte violenta e accidentale. Dunque l’affermazione della propaganda fascista dei 300000 morti era falsa perché «tale cifra prendeva in considerazione la metà dei soldati italiani morti nella guerra 1915-1918, ed era più del triplo di tutti i caduti in Italia, militari e civili, nell’ultima guerra». Inoltre non bisognava dimenticare che tali vittime si erano avute al momento del crollo di un regime di tirannia ventennale che nella sua ultima scia aveva provocato l’occupazione del paese da parte del nemico e i cui adepti avevano agito in maniera spietata nella collaborazione per la repressione della guerriglia antipartigiana. Tuttavia sebbene le autorità del governo non prendessero in considerazione questi racconti essi celavano una verità storica profonda, quella di un paese che aveva attraversato una sanguinosa guerra civile e che nel dopoguerra sarebbe apparso diviso proprio a causa dei mancati conti con il passato. Negare la cruenta guerra del Nord, il conflitto civile che aveva opposto cittadini di una stessa nazione, negare la violenza partigiana relegandola in una sfera sacrale commemorativa, non valse affatto a favorire l’oblio delle violenze perpetrate dai fascisti e neppure ad affermare i valori della resistenza come valori dominanti nella memoria del paese. Le istituzioni democratiche del dopoguerra cancellarono del tutto quella realtà storica che aveva permesso al regime di godere di largo consenso, non prendendo in seria considerazione il fatto che gli stessi familiari delle vittime delle stragi avessero conservato una memoria fortemente antipartigiana nel dopoguerra e che accusassero i partigiani di essere i veri responsabili delle stragi. Le istituzioni democratiche avrebbero impedito anche alla storiografia, in nome della legittimazione dei valori della resistenza, utili per l’affermazione di una nuova immagine dell’Italia all’estero, di affrontare i tanti temi che il periodo ’43-45 aveva portato nella nostra storia. D’altra parte l’interpretazione della lotta tra la resistenza e la RSI come guerra civile incontrò da parte degli antifascisti ostilità e reticenza, tanto che l’espressione finì con lessere usata quasi esclusivamente dai vinti fascisti. Gli antifascisti infatti erano desiderosi di non appiattire le due parti in lotta sotto un giudizio di condanna e assoluzione e lo stesso PCI rivendicava il mito della resistenza come secondo Risorgimento per accreditarsi come partito nazionale ed inserirsi nel sistema pluripartitico democratico. Il fatto di aver combattuto una guerra civile impedì la nascita di una memoria storica condivisa e favorì di contro lo sviluppo di tanti racconti di parte, portando, nel clima della guerra fredda, ad una criminalizzazione della resistenza comunista. D’altra parte furono le stesse istituzioni democratiche a favorire negli anni della seconda legislatura un’equiparazione tra le due parti in lotta nella guerra civile italiana: esemplare del nuovo clima che avrebbe portato ad una legittimazione delle forze di destra ed ad una destituzione dei valori dell’antifascismo, come stabilito dalla linea politica dell’Alleanza Atlantica in Italia, fu la presentazione di due disegni di legge, il 19 novembre del 1953, riguardo la liberazione condizionale dei condannati per reati commessi per fine politico e la delegazione al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia e indulto Il PCI avrebbe fortemente osteggiato tale provvedimento vista anche la proposta del deputato Madia del MSI, che aveva presentato un emendamento per estendere l’amnistia a tutti i reati politici, senza alcuna limitazione della pena, anche quelle superiori a quattro anni. Le polemiche circa la situazione dei reduci della RSI ripresero in occasione della proposta di un disegno di legge presentato alla Camera dei deputati su iniziativa dei deputati Infantino e Delcroix, il 29 luglio del 1955, per la concessione dei benefici di guerra ai combattenti che erano appartenuti alle forze armate della Repubblica Sociale italiana. Il provvedimento era volto a superarre una legislazione retroattiva che aveva stabilito delle distinzioni tra cittadini ponendo ai margini della vita sociale e civile migliaia di italiani «ai quali non si può dar colpa di aver servito in armi l’Italia quando ognuno fu costretto a cercare nella propria coscienza la via da seguire». La proposta contenuta nel disegno di legge, di dare benefici di guerra anche a coloro che nel periodo dell’occupazione tedesca non si erano distinti nella lotta partigiana, era espressione di una generale aspettativa condivisa da tutte le forze politiche di governo, quella di superare le vicende politico-militari che avevano diviso gli italiani e più in generale quel clima di demonizzazione dei vinti che aveva lasciato «insoluto il problema della parificazione giuridica e morale di tutti i combattenti italiani». La pacificazione nazionale era un tema quanto mai attuale dato il tempo trascorso da quelle dolorose vicende e dato che i rancori si erano placati e una profonda esigenza di rinnovamento si era andata sempre più affermando nella coscienza del popolo italiano. A giustificazione di questa tesi i deputati citavano il discorso celebrativo tenuto dall’allora Presidente della Camera nel decennale della resistenza, il quale facendosi interprete di questa esigenza aveva rivolto parole di sincero omaggio anche ai caduti della RSI, affermando che «noi possiamo ben accomunare in piena sincerità a questo pensiero riverente anche gli altri morti, tutti gli altri morti che sono caduti al loro posto di dovere, nella consapevole e disinteressata volontà di servire non una parte politica, ma una loro idealità e attraverso questa idealità la Patria». Il disegno di legge aveva il fine di ristabilire l’uguaglianza nel sacrificio accettato per l’Italia, «consapevoli della grande forza morale che deriverebbe all’intera nazione dalla concordia tra tutti gli italiani, conseguita al di là di eventi storicamente superati». Dunque fu l’impegno stesso dimostrato dalle istituzioni verso una parificazione dei vinti con i vincitori, la disponibilità di un humus culturale fortemente antiresistenziale presente tra le classi medie del paese ed avvalorato da una propaganda clerico-moderta, nonché l’azione politica del PCI volta a mettere alla sordina l’identità rivoluzionaria di una certa resistenza per offrire al paese un’immagine rassicurante del partito, a favorire la nascita dei falsi storici intorno al periodo ’43-’45 e ad alimentare quella narrazione fascista della storia fondata sulla teoria del complotto e del sospetto verso la guerra partigiana. Il fatto più eclatante della resistenza italiana, l’attacco gappista di via Rasella, non restò immune da una ricostruzione storica fondata su teorie false che avrebbero dato vita da una narrazione antipartigiana, punto focale della memoria dei vinti. Una memoria imperniata sul «tono sensazionale, sul compiacimento indignato dell’autoesclusione, […] sull’antintellettualismo, sul senso piccolo-borghese di sfiducia e di impotenza, su un bisogno qualunquista di rivalsa». La memoria dei vinti avrebbe attraversato tutta la storia repubblicana, pur restando ai margini nei primi anni della Repubblica per poi tornare alla ribalta nei discorsi storico-nazionali con l’avvento della seconda Repubblica, caratterizzata dal crollo delle ideologie, di quei partiti che avevano costruito la narrazione mitica della resistenza e da un forte appello alla riconciliazione nazionale. Nel 1996 il Presidente della Camera Luciano Violante avrebbe ripreso questo tema invitando a riflettere sulla storia dei vinti di ieri. L’argomento di una pacificazione che ponesse fine a vecchie opposizioni politiche fu ampiamente appoggiato da un’opinione pubblica sempre più distaccata dal mondo della politica, sfiduciata dalle promesse dei partiti tradizionali, sempre più lontana dal concepire la propria vita all’interno di valori culturali dati da una precisa ideologia. Il riflusso delle ideologie, dell’impegno politico che fin dal dopoguerra aveva caratterizzato gli italiani, divisi dalle rispettive appartenenze di partito determinanti non solo scelte elettorali ma anche modelli di comportamento e scelte personali, avrebbe favorito una conciliazione nazionale intesa però come oblio definivo di quel panorama di guerra civile che aveva segnato il paese. Tuttavia la pacificazione nazionale secondo Violante non era volta a «sposare revisionismi falsificanti, ma a cercare di capire i motivi per cui migliaia di ragazzi, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà». Tali considerazioni, in netto contrasto con la narrazione mitica dell’antifascismo, provocarono grosse spaccature nel paese soprattutto perché pareva che le istituzioni volessero rompere con i valori nati dalla resistenza proprio mentre tutto il paese era impegnato a seguire il processo all’ultimo criminale di guerra per la strage delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke. La nuova etica del politically correct, sostituitasi a quella dell’antifascismo impose un discorso teso ad equiparare gli eventi luttuosi subiti da un parte e dall’altra e a chiedere conto del silenzio sulle foibe, oltre a quello sulle stragi naziste in Italia. Fu lo stesso Violante a deplorare la mancata responsabilità dei governi repubblicani nell’aver abbandonato una parte d’Italia durante l’occupazione titina della Venezia Giulia e di Trieste, non impegnandosi nella tutela della minoranza slovena di quei territori. Questa pacificazione tuttavia fu ostacolata dagli esponenti della vecchia politica repubblicana fedeli ai valori dell’antifascismo, per i quali il nuovo panorama politico era solo l’estremo tentativo di attaccare la resistenza riprendendo vecchi temi cari alla destra missina, come il tributo di sangue innocente versato dall’Italia a causa della guerra partigiana e le stragi compiute dai comunisti dopo il 25 apriledel ’45. Nell’Itala ansiosa di riavvicinare le parti che avevano condotto un’aspra guerra civile al fine di riscrivere la Costituzione ed il tentativo di mistificare la resistenza non erano altro che un segno di «autoritarismo che esclude la partecipazione popolare dalla gestione e dalla costruzione dello Stato». Tuttavia anche il campo culturale dell’antifascismo negli anni novanta sarebbe stato caratterizzato da un clima di revisionismo storico, per eliminare un passato filostalinista scomodo nella nuova Repubblica nata dopo il crollo del muro di Berlino: la sinistra fu autrice di alcune iniziative come quella del Sindaco di Roma Rutelli di dedicare una via a Giuseppe Bottai, uno dei massimi gerarchi del fascismo. Il 1995, fu l’anno in cui per la prima volta, in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, un erede della destra missina, il segretario di AN Gianfranco Fini, prese parte alle celebrazioni per il 25 aprile recandosi all’Altare della Patria in nome di un nuovo patto nazionale che non poteva essere più quello basato sull’antifascismo. Tuttavia più che avvalorare una pacificazione nazionale il revisionismo portò ad una radicalizzazione dello scontro politico. Il 25 aprile del 1997 infatti fu caratterizzato da un clima di violenza e di scontri tra i giovani della sinistra democratica e i neofascisti: la manifestazione per l’anniversario della liberazione era stata preceduta da alcuni atti vandalici come il lancio di palloncini pieni di vernice rossa contro i cancelli delle Ardeatine[240], episodio stigmatizzato dallo stesso Presidente della Repubblica Scalfaro, come i manifesti affissi davanti ad un liceo romano inneggianti «all’idea più audace, originale, mediterranea ed europea» quale il fascismo, seguita dalle dichiarazioni di Fini per il superamento della norma che vietava la ricostituzione del Partito fascista. Il giorno prima dell’anniversario della liberazione inoltre erano apparsi sui muri di Roma dei manifesti con l’effige del duce, «che onora la memoria dei nostri caduti e si confronta con il loro rituale dell’odio, con la maramaldesca conclusione della guerra civile». Alla manifestazione per il 25 aprile erano seguiti momenti di tensione quando il corteo per l’anniversario della liberazione indetto dall’ANPI e dall’associazione Nazionale deportati aveva sfiorato una manifestazione di neofascisti al cimitero del Verano, indetta dal partito della Fiamma Tricolore di Pino Rauti, dove un gruppo di reduci di Salò accompagnati da un centinaio di giovani militanti di estrema destra si era recato a rendere omaggio ai caduti della RSI. In opposizione alle alzate di testa del nuovo fascismo, gli studenti del liceo classico «Pilo Albertelli» si sarebbero recati alle Ardeatine e per la prima volta nella storia delle commemorazioni ufficiali dell’eccidio avrebbero esposto uno striscione segnato dal simbolo della falce e martello con uno slogan nettamente in contrasto con la retorica istituzionale: «Nel ricordo del vostro sacrificio vive la nostra lotta» . Tuttavia gli atti di vandalismo e di violenza simbolica si intensificarono durante la primavera e l’estate di quell’anno con l’attentato al tempio ebraico di Roma, la contestazione con fischi e insulti all’ex gappista Bentivegna al liceo scientifico Morgagni per un dibattito sulla resistenza] con la commemorazione all’Altare della Patria dei reduci della guerra di Spagna in onore dei caduti che erano andati a combattere a sostegno di Franco,[246] con i manifesti in favore dell’ex ufficiale delle SS Erich Priebke, che proprio in qui giorni si sarebbe trovato davanti al Tribunale militare di Roma per essere processato, con l’affissione di due manichini impiccati ad un albero appena fuori all’ingresso delle Ardeatine con i nomi di Rosario Bentivegna e Carla Capponi, colpevoli secondo l’opinione pubblica di destra di aver causato la strage delle Ardeatine. Il cartello posto sopra i due manichini, «Per gli sciacalli eroi, per il mondo e la storia infami stragisti. Onore per i martiri di via Rasella e delle Fosse Ardeatine», [248]definito delirante dalle autorità istituzionali, ebbe come intenzione quella di criminalizzare ancora una volta la resistenza e parve essere la spia di quel clima che aveva invitato meglio a capire le ragioni dei ragazzi di Salò Un clima teso alla parificazione tra partigiani e repubblichini inteso come «una visione della storia che unisce vincitori e vinti, e che nella sua ipocrisia è molto utile in una fase in cui destra e sinistra vogliono scrivere una nuova Costituzione, non più basata sull’antifascismo». Queste azioni macabre si erano intensificate in conseguenza della decisione del giudice Pacioni di archiviare il procedimento nei confronti degli autori dell’attacco di via Rasella per intervenuta amnistia anziché «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», e presero come obiettivo proprio Bentivegna, il simbolo dell’azione gappista del 23 marzo del ’44. Nei manifesti di Azione Giovani, un movimento giovanile di estrema destra legato e finanziato dal partito di Alleanza nazionale, l’ex partigiano era accusato di esser responsabile della morte in via Rasella non solo di 33 soldati altoatesini ma di 11 civili italiani tra cui un ragazzino di 11 anni, Pietro Zuccheretti, i cui parenti proprio durante il processo Priebke avrebbero denunciato per risarcimento danni i gappisti . Il racconto della tragica morte di Zuccheretti, che solo per un puro accidente si era trovato in via Rasella al momento dello scoppio della bomba, sarebbe divenuto per la memoria dei vinti, ansiosa di trovare una propria legittimità nel panorama storico nazionale, il simbolo di quella zona grigia per nulla interessata a schierarsi nello scontro politico della guerra civile; il mito della povera gente per nulla interessata a sacrificarsi per la nascita della Repubblica. (tratto da secondorisorgimento.it/rivista/saggi/ardeatine.htm)
Posted on: Thu, 17 Oct 2013 14:54:23 +0000

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