lavoro3 José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse - TopicsExpress



          

lavoro3 José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (1930) di José Ortega y Gasset •22-Feb-11 Lettura sul Lavoro IX a cura di Stefano Esengrini Scritto dopo l’esperienza della rivoluzione bolscevica e del fascismo, il libro di Ortega y Gasset analizza l’origine dell’ascesa di questi movimenti totalitari, esplicitando come essi siano stati resi possibili dall’avvento di un’idea di uomo preparata fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Il pensiero dell’uomo-massa, infatti, ha i propri presupposti spirituali nei fenomeni della «democrazia liberale» e della «tecnica» – tecnica intesa qui come «accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale». La crisi che colpì l’Europa nel primo dopoguerra non è dunque altro che l’evidenziazione di un problema che riguardava il senso stesso del sapere che reggeva l’umanità europea e che oggi determina, in modo ancor più emblematico, l’umanità a livello planetario. In questo senso il dilagare della cosiddetta società di massa dopo la seconda guerra mondiale costituisce l’ultimo dispiegamento di una concezione di uomo del tutto anonimo e perfettamente sostituibile all’interno della società in cui vive. L’alienazione dell’uomo medio, differente sotto certi aspetti da quella operaia, non è che l’estremizzazione di un allontanamento dell’uomo europeo-occidentale da ogni riferimento alla propria terra, alle proprie radici, alla propria lingua. La stessa divisione del lavoro costituisce solo una delle modalità in cui si esplica la necessaria specializzazione del sapere scientifico, ormai assunto a sapere guida del nostro tempo – specializzazione che vede proprio nell’uomo di scienza il prototipo dell’uomo massa. Nel Prologo per i Francesi che introduce l’opera Ortega scrive: «Ho valutato l’uomo medio attuale per ciò che riguarda la sua adesione alla cultura. Chiunque potrebbe dire che le due cose – la civiltà e la cultura – non sono qui messe in questione. Ma entrambe sono precisamente ciò che io metto in questione fin dai miei primi scritti. […]. Qualunque sia il nostro atteggiamento nei confronti della civiltà e della cultura, resta comunque lì, come fattore di prim’ordine con il quale occorre fare i conti, l’anomalia rappresentata dall’uomo-massa. Per questo era urgente isolarne crudamente i sintomi./Il lettore francese non deve dunque aspettarsi di più da questo volume, il quale in definitiva non è se non un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta» (1937). Luomo macchina e la tecnica Chi è quest’uomo-massa che oggi domina la vita pubblica – quella politica e quella non politica? Perché è così? Intendo dire, come si è prodotto? Conviene rispondere contemporaneamente a entrambe le questioni, perché si chiariscono a vicenda. L’uomo che ora tenta di porsi alla testa dell’esistenza europea è totalmente diverso da quello che ha diretto il secolo XIX, ma è stato prodotto e preparato in quegli anni. Qualunque mente perspicace avrebbe potuto prevedere, nel 1820, nel 1850 o nel 1880, con un semplice ragionamento a priori, la gravità della situazione storica attuale. Ed effettivamente nulla di nuovo accade che non sia stato previsto cent’anni fa: «Le masse avanzano» diceva, apocalittico, Hegel; «Senza un nuovo potere spirituale, la nostra epoca, che è un’epoca rivoluzionaria, produrrà una catastrofe» annunziava Auguste Comte; «Vedo salire la marea del nichilismo!» gridava Nietzsche da un angolo roccioso dell’Engadina. È falso dire che la storia non sia prevedibile. Innumerevoli volte è stata profetizzata. Se l’avvenire non offrisse il fianco alla profezia, non potrebbe nemmeno esser compreso quando si compie e diviene passato. L’idea che lo storiografo sia un profeta a rovescio riassume l’intera filosofia della storia. Certamente accade soltanto di poter anticipare la struttura generale del futuro; però questa è l’unica cosa che, in verità, comprendiamo del passato e del presente. Chi intende dunque penetrare la propria epoca, l’osservi da lontano. A che distanza? È semplice: alla giusta distanza che gli impedisca di vedere il naso di Cleopatra. Che aspetto conferisce la vita a quest’uomo della moltitudine, che con progressiva abbondanza il secolo XIX va generando? Un aspetto di illimitata facilità materiale, in primo luogo. Mai l’uomo medio ha potuto risolvere con tanta larghezza il proprio problema economico. Mentre, in proporzione, diminuivano le grandi fortune e si faceva più dura l’esistenza dell’operaio industriale, l’uomo medio vedeva ogni giorno maggiormente aprirsi il proprio orizzonte economico. Ogni giorno aggiungeva un nuovo lusso al repertorio del suo standard vitale. Ogni giorno la sua posizione era più sicura e più indipendente dall’arbitrio altrui. Quel che prima veniva considerato come un beneficio della sorte che ispirava umile gratitudine verso il destino, si tramutò in un diritto che si esigeva senza gratitudine alcuna. Dal 1900 anche l’operaio inizia ad ampliare e a render sicura la propria vita. Tuttavia deve lottare per ottenere questo. Non trova, come l’uomo medio, il benessere posto dinanzi a lui con sollecitudine da una società e da uno Stato che sono un portento d’organizzazione. Alla facilità e alla sicurezza economiche si aggiungono quelle fisiche: il comfort e l’ordine pubblico. La vita scivola sopra comode rotaie, e non c’è pericolo che intervenga in essa alcunché di violento e di pericoloso. Una situazione così aperta e libera doveva necessariamente eccitare nello strato più profondo di queste anime medie un’impressione vitale, che poteva esprimersi con il detto, così grazioso e arguto, del nostro vecchio popolo: «Ampia è la Castiglia». In tutti questi ordini elementari e decisivi, la vita si presentò dunque all’uomo nuovo come priva di impedimenti. La comprensione di questo fatto e la sua importanza si danno automaticamente qualora si ricordi che questo slancio vitale mancò totalmente all’uomo comune del passato. Al contrario, la vita fu per lui un destino penoso – sia dal punto di vista economico che da quello fisico. Sentì il vivere fin dalla nascita come un cumulo di difficoltà che era necessario sopportare, non essendoci altra soluzione se non quella di adattarsi a esse, di stringersi nello spazio angusto che lasciavano. Ma il contrasto di situazioni appare ancor più chiaro se dal punto di vista materiale passiamo a quello civile e morale. L’uomo medio, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, non trova dinanzi a sé barriere sociali di alcuna sorta. Nemmeno nelle forme della vita pubblica incontra ostacoli e limitazioni. Nulla lo costringe a mortificare la propria vita. Anche qui «ampia è la Castiglia». Non esistono gli «stati» né le «caste». Non esiste nessuno che sia civilmente privilegiato. L’uomo medio ha appreso che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge. Mai in tutta la storia l’uomo era stato posto in una situazione o in un ambiente vitale che somigliasse sia pur lontanamente a quello che tali condizioni determinavano. Si tratta, effettivamente, di un’innovazione radicale nel destino umano, che è introdotta dal secolo XIX. Si crea per l’esistenza dell’uomo uno scenario nuovo, sia materialmente che civilmente. Tre principi hanno reso possibile questo nuovo mondo: la democrazia liberale, la scienza sperimentale e l’industrializzazione. Gli ultimi due possono riassumersi in uno: la tecnica. Nessuno di questi principi è stato scoperto dal secolo XIX, essi nascono infatti dai due secoli anteriori. L’onore del secolo XIX non consiste nella loro scoperta, bensì nella loro introduzione. Nessuno può negarlo. Però non basta il riconoscimento astratto, è necessario assumersi il peso delle sue inesorabili conseguenze. Il secolo XIX fu essenzialmente rivoluzionario. E questo carattere non è da ricercarsi nello spettacolo delle sue barricate, che appartengono alla cronaca, ma nel fatto che pose l’uomo medio – la grande massa sociale – in condizioni di vita radicalmente opposte a quelle che sempre l’avevano circondato. Invertì l’esistenza pubblica. E la rivoluzione non consiste nella rivolta contro l’ordine preesistente, ma nell’introduzione di un nuovo ordine che rovescia quello tradizionale. Per questo non è eccessivo dire che l’uomo generato dal secolo XIX è, riguardo alla vita pubblica, un uomo a parte rispetto a tutti gli altri apparsi nella storia. L’uomo del secolo XVIII si differenzia ovviamente da quello dominante nel secolo XVI, però tutti appaiono uniti da una parentela, affini e perfino identici nell’essenziale, se li si confronta all’uomo nuovo. Per il «volgo» di tutte le età, il concetto di «vita» significava, in primo luogo, limitazione, obbligo, dipendenza; in una parola, pressione. Oppressione, se si preferisce, purché non s’intenda soltanto la giuridica e la sociale, dimenticando la cosmica. Perché è proprio quest’ultima a esser sempre presente da cento anni a questa parte, da quando inizia l’espansione della tecnica scientifica – fisica e amministrativa – praticamente illimitata. In precedenza anche per il ricco e per il potente il mondo era un ambito di povertà, di difficoltà e di pericolo. Il mondo che circonda fin dalla nascita l’uomo nuovo non lo costringe a limitarsi in alcun senso, non gli impone alcun veto né alcuna remora, al contrario eccita i suoi appetiti che, per principio, possono crescere illimitatamente. Accade allora che il mondo del secolo XIX e degli inizi del XX non soltanto possiede perfezioni e ampiezze, ma infonde ai suoi abitanti l’assoluta sicurezza che domani sarà ancor più ricco, più perfetto e più vasto, come se potesse godere di uno spontaneo e inesauribile accrescimento. Ancora oggi, nonostante alcuni segni che incominciano ad aprire una piccola breccia in questa fede categorica, ancora oggi sono assai pochi gli uomini che dubitano che le automobili saranno fra cinque anni più comode e più a buon mercato di quelle attuali. Vi si crede come nell’immancabile sorgere del sole. E la similitudine è fondata: infatti l’uomo comune, di fronte a questo mondo tecnicamente e socialmente così perfezionato, crede che l’abbia prodotto la natura stessa, e non pensa agli sforzi geniali di individui eccezionali che la sua creazione presuppone. E ancor meno potrà ammettere che tutte queste facilità continuano a fondarsi su particolari, difficili virtù degli uomini, il cui minimo difetto dissolverebbe la magnifica costruzione. Tutto questo ci permette di tracciare nel diagramma psicologico dell’uomo-massa attuale due primi tratti: la libera espansione dei suoi desideri vitali, e dunque della sua persona, e l’assoluta ingratitudine verso quel che ha reso possibile la facilità della sua esistenza. Entrambi questi tratti costituiscono la ben nota psicologia del bimbo viziato. E in realtà non cadrebbe in errore chi volesse utilizzare questa nozione come una lente attraverso cui osservare l’anima delle masse odierne. Erede di un passato vastissimo e geniale – geniale per ispirazione e sforzi – il nuovo volgo è stato viziato dal mondo circostante. Vezzeggiare, viziare equivale a non frenare i desideri, a dar l’impressione che tutto sia permesso, che non si abbia alcun dovere. La creatura sottomessa a questo regime non ha esperienza dei propri limiti. A forza di sfuggire a ogni pressione dell’ambiente, a ogni scontro con gli altri, giunge a credere che soltanto lei esiste, e si abitua a non tenere in nessun conto gli altri, soprattutto a non considerare che qualcuno le sia superiore. Questa sensazione dell’altrui superiorità avrebbe potuto imporgliela soltanto chi, più forte di lei, l’avesse costretta a rinunziare a un desiderio, a limitarsi, a contenersi. Avrebbe così appreso questa disciplina essenziale: «Qui io giungo, e più oltre può spingersi solo chi mi è superiore. Nel mondo siamo almeno in due: io e un altro che mi supera». All’uomo medio di altre epoche il suo stesso mondo insegnava quotidianamente questa elementare saggezza, perché era un mondo così rozzamente organizzato che le catastrofi erano frequenti, e non esistevano in esso sicurezza, abbondanza, stabilità alcune. Le nuove masse hanno invece di fronte un paesaggio pieno di possibilità, sicuro, a loro disposizione, che non richiede alcuno sforzo, come il sole che vediamo in alto senza aver dovuto caricarcelo sulle spalle. Nessun essere è riconoscente per l’aria che respira, perché l’aria non è stata prodotta da nessuno: appartiene all’insieme di quel che esiste, di quel che chiamiamo «naturale», perché non manca mai. Queste masse «viziate» sono troppo poco intelligenti per non finire col credere che questa organizzazione materiale e sociale, a loro disposizione come l’aria, sia della stessa origine, essendo apparentemente infallibile e quasi perfetta quanto quella naturale. La mia tesi è dunque questa: la perfezione stessa con cui il secolo XIX ha conferito un’organizzazione a particolari ordini della vita è la prima causa per cui le masse che ne beneficiano non siano disposte a considerarla come un’organizzazione, ma come un fatto naturale. In tal modo si spiega e si definisce l’assurdo stato d’animo manifestato da queste masse: non si curano che del loro benessere e, nello stesso tempo, non si sentono solidali con le cause che l’hanno reso possibile. Poiché non vedono nei vantaggi della civiltà una conquista e una costruzione prodigiose, che si possono mantenere unicamente a costo di grandi sforzi, di grandi cautele, ritengono che la loro funzione si riduca a esigerli perentoriamente, come se fossero diritti nativi. Nelle sommosse che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane, e il mezzo a cui ricorrono suole esser quello di distruggere i panifici. Questo può servire come simbolo del comportamento che, in più vaste e sottili proporzioni, usano le masse attuali di fronte alla civiltà che le nutre.** L’uomo-massa, l’uomo di scienza e lo specialismo Ho sin qui sostenuto la tesi che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo-massa. È opportuno non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nella concretezza, la tesi assume maggior forza persuasiva. La civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo ora quest’ultima. La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica. Chi fabbricò nell’età preistorica l’ascia di selce mancava di senso scientifico, e tuttavia creò una tecnica. La Cina giunse a un alto grado di tecnicismo senza sospettare minimamente l’esistenza della fisica. Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre tecniche – mesopotamica, nilotica, greca, romana, orientale – si spingono fino a un punto di sviluppo che non possono superare, e non appena lo raggiungono cominciano a regredire in una penosa involuzione. Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità della razza europea. Si ricordi il dato statistico da cui ha preso le mosse questo saggio e che, come facemmo notare, racchiude in germe tutte queste riflessioni. Dal secolo V al 1800, la popolazione europea non raggiunge i 180 milioni di abitanti. Dal 1800 al 1914 sale a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può dubitare che la tecnica – unitamente alla democrazia liberale – abbia generato l’uomo-massa nel senso quantitativo del termine. Ma queste pagine hanno cercato di dimostrare che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo-massa nel senso qualitativo e negativo del termine. Per «massa» – ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio – non si deve intendere specificamente l’operaio; il termine non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo di essere dell’uomo attualmente rintracciabile in tutte le classi sociali, che proprio per questo rappresenta il nostro tempo, su cui prevale e domina. Accingiamoci a vederlo con la massima evidenza. Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’età presente? La borghesia, non v’è dubbio. Chi, in seno alla borghesia, è considerato il gruppo superiore, l’aristocrazia presente? Senza dubbio il tecnico: l’ingegnere, il medico, il finanziere, il professore, e quant’altri ancora. Chi rappresenta questo ambito tecnico con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente l’uomo di scienza. Se una creatura «astrale» visitasse l’Europa avendo in animo di giudicarla, e le domandasse in quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse esser giudicata, non v’è dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E naturalmente la creatura «astrale» non domanderebbe di esercitare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la norma, il tipo generico dell’«uomo di scienza», vertice dell’umanità europea. Ebbene: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo-massa. E non a caso, né per un suo difetto personale, ma perché la scienza stessa – radice della civiltà – lo trasforma automaticamente nell’uomo-massa: ossia fa di lui un primitivo, un barbaro moderno. La cosa è nota: innumerevoli volte si è potuto constatarla, ma solo articolata nell’organismo di questo saggio assume la pienezza del suo significato e l’evidenza della sua gravità. La scienza sperimentale inizia alla fine del secolo XVI (Galileo), giunge a costituirsi alla fine del XVII (Newton) e comincia a svilupparsi a metà del XVIII. Lo sviluppo di una qualsiasi realtà è un fenomeno diverso dalla sua costituzione, e deve sottostare a condizioni differenti. Così, la costituzione della fisica, denominazione complessiva della scienza sperimentale, costrinse a uno sforzo di unificazione. Tale fu l’opera di Newton e di altre menti del suo tempo. Ma lo sviluppo della fisica richiese uno sforzo di segno opposto all’unificazione. Richiese che gli uomini di scienza si specializzassero: gli uomini di scienza, non la scienza stessa. La scienza non è mai specialistica: altrimenti cesserebbe ipso facto d’esser veritiera. E nemmeno la scienza empirica, considerata nella sua totalità, è veritiera se la si separa dalla matematica, dalla logica, dalla filosofia. Però il lavoro scientifico dev’essere – nel modo più assoluto – specializzato. Sarebbe di grande interesse e di maggiore utilità di quanto potrebbe sembrare a prima vista tracciare una storia delle scienze fisiche e biologiche, mostrando il progresso della crescente specializzazione nel lavoro dei ricercatori. Una simile storia mostrerebbe come, da una generazione all’altra, l’uomo di scienza s’è andato limitando, rinchiudendo, in un ambito intellettuale sempre più ristretto. Ma non è questa la cosa più importante che una tale storia ci insegnerebbe, quanto precisamente il contrario: ossia come, in ogni generazione, lo scienziato, dovendo sempre più ridurre il suo ambito di ricerca, vada progressivamente perdendo contatto con le altre parti della scienza, vale a dire con una interpretazione complessiva dell’universo, che è l’unica degna d’esser chiamata scienza, cultura, civiltà europea. La specializzazione comincia precisamente nel tempo in cui l’uomo civile viene chiamato «enciclopedico». Il secolo XIX inizia il suo destino sotto la direzione di individui che vivono in un’atmosfera enciclopedica, anche se la loro produzione già riveste un carattere di specializzazione. Nella generazione successiva, l’equazione si è spostata, e la specializzazione comincia a scalzare nell’intimo di ogni uomo di scienza la cultura integrale. Quando nel 1890 una terza generazione assume la guida intellettuale dell’Europa, incontriamo un tipo di scienziato che non ha equivalenti nella storia. È un uomo che, di tutto ciò che occorrerebbe sapere per essere una persona intelligente, conosce soltanto una piccola parte, di cui è investigatore attivo, di una determinata scienza. Un uomo che osa proclamare come una virtù il fatto di non curarsi di quanto rimane fuori dall’angusto paesaggio che coltiva specificatamente, e chiama dilettantismo la curiosità per l’insieme del sapere. E tuttavia, chiuso nella ristrettezza del suo campo visivo, riesce, effettivamente, a scoprire nuovi fatti e a far progredire la scienza, che egli conosce appena, e con essa l’enciclopedia del pensiero, che coscienziosamente ignora. Com’è stata possibile, com’è possibile una cosa simile? È necessario ribadire la stranezza di questo fatto innegabile: la scienza sperimentale è progredita in gran parte grazie al lavoro di uomini assolutamente mediocri, e ancor meno che mediocri, il che vuol dire che la scienza moderna, radice e simbolo della civiltà contemporanea, accoglie nel suo seno l’uomo intellettuale medio e gli permette di operare con successo. La ragione di questo va ricercata in un fatto che è, al tempo stesso, il maggior vantaggio e il più grave pericolo della scienza nuova e di tutta la civiltà che essa dirige e rappresenta: la meccanizzazione. Una gran parte delle operazioni fisiche e biologiche è lavoro meccanico del pensiero che può essere eseguito più o meno da chiunque. Innumerevoli ricerche hanno permesso di suddividere la scienza in piccoli settori, rinchiudendosi in uno di essi e disinteressandosi degli altri. La stabilità e l’esattezza dei metodi permettono questa provvisoria e pratica disarticolazione del sapere. Si lavora con uno di questi metodi come con una macchina, e non è neppure obbligatorio, per ottenere buoni risultati, possedere idee rigorose sul significato e sul fondamento del metodo. Così la maggior parte degli scienziati danno impulso al progresso generale della scienza, chiusi nella piccola cella del loro laboratorio, come l’ape nel suo favo. Ma tutto questo finisce per produrre una casta d’uomini particolarmente strani. Il ricercatore che ha scoperto un nuovo fenomeno della natura, deve necessariamente avvertire in sé una sensazione di dominio e di sicurezza. Con apparente legittimità si considererà «un uomo che sa». E in realtà in lui esiste un frammento di qualcosa che, insieme ad altri frammenti fuori di lui, costituisce realmente il sapere. Questa è la situazione intima dello specialista, che nei primi anni di questo secolo è giunto alla sua più frenetica esagerazione. Lo specialista «conosce» assai bene il suo ridottissimo angolo di universo; però ignora profondamente tutto il resto. Ho descritto un preciso esemplare di quello strano uomo nuovo che ho cercato di definire, mediante l’uno o l’altro dei suoi aspetti. Ho anche detto che è una configurazione umana senza uguali in tutta la storia. Lo specialista ci serve per individuare con energica concretezza la specie e perché ci mostra tutto il radicalismo della sua novità. In precedenza gli uomini potevano infatti dividersi, semplicemente, in sapienti e ignoranti, in più o meno sapienti e più o meno ignoranti. Lo specialista, invece, non può esser compreso in nessuna di queste due categorie. Non è un sapiente, perché ignora formalmente quanto non rientra nella sua specializzazione, e non è neppure un ignorante, essendo «un uomo di scienza» e conoscendo perfettamente la sua particella di universo. Dobbiamo concludere che è un sapiente-ignorante, cosa estremamente grave, poiché significa che si comporterà, in tutte le questioni che ignora, non già come un ignorante, bensì con tutta la petulanza di chi nei suoi problemi specifici è un sapiente. Questo in realtà è il comportamento dello specialista. In politica, in arte, nei costumi sociali, nelle altre scienze, assumerà posizioni da primitivo, da assoluto ignorante; però le assumerà con energia e sufficienza, senza riconoscere – e questa è la cosa paradossale – la necessità di specialisti di tali problemi. Specializzandolo, la civiltà lo ha reso ermetico e soddisfatto nella sua limitazione; ma proprio questa sensazione interiore di dominio e di valore lo indurrà a voler prevalere anche al di fuori della sua specializzazione. Dunque, anche l’uomo di scienza, che rappresenta – per la sua specializzazione – un maximum d’uomo qualificato e che pertanto dovrebbe esser l’opposto dell’uomo-massa, si comporterà «senza qualità» e come uomo-massa in quasi tutte le sfere della vita. Questa conclusione non è aleatoria. Chiunque può osservare la stupidità con cui oggi pensano, giudicano e agiscono in politica, in arte, in religione e nei problemi generali della vita e del mondo gli «uomini di scienza», tra cui vanno naturalmente annoverati medici, ingegneri, finanzieri, professori, e così via. Questa condizione di «non voler ascoltare», di non sottomettersi a istanze superiori, che reiteratamente ho presentato come caratteristica dell’uomo-massa, tocca il suo culmine precisamente in questi uomini parzialmente qualificati. Essi simboleggiano, e in gran parte costituiscono, il dominio attuale delle masse, e la loro «barbarie» è la causa più immediata della demoralizzazione dell’Europa.. D’altra parte sono il più patente e preciso esempio di come la civiltà dell’ultimo secolo, abbandonata alla propria inclinazione, abbia prodotto questo germoglio di primitivismo e di barbarie. II risultato più immediato di questo specialismo non compensato è che proprio oggi, quando gli «uomini di scienza» sono più numerosi che mai, ci siano molti meno uomini «colti» di quanti ce ne fossero, ad esempio, intorno al 1750. E il peggio è che con questi furetti della caccia scientifica non si può neppure considerare assicurato il progresso della scienza. Perché la scienza necessita periodicamente, come organica regolazione del suo stesso sviluppo, di un lavoro di ricostituzione e, come ho già detto, questo richiede uno sforzo di unificazione, ogni volta più difficile, che ricolleghi regioni più vaste del sapere totale. Newton poté creare il suo sistema fisico pur senza possedere vaste conoscenze filosofiche, mentre Einstein ha dovuto saturarsi di Kant e di Mach per poter giungere alla sua acuta sintesi. Kant e Mach – e con questi due nomi si simboleggia la massa enorme di concezioni filosofiche e psicologiche che hanno influito sulla formazione di Einstein – sono serviti a liberargli la mente e a sgombrargli la via verso la sua innovazione. Ma Einstein non è più sufficiente. La fisica sta entrando nella crisi più profonda della sua storia, e potrà salvarla solo una nuova enciclopedia del sapere più sistematica di quella precedente. Lo specialismo, che ha reso possibile il progresso della scienza sperimentale nel corso di un secolo, si avvicina dunque a una tappa in cui non potrà più avanzare partendo da se stesso, se una generazione migliore non si assumerà il compito di fornirgli una norma più ampia. E se lo specialista ignora la fisiologia interna della scienza che coltiva, molto più profondamente ignora le condizioni storiche della sua continuità, ossia come la società e il cuore dell’uomo debbano essere organizzati affinché la ricerca scientifica possa progredire. La flessione delle vocazioni scientifiche che si verifica in questi anni – a cui abbiamo già alluso – è un sintomo preoccupante per chiunque abbia un’idea chiara dell’essenza di una civiltà, precisamente l’idea che solitamente manca al tipico «uomo di scienza», il vertice della nostra civiltà attuale. E inoltre egli crede che la civiltà sia tutta qui, semplicemente, come la crosta terrestre e la selva primigenia. *Per quanto ricco fosse un individuo rispetto agli altri, poiché la totalità del mondo viveva in povertà, la sfera delle facilitazioni e delle comodità che la sua ricchezza poteva procurargli era assai ridotta. La vita dell’uomo medio è oggi più facile, comoda e sicura di quella dell’uomo più potente del passato. Che gli importa di non esser più ricco degli altri, se lo è il mondo che gli procura strade magnifiche, ferrovie, telegrafo, alberghi, sicurezza fisica c aspirina? **Abbandonata alla sua propria inclinazione, la massa, sia essa plebea o «aristocratica», tende sempre, per desiderio di vivere, a distruggere le cause della sua vira. Sempre mi è sembrato una graziosa caricatura di questa tendenza a propter vitam, vivendi perdere causas, ciò che accadde a Níjar, paese vicino ad Almería, quando il 13 settembre 1759 si proclamò re Carlo III. La proclamazione fu fatta nella piazza. «Comandarono poi di portare da bere a tutti gli astanti, i quali consumarono 77 irrohes di vino e 4 otri di acquavite, e l’alcol li eccitò a tal punto che con ritmati evviva s’incamminarono verso il granaio comunale dalle cui finestre gettarono il grano e 900 reali che si trovavano nelle sue casse. Di là passarono allo spaccio del tabacco e comandarono di tirar fuori l’incasso del mese e il tabacco. Fecero lo stesso nei negozi comandando di tirar fuori, per dar più solennità alla festa, tutti i generi liquidi c commestibili che vi erano in essi. Lo stato ecclesiastico concorse con la stessa efficacia, poiché a voce indussero le donne a tirar fuori tutto ciò che avevano nelle case; cosa che fecero con il massimo disinteresse, sicché non rimase in esse pane, grano, farina, piani, pentole, ecc. e l’intero paese fu distrutto». Secondo un documento del secolo in possesso del signor Sánchez de Toca, citato nel Reinado de Carlos III da don Manuel Danvila, tomo II, p. 10, nota 2. Questo popolo, per vivere la sua esaltazione monarchica, annichila se stesso. Ammirevole Níjar! L’avvenire è tuo!
Posted on: Sat, 16 Nov 2013 16:37:32 +0000

Recently Viewed Topics




© 2015