Un lettore del mio post La resa incondizionata degli amici del - TopicsExpress



          

Un lettore del mio post La resa incondizionata degli amici del macellaio di Damasco, dedicato alla presa di posizione pro-siriana di Diego Fusaro, così commentava sul blog: «Rimango allibito dalle dichiarazioni di Fusaro. Ho letto le introduzioni a qualche suo libro dedicato a Marx e ho apprezzato la sua chiarezza e capacità divulgativa. A quanto pare l’intelligenza formale è una cosa, quella lucida e rivoluzionaria, un’altra!» Ed ecco la mia “risposta”: «Personalmente ho sempre pensato che ciò che davvero conta sul terreno dell’analisi profonda del processo sociale capitalistico e della prassi anticapitalistica è la coscienza di classe, più che l’intelligenza, più o meno formale che sia, o l’erudizione. La storia e la contemporaneità offrono molti esempi di cervelli estremamente intelligenti e colti, al cospetto dei quali non posso che confessare tutta la mia invidiosa ammirazione, e che tuttavia su quello scottante e dirimente terreno mostrano un’indigenza teorica e politica a dir poco disarmante. A tal grado, che persino una pulce del mio calibro può affettare con qualche legittimità pose da gigante del pensiero. E ho detto tutto». In questi giorni ho avuto modo di confermare e rafforzare questo impietoso giudizio, grazie alla lettura di qualche libro del simpatico filosofo e alla visione di una serie di suoi interventi pubblici (disponibili su YouTube). In effetti, il suo (pseudo) anticapitalismo non va oltre un rancido antiamericanismo di matrice tardo-stalinista e un sovranismo (economico e politico), che peraltro accomuna “estrema destra” ed “estrema “sinistra”, che si risolve in un aperto sostegno all’Imperialismo europeo, ritenuto evidentemente meno repellente del Grande Satana americano, e nella nostalgia per la cosiddetta Prima Repubblica. Nostalgia canaglia! Pur con i suoi limiti, argomenta Fusaro nel corso della presentazione di un suo libro (Cosenza, 9 aprile 2013), l’Europa garantiva alla società un Welfare di tutto rispetto, con diritti sociali inalienabili, scuola e sanità per tutti, frutto di 150 anni di lotte operaie. Adesso «l’euro sta di fatto togliendo di mezzo il capitalismo europeo. La moneta unica europea serve a sostituire il modello capitalistico europeo con il modello americano». Detto che «il comunismo non esiste più» (mentre una volta invece…), per Fusaro esistono nel mondo tre modelli di Capitalismo: quello europeo, che, come abbiamo visto, egli predilige in quanto sarebbe permeabile, almeno in linea di principio, alle istanze che provengono dal basso; quello americano, che invece il nostro disprezza con tutte le sue filosofiche forze perché esso fa del neoliberismo una religione del massimo profitto che non ammette la concorrenza di altre religioni; e, dulcis in fundo, quello cinese, «modello che mette insieme il volto più perverso del capitalismo con il volto più perverso del comunismo». E già da questo innaturale – e ridicolo – accostamento si evince il tipo di “comunismo” che il giovanotto ha nella filosofica testa, che poi è lo stesso “comunismo” che ha reso oltremodo repellente l’idea stessa di una Comunità netta di rapporti sociali capitalistici presso le classi dominate di tutto il mondo. «Se questo è il comunismo, tanto vale tenerci il capitalismo»: per questo impagabile servizio il Dominio capitalistico planetario ringrazia sentitamente lo stalinismo mondiale, anche nella sua versione postmoderna. […] Ma ritorniamo al video di Fusaro: «In Italia il processo degenerativo che ha portato il Paese all’attuale crisi sistemica, con la perdita della Sovranità economica, «è iniziato nel ’92, con l’operazione mani pulite, che è stata un colpo di stato extraparlamentare di tipo giudiziario che ha aperto il primo ciclo di grandi privatizzazioni capitalistiche che ha visto protagoniste sia la destra, sia la sinistra. La vecchia e pur corrotta Prima Repubblica era dotata di un vero Welfare State». I cattostatalisti nostalgici della DC e del PCI non possono che gioire dinanzi a questa “scandalosa” (in realtà solo penosa, tanto più se proferita da un giovane intellettuale con ambizioni critiche) considerazione. Il pensiero di Diego Fusaro è vecchio anzitempo, a dimostrazione che l’anagrafe non può dirci tutto su una persona. La forza della classe operaia nei «formidabili» anni Settanta è un mito che i nostalgici del PCI e dell’area politica che si formò alla sua “sinistra” alla fine degli anni Sessanta non smettono di tramandare e di vendere sul mercato politico. A quanto pare con un certo successo. Rifondatori dello statalismo come Bertinotti scrivono libri apologetici del tempo in cui il Capitalismo di Stato italiano (con annessi sindacati e partiti rigorosamente «di massa») gareggiava con il «socialismo reale» dell’Unione Sovietica. «Formidabili quegli anni!»: certo, ma per chi? Sicuramente per gli statalisti che amavano sventolare bandiere rosse e bandiere bianco-crociate. Detto di passata, il retaggio della struttura capitalistica che tanto piaceva – e piace – ai fascio-stalinisti si fa ancora sentire ed è anzi sulle prime pagine dei quotidiani (vedi soprattutto gli articoli di Giuliano Ferrara, di Giavazzi, di Galli della Loggia e di Angelo Panebianco pubblicati nelle ultime settimane ). Ma non andiamo fuori tema! Ho finito di leggere Essere senza tempo (Bompiani, 2010) di Fusaro, un libro a suo modo interessante per diversi aspetti, a partire da quello inerente alla questione dei tempi nell’azione politica (la «cronopolitica»). Qui tiro solo un filo, quello collegato alla concezione del comunismo dell’autore e al suo giudizio sulla Rivoluzione d’Ottobre, la cui «spinta propulsiva» si sarebbe esaurita del tutto solo nel 1989, in seguito ai noti eventi che hanno sconvolto il mondo – e soprattutto gli stalinisti di mezzo mondo. Fusaro cita qualche passo tratto dall’importante Prefazione alla seconda edizione russa (1882) del Manifesto: «Se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista». Segue il commento dell’autore: «In questo modo, Marx finisce per generare uno squilibrio tra i due poli – l’aspettativa e l’esperienza – del concetto di accelerazione, che fino a quel momento si era sforzato di tenere congiunti. A prevalere era ora la dimensione dell’aspettativa, e in particolare la speranza che la rivoluzione mondiale potesse divampare nel Paese più arretrato “bruciando” le tappe del modo di produzione capitalistico: un mutamento di prospettiva che, forse, può essere spiegato in relazione al fatto che Marx aveva cominciato a nutrire seri dubbi sulla possibilità di un superamento della produzione capitalistica nelle aree sviluppate, in una progressiva perdita di fiducia nell’imminente crollo del capitalismo in Occidente» (p. 272). Di qui, sempre secondo l’autore, il crescente interesse di Marx per le forme economico-sociali precapitalistiche. […] Scrive Fusaro: «Anche alla luce di queste considerazioni e di questi sviluppi storici, la storia del successivo marxismo, e soprattutto del comunismo storico novecentesco, può essere intesa come una sequenza di tentativi di realizzare le possibilità intraviste da Marx in riferimento alla realtà russa. Dalla Cina alla Russia, passando per Cuba, il Novecento sarà costellato da un’infinita gamma di paesi arretrati passati improvvisamente al comunismo senza aver prima attraversato la fase capitalistica» (9). Ora, se fin qui ci siamo mossi sul terreno dell’opinabile, per così dire, con i passi citati siamo sprofondati nella più crassa delle balle speculative. Infatti, in nessuno dei Paesi citati da Fusaro si è mai realizzato un solo atomo di comunismo: in Russia lo stalinismo incarnò, come già detto, la totale sconfitta della natura proletaria dell’Ottobre Rosso, mentre al contempo esso fu un formidabile strumento di accumulazione capitalistica a ritmi accelerati, anche in vista del pieno ripristino della politica di Potenza moscovita lungo la tradizionale dorsale geopolitica della Russia prerivoluzionaria; la rivoluzione cinese guidata dal PCC di Mao fu fin dall’inizio un’importante rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini (10) e quella cubana diretta dal movimento castrista «fu a tutti gli effetti una rivoluzione democratico-borghese, assai simile alle rivoluzioni che nel secondo dopoguerra agitarono il mondo» (11). Naturalmente il nostro filosofo non la pensa così: «Nemmeno cinquant’anni dopo che Marx aveva formulato le sue profezie di una possibile rivoluzione a partire dalla realtà storiche più arretrate, Lenin prese sul serio le possibilità teoriche marxiane, in aperta rottura con le concezioni “ortodosse” del marxismo, e guidò la Russia da un assetto sociale, politico e produttivo di tipo feudale a una condizione comunista, o che per lo meno si pretendeva tale» (12). Come ho cercato di argomentare nel mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (13), se non si inquadra la strategia rivoluzionaria leniniana nel contesto della più generale prospettiva rivoluzionaria internazionale non solo non si coglie la reale portata del Grande Azzardo tentato nei «dieci giorni che sconvolsero il mondo», ma si fa di Lenin (e sulla sua scia di Marx) un mero precursore dello stalinismo, che invece incarnò, come già detto, la sconfitta dell’ipotesi leniniana. L’aspetto più paradossale (in realtà profondamente dialettico, e proprio per questo difficile da cogliere dai filosofi… “hegeliani”) della faccenda è che lo stesso Partito che aveva promosso la rivoluzione proletaria a un certo punto si trasformò radicalmente, fino a diventare, per un verso un formidabile strumento controrivoluzionario in chiave interna e internazionale (vedi la stalinizzazione dei partiti comunisti europei), e per altro verso un altrettanto formidabile strumento di sviluppo capitalistico in chiave di progresso storico borghese. In realtà non si trattò precisamente dello stesso Partito, se non dal punto di vista meramente formale. Ma, com’è noto, il pensiero che non ha profondità né dialettica rimane impigliato nella dura e opaca superficie dei fenomeni. […] Quando dunque Fusaro sostiene che «Lenin spinse sul pedale dell’accelerazione, nella convinzione che fosse necessario bruciare le tappe, saltando direttamente alla fase comunista», mostra a mio avviso di non aver capito l’essenza stessa dell’azione rivoluzionaria di Lenin, e su questa strada egli deve necessariamente precludersi la possibilità di comprendere la natura politico-sociale dello stalinismo. Che, infatti, egli travisa completamente e nel modo più ridicolo, come testimonia anche la seguente riflessione: pur abbandonando la prospettiva della Rivoluzione Russa come modello valido per tutti i Paesi, «ciò non di meno il comunismo staliniano teneva ferma l’esigenza di velocizzare il progresso industriale e tecnico entro i confini dell’Unione Sovietica» (16). In primo luogo il «comunismo staliniano» non fu mai un comunismo (magari solo «reale»), ma semmai ne fu l’esatto contrario; in secondo luogo, «il progresso industriale e tecnico» promosso dallo stalinismo si dipanò interamente sul terreno di un Capitalismo (più o meno di Stato) fortemente orientato a sostenere le ambizioni imperialistiche della moderna Russia, sempre in assoluta continuità con la tradizione Grande-Russa osteggiata fino al suo ultimo respiro da Lenin (17). L’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia (vedi la “collettivizzazione” forzata nella campagna russa, lo spostamento di intere popolazioni da una regione all’altra del vastissimo Paese, lo stacanovismo, ecc. ecc.) è una terribile pagina del Grande libro nero del Capitalismo mondiale. Veniamo alla seconda e più colossale balla speculativa (e mi scuso per la moderazione): «La stessa Guerra Fredda, a ben vedere, si profilò allora anche come lotta “cronopolitica” contro il capitalismo occidentale per dimostrare che il comunismo era in grado di garantire una marcata accelerazione al progresso». Naturalmente la cosiddetta Guerra Fredda fu solo una contesa imperialistica tra le due Super Potenze che sconfissero le velleità imperialistiche non solo della Germania, del Giappone e dell’Italia, ma altresì dell’Inghilterra e della Francia, declassate al rango di medie potenze. Va da sé che se uno dà credito, magari solo per criticarlo, al «comunismo staliniano» non può che scrivere insulsaggini del conio che segue: «Fu questo lo scenario della “storia-mondo” quale resistette fino al 1989, l’anno in cui il sogno di Marx e dei progetti politici che a lui si erano variamente ispirati rimase sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino». Secondo il giovane filosofo di successo anche l’incolpevole Carletto sarebbe dunque finito sotto le macerie che ventiquattro anni fa colpirono le teste dei cattivi maestri di “marxismo” del nostro intellettuale. Ognuno può scegliere se ridere o se piangere. «La modernità, con la sua passione per il futuro, aveva scientemente scelto la strada dell’accelerazione dei ritmi in nome dell’avvenire: il presente era inteso come punto di passaggio in vista di un futuro diverso e migliore. Le esperienze rivoluzionarie sono l’esempio più significativo di questa passione futurologica: pensiamo alla Rivoluzione francese e a quella bolscevica, alla loro “passione futurologica”. Oggi invece, dal 1989, con il crollo del Muro di Berlino, il futuro come orizzonte progettuale si è estinto: non viviamo più in nome del futuro, ma in nome del presente stesso, che tende a farsi intrusivo, totale, onnipresente, eterno. La freccia del tempo storico pare essersi bloccata lungo il suo tragitto: la storia stessa, con il suo incessante fluire, sembra essersi improvvisamente congelata. Questa eternizzazione del presente si accompagna a una raggelante desertificazione dell’avvenire» (18). Essendo per un verso molto intelligente ed erudito, ma non possedendo d’altra parte un solo grammo di coscienza di classe, Fusaro non è in grado di mettere in relazione la grande menzogna del «socialismo in un solo Paese» con la «raggelante desertificazione dell’avvenire» che lamenta, che maldestramente egli associa unicamente al trionfo del cosiddetto «Capitalismo selvaggio» di matrice americana nell’anno di disgrazia (per gli stalinisti) 1989. Suo malgrado egli alimenta il gelo che incatena la «freccia del tempo storico» in una disumana lastra di ghiaccio. Battersi contro la più grande e terribile menzogna del XX secolo (il «comunismo staliniano»), contro la menzogna che ha sequestrato la stessa speranza in una possibile emancipazione universale, significa comunicare ai dominati e agli offesi dal Dominio che il futuro della liberazione è ancora tutto da praticare. Checché ne dicano certi critici dalla coda di paglia del «comunismo storico novecentesco», il Comunismo non è fallito semplicemente perché esso non ha mai avuto modo di realizzarsi da nessuna parte. Ma per comprendere questa potente verità occorre soprattutto coscienza – di classe.
Posted on: Wed, 23 Oct 2013 10:16:34 +0000

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