dal racconto Il raccolto di Paride Rombi XII IL CAPANNO - TopicsExpress



          

dal racconto Il raccolto di Paride Rombi XII IL CAPANNO SULL’AIA Scartò il partito, non seppe bene il perché, di chiamare Jeremia, il quale del resto dormiva sodo, lo si sentiva russare. Al contrario, deciso che ebbe di andare lui stesso a vedere, mise ogni cura nel muoversi perché il bastante non si svegliasse. Così se ne uscì quatto quatto dal baracchino e prese a avanzare carponi verso il bordo dell’aia. Attento a non far rumore, non far frusciare la paglia, non tossire, non mugolare. Non aveva bisogno di farsi coraggio: non provava paura. Troppo occupata la mente, o si dica l’essere, da quello stupore: Pasqua? Del resto ci si vedeva come di giorno. La luna inondava il cielo, e il mondo, del suo fulgore. Una chiarità quasi irreale. La luce diffusa, soffusa, quasi spruzzata sulle cose; e le cose rinate e ribattezzate in essa. Tali e quali, cioè, e nuove, a un tempo. La fronte della casa, i carri, gli attrezzi, il cappello di paglia di ’Ntoni appeso a un piolo, le connessure dei sassi nell’acciottolato e perfino l’erbetta, stenta, negl’interstizi. Poi la grande rotonda d’oro dell’aia, i covoni ancora da battere ammontonati sui bordi, e fuga di campi verso la china, e le colline là in fondo, segnate da ombre viola. Continuò a avanzare gattoni anche dopo che fu fuori dell’aia. Ma non sapeva dove dirigersi. Per quanto tendesse l’orecchio, più nulla udiva, che potesse guidarlo, né voci bisbigli o altro, nulla. Nell’incertezza fece mezzo giro dell’aia, e nulla. Si spinse fino al muretto verso la stalla, e nulla. Retrocedeva smarrito, incerto se gridare, chiamare: Pasqua! Alla terza bica si arrestò, irrigidendosi: gente piangeva. Era sicuro che da qualche parte, lì vicino, qualcuno piangeva. Oppure ansimava forte, non riusciva a capire bene. Si fece attentissimo, localizzò il punto dal quale i gemiti venivano e, strisciando il più cautamente possibile per evitare ogni rumore, avanzò piano piano, adagio adagio, per rendersi conto. Fieli Pòrcina non capiva. Realmente non si raccapezzava. Sfidava chiunque a dire se questa non era una cosa inconcepibile, idiota e senza senso. Ma come, non voleva. Ma se si era rimasti d’accordo non più di sei giorni prima. Dieci, undici, che importa, c’è proprio da stare a sottilizzare su questo, ora. Ma non si rendeva conto, lei, che era per il suo bene, che tutto, cosa credeva, sarebbe finito in un padrefiglio, e che ogni cosa, dopo, sarebbe stata diversa, lei liberata da un incubo, ritornata la serenità, la gioia, lo capiva questo? E si rendeva conto che tutto era pronto, contrattato, anche pagato, sì, e che a quell’ora la persona attendeva, erano poi anche cose di grande delicatezza, non è che si dice be’ se non è oggi è domani fate con comodo, e invece loro qui, come scemi a discutere, ma siamo matti? Non le importava? Ah!, non le importava, eh? E mi congratulo. Il suo onore era in gioco, il suo avvenire, si può dire la sua vita erano in gioco, ma a lei non importava. E si poteva verbigrazia sapere perché? Così! Interessante, già, così! Ma sacramento, era impazzita, alle volte? E poi, la voleva sapere una cosa? Se a lei no, a lui sì, importava, Cristo, sì gl’importava, anche per lei, anche nell’interesse di lei, giuraddio che lui non riusciva a… (Era poi stato a questo punto che lei l’aveva interrotto, e, per chetarlo, temendo che alzasse ancora di più la voce, lei stessa l’aveva alzata un’ottava di troppo nel pronunziare le parole ch’erano giunte alle orecchie di Momo). Ripigliava più a bassa voce, lui, ma sempre incalzante. Be’, gli voleva spiegare, allora, come intendeva risolvere la situazione? Come credeva di poter uscire da questo maledetto accidente? Sentiamo, lui l’ascoltava. Erano, sin qui, rimasti a ridosso di un muro della corte, in un breve trapezio d’ombra. (Lei aveva anche, in precedenza, dovuto zittire i cani, quei sordi ringhi che Momo, a sua volta, sì appunto). E era a questo punto che lei aveva detto, con una voce un po’ strana: «Vieni» aveva detto «spostiamoci da qui e ficchiamoci da qualche altra parte, per piacere, se dobbiamo discutere. Non possiamo restare qui, in piazza e sotto la luna. Vieni». Così avevano raggiunto lo spiazzo dove si alzavano, in figura di enormi cippi, le biche, e s’erano messi seduti in una specie di nicchia (scelta da lei) formata dall’accostamento di due di queste biche e tale che, per essere la sua concavità volta all’aperta campagna, avrebbe evitato che le loro voci si ripercuotessero da questa parte, verso la casa e l’aia. Una volta lì, lui aveva ripreso – con maggior forza anzi, e rudezza, siccome franco dal timore che potessero facilmente sentirlo – a tormentarla di domande per quel rifiuto ostinato e irragionevole che lei opponeva, a chiederle in nome di Dio di dire (“sputar fuori”, il termine che lui usava) quale ne fosse il perché, insomma a scuoterla in tutti i modi nella speranza di riuscire ancora a convincerla. Ma lei divagava, svariava. Non si può dire che così. Invece di stare al punto, seguire il discorso, rispondere a tono, o lo fissava assorta senza dir nulla o, se interloquiva, usciva in battute impensate, da stare a guardarla a bocca aperta. «Di notte, lo sai, la tua voce è profonda profonda», per esempio. «Eh? Cosa?» lui «Ma che dici!». Lei, con naturalezza: «Sì, è vero, profonda». Oppure, passato un tempo, mentre lui si accalorava: «È con Stori che sei venuto?» il nome (l’astore) di uno dei suoi cavalli. «Stori?» lui, disorientato «Ma si può sapere che diavolo…». Era il cavallo che lui cavalcava il giorno del loro primo incontro sulla strada per Tula; a lui era passato totalmente dalla memoria. E a un tratto, poi, languida, tenera, da sembrare trasfigurata: «Io, Fieli, vorrei, vorrei…». Né si seppe per ora ciò che vorrebbe, né lui reagì, altro che domandandole: «Be’, che ti prende?». Non chiaro a lei stessa ciò che le prese. Né se, proponendo proprio lei d’intanarsi in quel cantuccio, già fosse in lei, oppure no, la coscienza e il desiderio di quello che ora stava avvenendo. Un congedo dal mondo? Un addio a tutto, e a lui principalmente, che tanto era stato amato? Lei era, adesso, come placata, serena. Come spensierata, perfino. Viaggio deciso, itinerario programmato, esaurita la fase dei preparativi febbrili. Non si attende se non il segnale della partenza e che siano tolti i barcarizzi e sciolte le gomene. E che il vento si alzi e dica: va’. Forse già per questo era scesa giù abbasso, udito che ebbe il richiamo di lui, fatto col verso che emette la volpe quando è affamata o in amore. Aveva, a quel richiamo, sentito agitarsi in lei sensazioni inattese, strane. Chi era costui che veniva di notte (era la prima volta, dacché si conoscevano) sotto la sua finestra, e la chiamava? Non era il suo innamorato? “Io dormo ma il mio cuore veglia. Ecco la voce del mio diletto che bussa: aprimi, sorella mia, amica mia, mia colomba, perfetta mia. Ché il mio capo è coperto di rugiada e i miei riccioli delle gocce della notte. Oh, mi son tolta già la veste, come la rimetterei? Mi sono lavata già i piedi, come tornerei a insudiciarli?”. Era scesa già con quest’animo, forse. E adesso, a riessere ancora con lui, lì rannicchiata, in quel nido, e l’odore del grano, e la luna (proprio da quella parte sbatteva la luna), il suo cuore non tenne, fu pazzo, cieco e pazzo. Come quei fringuelli ai quali bruciano gli occhi con aghi arroventati, poi li mettono per richiamo su un albero, dentro una gabbia, e loro cantano. È inverno e cantano, sono straziati, infelici e cantano, rovesciano in canto, ciechi come sono, la loro pena. Press’a poco così, lei, giunta a quel punto. La stessa singolarità di questo (il primo) incontro notturno. L’urto del suo sentire col sentire affatto diverso di lui, da provocare in lei una specie di lacerazione, di dolore, di muto grido: neanche adesso, dunque, comprendi? La pietà per se stessa, struggente. E metticipure l’impulso a stordirsi, dimenticarsi, in quell’ora stregata. E infine qualcosa che non è niente, una gratuità, ed è tutto. Che vuoi da me, Fieli Pòrcina, che vuoi sapere? No, caro, non darti pensiero di questo, il tuo aiuto non serve, non ne ho bisogno, non ho più bisogno di nulla. Sta’ tranquillo, tutto è a posto, tutto è sul punto di essere consumato. Guarda: sono forse io in pena? Al contrario, mi vedi. Sono serena, perfino allegra, certo devo essere anche un po’ matta, un po’ ubriaca, con questa luna, non te ne accorgi? Lo so: dovrei cacciarti, mandarti via, trattarti da quel birbante che altro non sei, Fieli Pòrcina, dolcezza mia. Ma non posso non voglio e neanche m’importa, questa è l’ultima volta, l’ultima, che ti guardo, ti tocco, amore mio. Lui stralunava. Non è che quelle parole lei le dicesse realmente, no. Ma la morbidezza e dolcezza che erano in lei e che da lei emanavano ne traducevano così il senso che a lui pareva davvero di intenderle. E stralunava. Era venuto qui per tutt’altro, non questo. E si trovava al contrario approntato questo, un incontro così, un convegno d’amore? Fu lei, effettivamente, a un dato momento a attirarlo. Cosa che mai era accaduta prima. La prima volta. L’ultima volta. E che cosa avrebbe fatto, lui, ora, lei sembrava sollecitarlo, Fieli Pòrcina cuore mio specchio d’oro, cosa farai. Guardava inebetito, vicinissimo che l’aveva, il viso di lei. Nel riflesso della luna, bianco come la luna. Che avrebbe fatto? Gli si comunicava, gli si contagiava, un po’ dell’insania che era in lei. Qualcosa che avrebbe ricordato tutta la vita. Sarebbero passati anni, decenni. Si sarebbe sposato, avrebbe avuto figli, soddisfazioni, contrarietà, il bene e il male che la vita può dare. Si sarebbero sovrapposte, nella successione dei giorni, immagini e sensazioni infinite. Ma mai avrebbe dimenticato, né mai più ritrovato, fra le proprie esperienze, esperienza così. Questo abbandono, questa dazione, derelizione totale. Questa donna che sperperava, che scialacquava l’amore. Questo fiume senz’argini né anse né foce. Questo corpo che bruciava (o era l’anima?) e queste mani, labbra, viso, che sprigionavano mai conosciute dolcezze, delicatezze.. Fin quando, in lei, la tensione durata troppo, l’ubriacatura e quel turbine, si scioglievano infine in pace, dapprima prendeva a piangere del tutto silenziosa, ancora sorridente, poi veramente rompeva in singhiozzi, che cercava vanamente di soffocare. E appunto questo udiva Momo, lì vicino, trasecolato: un pianto e un ansimare. Inchiodato a due metri da lì, sempre carponi, udiva questo. Pasqua, era, senza alcun dubbio, che singhiozzava. Tal quale quella notte, si disse subito. Mentre l’ansimo, con altrettanta certezza, era di uno che incrudeliva sopra di lei, quello per il quale lei s’era mutata, quello che la faceva soffrire. Avanzò per coprire quel poco spazio, con minor rumore che se fosse stato una mosca. Si torse, si snodò, a evitare che anche solo un fuscello di paglia crocchiasse. Il tempo che impiegò nel far questo non ha misura. Ma venne e vide. E non seppe mai capire, dopo, perché non si fosse messo a gridare. Lei e lui. Lì giacenti. Ancor stretti. La luna, come un bengala, gli faceva lume. Nitida ogni cosa fino a essere allucinante. Lei, di tre quarti, e sta bene, già lo sapeva. Ma lui! Chi immaginava: Raffieli Pòrcina! Anche lui voltato a mezzo e pigliato di sbieco dalla luna, ma perfettamente riconoscibile. E sconvolto, stravolto, procombente su lei riversa, lei che cercava di mansuefarlo, calmarlo, senza pur smettere di singhiozzare. La faccia del ragazzo come la faccia della luna: istupidita, ferma, impietrita. Né disse nulla né fece nulla, gridare, alzarsi. Rinculò e tornò. continua..
Posted on: Sat, 02 Nov 2013 19:01:50 +0000

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