Un vecchio post a beneficio dei miei nuovi amici e, comunque, - TopicsExpress



          

Un vecchio post a beneficio dei miei nuovi amici e, comunque, repetita iuvant per tutti: …PERO’… (PER ORA) … MANCANO I BECCHINI Purtroppo i becchini ancora non ci sono … ma che il capitalismo sia morto, o almeno morente, lo dimostra anche la progressiva pochezza teorica dei suoi sostenitori. Basta possedere alcune nozioni elementari di fisica per sapere che, per poter confrontare tra di loro il peso in grammi degli oggetti (dal più piccolo granellino di sabbia ai grandi ammassi planetari e stellari) è indispensabile il concetto astratto di massa, così come per poter confrontare le distanze in metri ci vuole il concetto astratto di lunghezza lineare, e così di seguito … per poter usare le misure concrete in metri quadrati, metri cubi o litri bisogna far ricorso ai concetti astratti di superficie, volume o capacità. Non fa eccezione l’attribuzione dei prezzi in denaro alle merci, per la qual cosa bisogna ricorrere al concetto astratto di valore e individuare qual è la qualità comune e astrattamente misurabile contenuta in tutte le merci e che appunto attribuisce loro il valore di scambio. Non è una questione da poco e aveva impegnato gran parte dell’elaborazione teorica di tutta l’economia classica. Al contrario, con l’emergere della scuola cosiddetta “neoclassica” fin dalla seconda metà dell’Ottocento e fino ad oggi, tutti gli economisti (professori universitari, ministri, capi di governo, direttori di banche o quant’altro) hanno sempre dichiarato che è un problema di nessuna rilevanza pratica, perché per concludere affari è sufficiente sapere come si formano i prezzi e, a questo scopo, il concetto di valore può essere tranquillamente ignorato. Allora c’è da chiedersi: che cosa direste di un signore che pretendesse di essere considerato un grande scienziato fisico e dichiarasse che il concetto di massa non avrebbe alcuna rilevanza perché è inutile per pesare le cose? Io direi che è semplicemente un cialtrone. E la stessa cosa direi di tutti gli “economisti” (vedi sopra) che avessero l’ardire di sostenere l’inutilità del concetto di valore. Marx usava un termine più gentile e li chiamava “economisti volgari”, ma io penso che ormai, dopo un secolo, durante il quale non hanno saputo concepire e decidere nient’altro che far cassa a favore di chi è già ricco togliendo un po’ di ricchezza alla grande massa dei già poveri, essi meritino ampiamente il termine di “cialtroni”. In conclusione nessuno può negare che sia necessaria una qualità comune e astrattamente misurabile, contenuta in tutte le merci, che stia alla base del loro valore di scambio e che consenta la formazione concreta dei prezzi in denaro. Prima di procedere, però, ci vuole una premessa, se pur breve. I termini “prodotto” e “merce” sono ormai usati come sinonimi. E ciò è un fatto consolidato perfino nel linguaggio tecnico – scientifico (tuttavia io non mi stancherò mai di definire questi personaggi “economisti volgari”), non solo nel linguaggio comune. Non si tratta solo di una strafalcioneria filologica, ma di uno degli strumenti più efficaci per confondere del tutto la questione assolutamente rilevante del rapporto tra valore, prezzo e denaro. Ed è una questione rilevantissima sul piano teorico e nello stesso tempo sociale. Prodotto è qualunque cosa sia il risultato del lavoro umano. Perfino le risorse naturali e i loro prodotti spontanei, per renderli disponibili e specialmente per farne oggetto di scambio, hanno bisogno di lavoro umano. Tuttavia, finché gli uomini sono vissuti nelle primitive comunità (e non bisogna dimenticare che ciò è avvenuto per un lunghissimo periodo, forse centinaia di migliaia di anni) il loro potere di appropriarsi dei prodotti derivava dal fatto stesso di essere nati, non dalla loro particolare attività lavorativa. Gli scambi, sotto forma di baratto, erano molto limitati e avvenivano all’interno della medesima comunità, ciò che contava era solo il valore d’uso dei prodotti. Merce è il prodotto destinato allo scambio, al mercato. Ciò avviene quando si diffondono scambi tra diverse comunità e ben presto gli uomini imparano che da tali scambi derivano reciprocamente indubbi vantaggi e miglioramenti delle loro condizioni di vita. Accanto al valore d’uso, che rimane la caratteristica fondamentale dei prodotti, si affianca un valore di scambio. Affinché si formino i mercati e gli scambi si diffondano sempre di più, tale valore deve avere una misurazione oggettiva, indipendente dalle caratteristiche individuali dei produttori – venditori e degli acquirenti – consumatori e perciò tale misura oggettiva non può essere altro che il tempo di lavoro considerato nella sua astrattezza. Questo, dunque, è il fondamento del valore di scambio: il tempo di lavoro umano astratto e socialmente necessario a rendere disponibili i prodotti. E, siccome tutte le produzioni sono tra di loro strettamente collegate, il valore di ogni prodotto è una quota del lavoro complessivo, che l’intera società ha erogato per l’insieme di tutti i prodotti, e non soltanto il tempo di lavoro occorso per la produzione di ogni singolo prodotto. Perciò il riferimento ideale a tale misura astratta non è idoneo a favorire concretamente il diffondersi dei mercati e degli scambi. A tale scopo è indispensabile l’uso di uno strumento pratico, che sia capace di dare concretezza al valore di scambio. E tale strumento è il denaro, che permette la formazione dei prezzi delle merci. Così il denaro diventa il rappresentante generale della ricchezza, acquista una sua autonomia e nasce una peculiare attività, quella del commercio finalizzato esclusivamente all’accumulazione delle ricchezze sotto forma di denaro. Perfino Aristotele distingueva tale attività, che definiva “crematistica”, dall’attività economica vera e propria, destinata alla soddisfazione dei bisogni umani. Dunque, il lavoro è la fonte della ricchezza (sotto il profilo sia del valore d’uso che del valore di scambio) e il denaro è lo strumento principale per appropriarsi di tale ricchezza. Sulla base di questa semplice certezza, si possono già dedurre alcune importanti considerazioni: - la formazione dei prezzi delle merci può avvenire solo in denaro e quindi solo tendenzialmente, o meglio e più spesso approssimativamente, il loro prezzo rispecchia il loro contenuto di valore di scambio, nonostante che quest’ultimo sia in ogni caso il suo fondamento e la sua origine. Prezzo (denaro) e valore (tempo di lavoro sociale e astratto) non solo sono concettualmente diversi, ma, a volte, anche concretamente sono molto differenti. Perciò, tutte le analisi fondate sui dati monetari sono viziate in partenza e, forse, è anche per questo che le previsioni dei cosiddetti “analisti”, specialmente quelle di medio - lungo periodo, sono sempre smentite dalle vicende storiche; - le misure dei vari governi mirano sempre a dare sicurezza ai detentori del denaro, alle banche, ai cosiddetti”mercati”, etc., anche se ciò comporti maggiori difficoltà all’ampliamento dell’attività lavorativa e quindi impedisca la produzione di maggiore ricchezza reale, cosa palesemente assurda e contraddittoria. Sono considerazioni che richiedono ulteriori precisazioni, tuttavia queste sono già indicative di ciò che i signori del governo hanno la pretesa di conseguire con le loro misure: salvaguardare il potere del denaro, anche a costo di peggiorare e, a volte, addirittura sacrificare la vita di molti lavoratori. Essi decidono misure sempre più pesanti per quest’ultimi e tuttavia, secondo loro, necessarie, poiché i risultati delle misure precedenti si rivelano sempre insufficienti per conseguire gli scopi prefissati di protezione del funzionamento del sistema finanziario fondato sul potere del denaro. E ciò fa emergere del tutto chiaramente una vera e propria opposizione tra il potere del denaro, da un lato, e la vita degli esseri umani, dall’altro. Cosa che va compresa bene. Il denaro sorge necessariamente per dare concretezza al valore di scambio e così favorire l’ampliamento degli scambi e dei mercati, nasce cioè come indispensabile strumento di intermediazione degli scambi di merci. Tuttavia, la vita degli esseri umani, nei modi di produzione precedenti il capitalismo, non era totalmente subordinata al denaro, come invece accade nel sistema capitalistico. La vita degli schiavi e dei servi della gleba, pur nei limiti della loro misera condizione, era assicurata dal fatto stesso di essere nati, non dal possesso del denaro, che non era nemmeno l’elemento fondamentale dell’organizzazione di quei rapporti sociali. Tutto cambia dal momento in cui anche il lavoro viene trasformato in una merce. Il capitalismo libera le persone dai rapporti di dipendenza personale tipici del medio evo e, beninteso, la conquista di questa libertà personale è stata una bellissima cosa. Però, forse, non si è riflettuto abbastanza sul fatto che questa liberazione era indispensabile per poter trasformare il lavoro in una merce: grandi masse di ex servi della gleba, scacciati dai loro villaggi agricoli ed ammassati nelle città, potevano vivere solo vendendo l’unica risorsa di cui disponevano, la loro capacità di lavoro. Così, attraverso il denaro, fu possibile appropriarsi non solo delle ricchezze già prodotte, ma anche della fonte di ogni futura ricchezza, del lavoro, trasformandolo in una merce (forza-lavoro) con un prezzo (salario) come tutte le altre merci. Le potenzialità immanenti del denaro erano compiute e così sorse un nuovo modo di produzione che avrebbe sconvolto e trasformato a sua immagine e somiglianza il mondo intero: il capitalismo. Beninteso, rapporti di lavoro salariato esistevano anche nei modi di produzione precedenti, ma erano marginali, mentre nel capitalismo il lavoro salariato è uno dei suoi aspetti fondamentali ed essenziali. Ormai non si può avere alcun dubbio che il capitalismo, dopo aver avuto successo nel sostituire i modi di produzione precedenti in Europa, si sia esteso e abbia contagiato il mondo intero. I sociologi, gli economisti, gli antropologi hanno scritto migliaia di libri per analizzare e spiegare ciò da punti di vista diversi, tuttavia la spiegazione più convincente (astraendo da ogni altra causa, magari ancor più decisiva, come la capacità di utilizzare la forza) è che il capitalismo si basa su un unico principio molto semplice e addirittura banale: quello secondo il quale la vita di ogni individuo, libero da ogni legame di dipendenza personale, possa essere dedicata ad accumulare denaro ad ogni costo. Principio che tutti possono capire e seguire del tutto spontaneamente e con totale convinzione. Se il lavoro è la fonte della ricchezza e sul mercato si può acquistare una merce (forza-lavoro) il cui uso consiste proprio nell’attività lavorativa, è una conseguenza abbastanza banale pensare che sia possibile accumulare grandi ricchezze acquistando quella merce miracolosa, che, usandola, non viene distrutta con il suo consumo come ogni altra merce, ma addirittura produce nuova ricchezza. Basta far sì che la produzione della ricchezza sia maggiore di quella contenuta nel prezzo di acquisto. Chi acquista tale merce ha diritto di usarla, in quanto il valore d’uso di ogni merce acquistata passa al compratore. Il compratore della forza-lavoro, il capitalista, paga un salario in denaro, cioè si priva di una certa quantità di denaro, e il venditore della forza-lavoro, l’operaio, userà il denaro ricevuto per acquistare sul mercato le merci di cui ha bisogno per la sua sussistenza. Non è detto che ogni singolo capitalista abbia la capacità di arricchirsi (vi sono anche i fallimenti), ma è solo così che il capitale totale dell’intera società può valorizzarsi e, di conseguenza, può permettere l’arricchimento, se non di tutti, di molti capitalisti. La complessità è solo apparente, ma il meccanismo alla base dello sviluppo del capitalismo è semplicissimo: nelle merci prodotte dalla massa degli operai deve essere contenuto più lavoro e quindi più valore di quanto ne sia contenuto nelle merci acquistate dalla medesima massa degli operai. Solo a questa condizione è possibile che vi sia un valore eccedente e quindi una ricchezza, prodotta dal lavoro, di cui però si appropria il capitale. E tale eccedenza non è solo una possibilità, è stata una certezza fin dall’origine del capitalismo: basta che la durata della giornata lavorativa vada ben oltre ciò che è necessario a produrre i beni necessari alla riproduzione della vita della massa degli operai impiegati. Ovviamente ciò non riguarda ogni singolo rapporto di lavoro, poiché si tratta di grandezze medie, sociali e ormai da considerare alla scala mondiale, in quanto i mercati sono estesi su scala mondiale. Questa differenza di valore (nel linguaggio di Marx si tratta del “plusvalore”) dà origine ad ogni forma di reddito diverso dal valore della forza-lavoro. Sembrerebbe che questo “gioco” possa durare all’infinito, ma nello sviluppo del capitalismo sono contenute anche le ragioni delle sue crisi e del suo crollo. Gli economisti moderni, cresciuti tutti nel mare dell’Economia Volgare, brancolano letteralmente nel buio di fronte alla virulenza dell’attuale crisi finanziaria e del debito sovrano. E non sanno assolutamente come uscir fuori da una contraddizione che ai loro occhi (“volgari”) appare insolubile. Da un lato debbono garantire i redditi provenienti dall’impiego del capitale monetario (ogni forma di dividendi, interessi, cedole, rendite finanziarie e quant’altro), perché altrimenti si rischierebbe di mettere in crisi il pilastro su cui si basa l’intero sistema capitalistico, il potere del denaro, il fatto che il denaro sia presupposto capitale e dunque abbia diritto di percepire, comunque venga impiegato, la “giusta” remunerazione. Dall’altro, le loro ricette di politica economica hanno come inevitabile risultato una sempre maggiore difficoltà a produrre nuova ricchezza (lo spauracchio, che tutti ormai temono, è l’assenza di crescita), con la conseguenza che la temuta prospettiva di non poter più garantire i redditi ai possessori di denaro e di titoli finanziari si fa sempre più realistica. E in effetti si tratta proprio di una “quadratura del cerchio”, cioè di una vera e propria impossibilità, nel quadro dei rapporti capitalistici. I signori “responsabili” dell’economia mondiale, i vari professori universitari, direttori di banche, capi di governo e quant’altro, chiamano “crescita” l’aumento del P.I.L. (Prodotto Interno Lordo), cioè un aumento della valutazione in denaro delle merci prodotte (beni e servizi). Una grande preoccupazione li assale quando ciò non accade, come sta avvenendo proprio adesso e specialmente nella maggior parte dei paesi dell’area europea. A nessuno di detti “responsabili” viene in mente che l’effettivo aumento del valore sia possibile solo aumentando le giornate lavorative. O meglio, nelle considerazioni di alcuni di loro è rintracciabile questa fondamentale verità, ma in maniera del tutto formale, perché poi tutti si affrettano a dichiarare che i dati che conosciamo sono solo quelli espressi in prezzi e che, dunque, è solo con tali dati che possiamo operare, distinguendoli, tutt’al più, in prezzi medi di mercato, prezzi correnti o prezzi costanti. Eppure nessuno, che sia in buona fede, potrebbe seriamente negare che la fonte del valore sia il lavoro, ma tutti, nello stesso tempo, hanno la pretesa di presentare le loro considerazioni come se fossero fondate scientificamente. Ma che scienza è quella che si dimentica di indagare le cause più profonde degli eventi che pretende di conoscere? E allora come si spiega che le decisioni dei massimi “responsabili” siano ammantate di indiscutibile “scientificità”? Quel che è certo è che, al di là degli innegabili servizi resi dai bravi “analisti finanziari” a chi ha l’unico scopo di arricchirsi attraverso le svariate operazioni finanziarie, l’effetto “imbonimento” nei confronti delle grandi masse ignare, confuse e sottoposte a continuo “bombardamento” ideologico, è assicurato. A loro si offre solo l’apparente scelta tra due impostazioni apparentemente diverse, quella dei “liberisti” (“neoliberisti”, “monetaristi” della prima o dell’ultima ora) o quella dei “keynesiani” (ortodossi o “neo-keynesiani”). C’è da essere imbarazzati di fronte a tanta offerta di spiegazioni e di impostazioni!! La verità è che nessuno di loro ha ben compreso che cosa in realtà significhi che la fonte del valore è il lavoro. Ad esempio tutti pensano che un aumento della produttività del lavoro comporti come conseguenza indiscussa anche l’aumento del valore di scambio delle merci prodotte. E invece non è così: se nella stessa giornata lavorativa, invece della produzione di 100 pezzi, se ne producono 200 per una produttività del lavoro raddoppiata, il valore complessivo non muta e i 200 pezzi avranno lo stesso valore di scambio, che prima avevano i 100, perché la giornata lavorativa è sempre la stessa. L’obiezione è scontata: allora perché in tutto il mondo c’è la corsa all’aumento della produttività del lavoro? Però è un’obiezione che dimostra come la differenza tra valore (tempo di lavoro) e prezzo (denaro) sia difficile da digerire. Se i 200 pezzi hanno un valore di scambio unitario pari alla metà di quello dei 100 prodotti precedentemente con una minore produttività del lavoro, non è detto che abbiano allo stesso modo un prezzo di mercato pari alla metà: ciò dipende dalle condizioni generali del mercato, ma generalmente il prezzo unitario dei 200 pezzi è superiore alla metà del prezzo unitario dei precedenti 100. E’ qui che sorge l’interesse individuale, o comunque settoriale, ad aumentare la produttività del lavoro. Si tratta tuttavia di un vantaggio che cessa quando l’aumento della produttività del lavoro si diffonde a tutti i settori, ma è così che si spiega la continua spasmodica ricerca dell’aumento della produttività del lavoro. Dal che però derivano, nell’inconsapevolezza di tutti gli operatori e di tutti i professori, due conseguenze inevitabili e ineliminabili, se pur di segno contrario dal punto di vista dell’interesse generale del Capitale Totale: la riduzione del rapporto tra profitto e capitale (la tendenza cioè alla riduzione del saggio di profitto) e la diminuzione del valore della forza-lavoro. La natura, “l’anima” del capitalismo, è la ricerca continua di maggiore profitto. Però tutti pensano al profitto espresso in termini monetari, perché il concetto di valore come tempo di lavoro ha interessato sempre poco i singoli imprenditori capitalisti ed anche perché essi non sono stati per niente aiutati dai cosiddetti “economisti” (quelli “volgari”, tanto per intenderci), che hanno sempre sostenuto l’inutilità – e perfino l’irrealtà – di tale concetto fastidioso. Tuttavia è proprio tale inconsapevolezza, che impedisce di conoscere ciò che condurrà inevitabilmente alla morte il capitalismo. Sintetizzando un po’, e dunque con una certa semplificazione, ma senza rinunciare alla vera sostanza di ciò che tutti chiamano “economia”, basta il semplice buonsenso per capire che la possibilità di aumentare continuamente la ricchezza monetaria, attraverso l’attività produttiva, esiste solo se, da questa medesima attività, deriva un maggior valore contenuto nei prodotti, rispetto al valore contenuto nelle merci e nelle risorse consumate per produrli. E’ un’elementare verità. Però, è proprio riflettendo su questa elementare verità, che si può capire che ciò porta necessariamente al superamento del capitalismo. Infatti, per realizzare lo scopo suddetto (e non esisterebbe capitalismo senza la propensione alla realizzazione del massimo profitto), si tende necessariamente a ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei beni di sussistenza per aumentare il tempo di lavoro eccedente, da cui ha origine il plusvalore e, di conseguenza, ogni tipo di profitto monetario. Ma il tempo di lavoro eccedente esiste solo in antitesi al tempo di lavoro necessario. Perciò, se tutto il tempo di lavoro fosse eccedente, non ci sarebbe più la possibilità di valutare il valore come tempo di lavoro, dunque non avrebbe più senso il valore di scambio, il denaro e il capitale. E’ ovvio che si tratta di un’ipotesi limite. Presa alla lettera è anche un’ipotesi irrealistica, perché il tempo di lavoro necessario per produrre i mezzi di sussistenza non potrà mai essere ridotto a zero, però ci indica, da un lato, l’irrazionalità di un sistema, quello capitalistico, che nel perseguire la sua propria natura è costretto a produrre condizioni che la contraddicono, e, dall’altro, l’esigenza indiscutibile di superare il capitalismo stesso. Questa è la legge mortale per il capitalismo. Vi possono essere fasi di rallentamento di questo processo di morte e anche fasi di inversione, però, perdurando il capitalismo, questa legge non può essere eliminata senza negare la sua natura e la sua “anima”. Eppure essa non appare alla superficie e, anzi, generalmente, tutti gli operatori economici, e anche tutti i pretesi “scienziati”, o non ne sono per niente consapevoli o tendono a dimenticarsene. Al contrario, non possono assolutamente far finta di niente di fronte all’esplosione di crisi, che si manifestano in modo ricorrente ed eclatante e turbano i sonni degli uni e degli altri. Sono crisi che si manifestano nella circolazione delle merci e/o nei rapporti monetari e finanziari. La circolazione delle merci non avviene mai in condizione di equilibrio, perché la vendita e l’acquisto sono separate ed hanno una loro autonomia. Migliaia di libri sono stati scritti, fino dai tempi dell’insulso Say, cioè fin dalla seconda metà dell’800, per dimostrare il contrario. Tutti gli studenti conoscono la cosiddetta “legge degli sbocchi”, a volte indicata perfino come “legge di Say”, secondo la quale ci sarebbe sempre un sostanziale equilibrio tra l’ammontare delle vendite e degli acquisti. E’ incredibile che queste assurdità abbiano avuto credito da oltre un secolo, eppure si basano su una dimenticanza non da poco. Questi signori si sono dimenticati che ormai da tempo gli scambi sono mediati dal denaro. La loro “teoria” (si fa per dire!) avrebbe senso solo in una economia di baratto, ma, da quando si usa il denaro, le vendite possono avvenire senza utilizzare il denaro incassato per effettuare contestualmente compere, e viceversa. Di conseguenza l’equilibrio nella circolazione delle merci non c’è mai. Ci sono solo delle fasi in cui il disequilibrio è modesto ed altre fasi in cui, al contrario, è grandissimo, cosa che comporta situazioni di gravi difficoltà nel processo produttivo complessivo, che possono consistere in tendenze inflazionistiche o, al contrario, nella più temuta crisi deflattiva e di sovrapproduzione. Per quanto riguarda le crisi inerenti al settore monetario e creditizio, la loro causa è addirittura semplice e banale e basta il semplice buon senso per capirla. Eppure sembra che non la possano capire proprio i “professoroni”, grandi sì, ma volgari. O meglio, forse la capiscono, ma la loro cattiva coscienza fa sì che venga immediatamente e totalmente taciuta. La causa ultima e fondamentale di tutte le crisi monetarie e finanziarie è che il denaro, in quanto rappresentante di un determinato valore, non può, di per sé, “figliare” altro denaro, in cui sia rappresentato valore aggiuntivo. Eppure è di tale assurdità che sono convinti tutti, dal più piccolo e ignaro risparmiatore al più grande e volgare professorone. Basta la seguente e semplice considerazione per rendersene conto. Ricordando che il profitto complessivo, conseguito nell’attività produttiva, viene ripartito tra utile d’impresa, rendita ed interesse e ammettendo perfino l’ipotesi che tutto il profitto sia attribuito all’interesse, si avrebbe un’accumulazione di capitale monetario, il cui interesse dovrebbe derivare dall’interesse stesso secondo il meccanismo perverso dell’interesse composto, il che è assurdo. Accumulare capitale monetario – secondo tutti i capitalisti di ogni razza e secondo tutti i loro apologeti, specialmente secondo gli economisti volgari – significa, al contrario, proprio esigere linteresse dellinteresse. Però, da un lato, il capitale si dovrebbe accrescere progressivamente sulla base dell’interesse composto, mentre, dall’altro, il tempo di lavoro, da cui deriva effettivamente il suo valore, ha un limite molto netto. Se, per esempio, originariamente, ad un operaio corrispondesse proporzionalmente 50 di capitale, su cui egli fornisse un profitto, mettiamo, del 50 % e se, in seguito alla trasformazione dellinteresse in capitale, e ripetendosi questa trasformazione a più riprese, al medesimo operaio corrispondesse 200 di capitale, ciò significherebbe che questo processo si compirebbe in meno di 4 anni. Loperaio, che prima forniva 25 di profitto per un capitale di 50, adesso, per un capitale di 200, dovrebbe fornire 100 di profitto, ossia il quadruplo. Ma ciò è impossibile, perché, per farlo, dovrebbe lavorare un tempo quadruplo, oppure accettare che il valore della sua forza - lavoro diminuisca di ben quattro volte. Oltre allo sfruttamento sempre più odioso della forza – lavoro e al peggioramento della qualità della vita dei lavoratori alla lunga inaccettabile, si avrebbe anche un insanabile e progressivo conflitto tra capitalisti monetari e capitalisti produttivi – cosa che sta avvenendo sempre più chiaramente anche nella crisi attuale: linteresse com¬posto fagociterebbe il profitto e più del profitto e il fatto che il pro¬duttore debba pagare linteresse composto al prestatore di denaro comporterebbe che oltre al profitto, a poco a poco gli dovrebbe pagare anche una parte del suo capitale. Un altro effetto paradossale del capitalismo riguarda il rapporto tra produttività del lavoro e valore del lavoro. Per prima cosa, nessuno (nemmeno i professoroni) metterebbe in dubbio che l’aumento della produttività del lavoro abbia per effetto l’aumento proporzionale del valore del lavoro. Invece non è così. Anzi, per meglio dire, l’affermazione che l’aumento della produttività del lavoro comporti un aumento del valore del lavoro è una frase senza senso. Il lavoro, infatti, in quanto è la fonte e l’origine del valore, non ha alcun valore. Ciò che ha un prezzo (salario), e quindi valore di scambio, è la merce forza - lavoro e non il lavoro. Pertanto, con lo sviluppo della produttività del lavoro, il tempo di lavoro, occorrente per la produzione dei beni necessari alla sussistenza e alla riproduzione della forza – lavoro, diminuisce costantemente e così il valore della forza – lavoro. L’obiezione è scontata: ma allora come si spiega che, proprio nei paesi dove la produttività del lavoro è aumentata storicamente, anche i salari degli operai sono aumentati? E anche questa è un’obiezione che dimentica semplicemente la differenza tra valore (tempo di lavoro) e prezzo (denaro). Per tutta una fase storica (adesso però sembra finita), il capitalismo si è potuto sviluppare alla scala del mondo intero solo aumentando i salari agli operai dei paesi sviluppati, che così hanno potuto acquistare le merci, gettate sul mercato in grande abbondanza in seguito all’aumento costante della produttività del lavoro, permettendo la realizzazione in forma monetaria della grande massa di plusvalore in esse contenuto. Solo così il ciclo complessivo del processo capitalistico poteva compiersi e rinnovarsi a scala sempre più grande. E ciò ha comportato, come tutti sanno, una tensione massima delle forze produttive, uno sfruttamento delle risorse naturali oltre ogni decenza, uno stravolgimento criminale dell’equilibrio ambientale, indigenza, affamamento e morte di grandi masse di esseri umani. Il lavoro vivo è diventato un semplice accessorio del macchinario, tanto più che il lavoro necessario è ridotto ai minimi termini e la creazione della ricchezza sociale dipende meno dal lavoro che dallo stato generale della scienza. Ma il profitto deriva solo dal lavoro eccedente e, se non c’è profitto a sufficienza per valorizzare tutto il capitale esistente nel mondo, una gran parte del capitale deve essere distrutto. Le crisi monetarie e di borsa in parte servono a questo scopo, ma lo strumento più efficace, e che già ha dato buona prova di sé nel secolo trascorso, è il ricorso alla guerra. Riflettendo su queste inevitabili conseguenze, fin da un secolo e mezzo fa, Marx ha individuato perfettamente sia il salto di qualità nei rapporti sociali, che è alla portata dell’umanità proprio come prodotto dello sviluppo della scienza e della conseguente produttività del lavoro, che la contraddizione, in cui la permanenza dei rapporti capitalistici costringe i rapporti tra gli uomini a rimanere nella gabbia miserevole dell’appropriazione di lavoro eccedente altrui. Questi rapporti sono ormai del tutto consunti. Se non sono morti, sono visibilmente morenti. Eppure, tuttavia, non solo non ci sono ancora i becchini disposti a sotterrare per sempre il capitalismo (e questo sarebbe tollerabile, almeno fino a che la puzza del morto, o del morente, non sarà insopportabile), ma bisogna fare molta fatica per intravvedere almeno qualcuno che abbia questa precisa consapevolezza. Il capitalismo, con la trasformazione del lavoro in merce (forza – lavoro), ha separato il lavoro sia dai suoi prodotti che dalle sue condizioni sociali, indispensabili per produrli. Ebbene, è inevitabile che si diffonda sempre di più non solo questa consapevolezza, ma una vera e propria intollerabilità di tale separazione. E’ inevitabile che le ragioni del lavoro vivo prevalgano su quelle del lavoro morto, o, in altri termini, che si affermi la supremazia della vita degli esseri umani sulle pretese del capitale e del denaro, la supremazia dell’attività sul prodotto, delluomo sulla cosa. In definitiva è inevitabile non permettere più al denaro di possedere l’attuale forza sociale e di porsi come unico rappresentante della ricchezza sociale, trasmutata, attraverso il suo possesso, in proprietà privata. E’ così che la campana a morte del capitale suonerà. I becchini allora saranno pronti e si avranno nuovi rapporti sociali che non permetteranno più al denaro di svilupparsi come capitale – denaro. Con ciò, il potere sociale del denaro verrà del tutto cancellato e gettato nell immondezzaio della preistoria dell’umanità.
Posted on: Mon, 28 Oct 2013 10:21:20 +0000

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