la preghiera cristiana (parte III) Il secondo ordine dei valori: - TopicsExpress



          

la preghiera cristiana (parte III) Il secondo ordine dei valori: il pane quotidiano, la riconciliazione, la liberazione dal Male Dacci il nostro pane quotidiano Con la richiesta del pane quotidiano ha inizio il secondo ordine dei valori, dedicato alle necessità umane. Il primo, infatti, a somiglianza del Decalogo, riguardava i diritti di Dio. Il concetto del “pane quotidiano” deve essere pensato su diversi livelli. Il livello più basilare è certamente quello fisico, dove si afferma l’essenziale fragilità della nostra natura, continuamente bisognosa di un nutrimento per potersi conservare in vita. Il fatto che il cristiano sia invitato a chiedere a Dio il suo nutrimento, implica che la fatica quotidiana con cui ci guadagniamo da vivere, non è una causa “assoluta” della nostra sussistenza. In altre parole, il pane che mangiamo ogni giorno non ci è dovuto perché ce lo siamo guadagnato, né possiamo pensare di averne diritto senza perciò dover ringraziare nessuno; la prospettiva cristiana è ben diversa: IL PANE QUOTIDIANO, OSSIA IL SOSTENTAMENTO NECESSARIO ALLA NOSTRA VITA, È IN OGNI CASO SEMPRE UN DONO DI DIO. Quindi bisogna chiederlo a Lui, senza ritenere che il nostro lavoro ci renda autonomi e capaci di sostentarci “da soli”. Questo insegnamento è già esplicitamente presente nel libro di Qoelet: “Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche: anche questo è dono di Dio” (5,18). Il senso di questa petizione, però, non è circoscritto alle necessità materiali della sopravvivenza. Non possiamo infatti dimenticare che, nella Bibbia, il simbolo pane possiede un valore inclusivo di tutto ciò di cui l’uomo si nutre fino agli strati più profondi della sua personalità. A questo proposito possiamo ricordare Pr 9,4-6: “A chi è privo di senno la Sapienza dice: Venite, mangiate il mio pane… abbandonate la stoltezza e vivrete”. Oppure Amos: “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, ma di ascoltare la parola del Signore” (8,11). E, soprattutto, Gv 6,51: “IO SONO il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”. In una prospettiva più ampia, con questa petizione si chiede a Dio tutto ciò che ci è necessario per la salute fisica e spirituale. Data la ricca simbologia biblica legata all’idea del pane, con la richiesta del “pane” ciascuno chiede a Dio quello che la propria maturità spirituale gli permette di attendersi: chi solo il cibo per il corpo, chi l’Eucaristia, chi il nutrimento della Sapienza.Ciò che indica il riconoscimento di Dio come unico datore dei doni è il verbo iniziale della petizione: “dacci”. Qui intravediamo la particolare concezione cristiana del lavoro umano. Il cristiano, come già dicevamo, non ha l’illusione di considerare la propria abilità lavorativa come un assoluto. Va inoltre notato il plurale della formula insegnata da Cristo ai suoi discepoli: “dacci” e non “dammi”; il che suggerisce una preoccupazione estesa a tutti, e una solidarietà per la quale il pensiero della sopravvivenza personale deve andare di pari passo con quello della sopravvivenza di tutti. L’aggiunta della parola “nostro” intende esprimere i limiti delle necessità personali, ossia: dicendo “nostro”, chiediamo la giusta quantità, secondo i nostri reali bisogni, escludendo dalla preghiera ogni richiesta del superfluo. L’insegnamento biblico si colloca sempre nella linea della sobrietà e invita a cercare le cose che ci necessitano solo in maniera proporzionale ai bisogni reali. Possiamo ricordare Pr 30,8: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario”. Lo stesso insegnamento traspare dal dono della manna nel deserto: nessuno può trattenerne una quantità superiore al reale fabbisogno quotidiano (cfr. Es 16,16.20). Anche l’aggettivo “quotidiano” intende sottolineare la stessa verità: noi chiediamo a Dio un cibo che non raggiunga la misura del superfluo materiale, ma anche un cibo che non è superfluo in senso cronologico, un cibo “per l’oggi”, cioè per una giornata, perché domani Dio provvederà ancora. Il significato del cibo “per la giornata di oggi” non va comunque inteso in senso letterale, come se si volesse suggerire la mancanza di qualunque genere di accumulo - anche se S. Francesco di Assisi lo aveva inteso così, ma il francescanesimo è solo una corrente di spiritualità, con le sue peculiarità non applicabili a ogni categoria di cristiani - ma va inteso come la negazione dell’ingordigia e come la libertà dalla prigionia del cuore nei beni materiali. Inoltre, l’idea di un cibo richiesto “per la giornata di oggi” allude alla brevità della vita umana e alla incapacità di prolungare con qualsiasi tecnica il tempo della propria esistenza terrena: la preghiera del cristiano non può che riguardare la giornata di oggi, visto che il domani non cade sotto il nostro controllo, né siamo in grado di prevedere se noi ci saremo.Notiamo infine che l’aggiunta del possessivo “nostro” ha pure un altro risvolto: dicendo “nostro” si intende sottolineare la legittimità di quel pane che, pur essendo un dono di Dio, è tuttavia contemporaneamente frutto del lavoro onesto. Quel pane quotidiano viene da Dio come dono, ma è anche veramente “nostro” in quanto non è procurato né con la violenza, né con la frode, né con il furto. Il cristiano si nutre di un pane che è “suo” in quanto frutto di una fatica onesta. Rimetti i nostri debiti Dopo avere chiesto a Dio i beni necessari alla vita fisica e a quella spirituale, si chiede di allontanare i mali che ci minacciano e possono danneggiarci profondamente: il peccato e il Maligno.Dietro la parola “debiti” sappiamo bene cosa ci sta: il peccato personale che separa il battezzato dal suo Dio. Alla parola “debiti” si aggiunge il possessivo “nostri”, perché il peccato non è imputabile a nessun altro, se non a colui che lo compie. I peccati sono “nostri” in quanto sono voluti da noi. Infatti, quei gesti che sono peccaminosi nella loro forma esterna, non sono peccati quando sono involontari (e lo stesso vale per la virtù: il gesto virtuoso ma involontario non è virtù). Per questa ragione, Cristo ci insegna a chiedere perdono a Dio nella preghiera e, al tempo stesso, ci invita a distinguere con maturo discernimento ciò che è peccato da ciò che sembra peccato ma non lo è. Inoltre, si comprende bene, dietro questa petizione, che la realtà del peccato è universale. Nella preghiera che reciteranno tutti i discepoli di tutte le epoche c’è uno spazio obbligato per la richiesta di perdono, segno questo che nessun discepolo di nessuna epoca potrà mai vivere scansando in maniera assoluta l’esperienza del peccato. Tra le creature umane, l’impeccabilità è stata una caratteristica legata solo all’immacolatezza di Maria. Dopo la risurrezione impeccabili lo saremo tutti, perché definitivamente confermati in grazia. La vita storica è invece un tempo di lotta e di oscillazioni. Ci sembra inoltre significativo il fatto che il Maestro ci insegni a pregare al plurale anche in questo caso: “rimetti a noi” e non “rimetti a me”. In questo plurale si può facilmente intravedere il carattere ecclesiale e comunitario del peccato: il peccato individuale, anche il più personale e il più interiore, non è mai un affare privato. Il peccato ferisce sempre il grande corpo della Chiesa e lede l’integrità della comunione dei santi. C’è dunque una inevitabile solidarietà nel peccato, come si è solidali nella comunione e nella santità.In questa petizione chiediamo a Dio di rimettere i nostri peccati come noi li rimettiamo a chi ha peccato contro di noi. Per quanto riguarda il perdono ai debitori, devo rimandare al commento alla beatitudine dei misericordiosi, dove ho già sviluppato l’argomento, e non è il caso di ripeterlo qui. Ci limitiamo perciò ad alcuni rilievi. Bisogna notare che i due atti di perdono sono collegati dalla particella come: “… come noi li rimettiamo”. Questo collegamento ha due basilari significati. Ha intanto un significato di somiglianza, e intende mettere in relazione il perdono ricevuto da Dio con quello offerto da noi al nostro prossimo. Si tratta in fondo di due volti della medesima riconciliazione. Per questo sono accomunati da una certa rassomiglianza. La principale similitudine tra questi due rapporti è indicata da Cristo nella “misura” che ciascuno elabora per valutare i diversi comportamenti e caratteri degli altri. Proprio questa è la misura che Dio applica poi alla persona. L’insegnamento sarà espresso poco più avanti in questi termini: “Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate, sarete misurati” (Mt 7,2). Questo criterio include una vasta gamma di situazioni, ma, in riferimento al perdono, esso intende dire che Dio perdona me come io perdono gli altri; vale a dire: nel giudizio, Dio applica a me quella stessa misura larga o stretta che io ho applicato a chi aveva peccato contro di me. C’è poi un secondo significato connesso alla locuzione “…come noi li rimettiamo”, che in fondo è una sfumatura del primo. In questo secondo significato, la particella “come” indica la condizione del perdono. Altrimenti detto: Dio perdona a noi le nostre colpe se noi perdoniamo quelle che gli altri hanno commesso contro di noi. Basti ricordare Mc 11,25: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati”. Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male Cristo invita i suoi discepoli a pregare per avere la forza di non soccombere nel momento in cui Satana si fa vicino per sedurre e per colpire. Questo fatto ci rende consapevoli che la seduzione del Maligno non può essere affrontata solo con le nostre forze. Non abbiamo alcuna possibilità di vincerlo se Dio non è accanto a noi. La dimostrazione di questa verità i discepoli l’hanno avuta nella notte tra il Giovedì e il Venerdì santo. Il Maestro li aveva avvertiti: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41). Ma la stanchezza fisica e la sottovalutazione della gravità del momento hanno il sopravvento, e si addormentano (cfr. v. 43). Poco dopo, vengono travolti tutti da una bufera superiore alle loro forze di resistenza. L’ora delle tenebre non può essere superata da chi non aderisce in pieno all’insegnamento del Maestro, da chi non prega e da chi sottovaluta la potenza del nemico dell’uomo. Molto chiaro a questo riguardo è anche l’Apostolo Paolo: “La nostra lotta non è contro creature di carne” (Ef 6,12); e ancora: “Chi sta in piedi, guardi di non cadere” (1 Cor 10,12). E Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (1 Pt 5,8).Possiamo ancora chiederci: ma perché dobbiamo essere sottoposti alla tentazione? La domanda non è facile. La ragione per cui questa creatura fragile, che è l’uomo, debba scontrarsi con le potenze delle tenebre, molto superiori da tutti i punti di vista, è uno dei grandi misteri della vita, insieme al mistero del dolore, che in fondo ne è un aspetto specifico (cfr. Gb 1,6-12). Il libro del Deuteronomio dà una interpretazione precisa della tentazione: Dio ci mette alla prova per fare emergere i contenuti reali del nostro cuore (cfr. 8,2). Lui lo sa già cosa abbiamo nel cuore (cfr. Eb 4,13 e Gv 2,24-25), ma fa in modo che venga alla luce, perché possiamo averne consapevolezza piena anche noi. La tentazione, affrontata e superata dal discepolo che ha combattuto secondo le regole (cfr. 2 Tm 2,5), porta a galla tutte le brutture che la persona non sa neppure di avere nel profondo della sua anima, e in tal modo facilita la loro espulsione. Gesù è servito dagli angeli dopo la sua vittoria nel deserto contro lo spirito del male (cfr. Mt 4,11). Dio, comunque, non ci introduce nella tentazione (cfr. Gc 1,13), ma la permette e, in considerazione della nostra debolezza, stabilisce un rigido confine oltre in quale Satana non ci può colpire (cfr. Gb 1,12; 2,6 e 1 Cor 10,13). Non dobbiamo chiedere, perciò, di essere risparmiati dalla tentazione, ma semplicemente di uscirne vittoriosi.
Posted on: Tue, 09 Jul 2013 22:18:25 +0000

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