ABRAMO E SARA A GERAR (Gen. 20, 1-18) Abramo in questo - TopicsExpress



          

ABRAMO E SARA A GERAR (Gen. 20, 1-18) Abramo in questo racconto si rivela come un seminomade: a una residenza in cui soggiorna più a lungo (le querce di Mamre), alterna trasferimenti verso altri centri, soprattutto quando incombe il rischio della carestia. Ora lo vediamo in movimento verso il deserto meridionale, il Negheb, alla volta di una cit­tà cananea “Gerar” tra Kades e Sur. Kades si trova all’estremo sud di questo deserto nei pressi di una sorgente; questa loca­lità è una tappa importante nella storia dell’Esodo (Es. 17, 1-17; Numeri 11, 1-13). Sur, indica la parte desertica settentrio­nale della penisola del Sinai. La localizzazione di Gerar, non è certa, ma si pensa che si trovasse a qualche chilometro a sud dell’attuale città di Gaza. Si ripete per certi versi ciò che abbiamo già visto accadere nel cap. 12 (vv. 10-20), quando Abramo era sceso in Egitto: se­condo alcuni studiosi si tratterebbe dello stesso episodio rife­rito da diverse tradizioni con varianti (ora, sarebbe, la tradi­zione Elohista, già incontrata nel cap. 15). Il Patriarca per accattivarsi la benevolenza del re locale, Abimelech, presenta Sara come sua sorella. Effettivamente era possibile, secondo un’antica usanza, adottare la moglie come sorella per ragioni ereditarie. Dio minaccia il Re per il peccato di aver preso la moglie del suo prossimo (IX comandamento). Il sovrano reagisce opponen­do la sua buona fede e proclama la rettitudine del suo operato. Dio riconosce “la semplicità” di cuore (cioè la retta intenzio­ne) e l’innocenza delle mani di Abimelech, lo invita a restitui­re la moglie al suo legittimo marito, il quale è definito come un “profeta”, nel senso di colui che intercede per un altro. Abbiamo già avuto occasione di vedere in Gen. 15, 1-6 che Abramo è tratteggiato secondo i lineamenti di un profeta. Nel­la veste di messaggero di Dio, il patriarca può intercedere per il re. Il giorno dopo Abimelech convoca Abramo sottoponendolo a un serrato interrogatorio per cercare le ragioni del suo com­portamento. E’ curioso notare che nel racconto il pagano Abime­lech rivela un suo rigore morale, ed è destinatario di una ri­velazione divina (tipico della tradizione sacerdotale) ed è raf­figurato come dotato di grande generosità . Abramo. invece, è dominato dalla paura, ed è preoccupato della sua incolumità e ricorre a una spiegazione un po’ artificiosa per giustificarsi, dichiarando Sara, sorella solo per parte di padre. Così Abramo ottiene una ricca donazione dal re Abimelech, a cui è unita una grossa cifra di risarcimento dell’onore di Sara. Le antiche leggi orientali consideravano la donna, come una proprietà del padre, finché essa era nella casa paterna, e poi proprietà del marito, che l’acquistava dal padre versando il prezzo della dote. Nel caso che una giovane venisse sedotta da un uomo che si rifiutava, però, di sposarla, la famiglia della giovane, aveva diritto a un risarcimento in denaro. Accadeva comunque che personaggi potenti prendessero per sé delle donne senza rispettare la norma giuridica: il caso bibli­co più emblematico è quello di Davide nei confronti di Betsabea (2 Sam11). Ma l’atto era sentito come una prepotenza e un’ingius­tizia. Questo era il timore che aveva Abramo e che ritroveremo nella storia simile di Isaia e Rebecca in Gen. 26. Abimelech, qui paga un “risarcimento” ad Abramo (“pur senza averla toccata” (v.6), e questo conferma la sua intenzione di agire rettamente in quell’occasione. A questo punto il narratore ci fa scorgere un’ulteriore par­ticolare finora non apparso all’interno del racconto: Dio ave­va punito Abimelech, per la sua colpa inconsapevole con la pia­ga della sterilità nelle donne della sua famiglia. Abramo, il “profeta” intercede presso Dio e la condanna viene abolita. LA NASCITA DI ISACCO (Gen. 21, 1-21) Il testo del cap. 21 ha una grande svolta: la promessa divina della discendenza si adempie. Sara è “visitata” dal Signore della vita, che dona a lei sterile e a suo marito vecchio, un figlio: Isacco, che - secondo l’impegno dell’alleanza con Dio (17,12) - viene circonciso l’ottavo giorno. Si spiega così il nome imposto al bambino, Isacco, giocando sull’assonanza col verbo ebraico “sahaq”, che indica il riso, l’allegria, la danza. Al ridere incredulo di Sara e di Abramo (17,17; 18,12-15) si sostituisce ora il “riso di Jahwè”, cioè Isacco, espressione del “sorriso” del Signore che ha mantenuto e attuato la sua promessa. La scena si popola allora di grida di gioia, di risa­te allegre, di festa, proprio come avveniva all’interno delle tribù e delle famiglie quando nasceva l’erede del capotribù. Questo brano rappresenta, perciò, un punto d’arrivo, dopo una lunga storia della sterilità e della promessa . Ma, come vedremo tra poco, non è un punto definitivo. La fede compren­de ancora una tappa oscura e ardua. Il cap. 21 della Genesi, ci presenta la contrapposizione tra i due figli di Abramo: la scelta privilegerà Isacco. Questo tema si ritrova nel pensiero di S. Paolo: “E’ stato scritto, infatti, che Abramo ebbe due figli... Ma quello avuto dalla schiava è nato secondo la carne, mentre quello avuto dalla don­na libera è nato in virtù della promessa” (Gal. 4, 22-23; Rom. 9, 7-9). Complementare a questa è la contrapposizione tra Sara e Agar (Gal. 4,24). Esse sono interpretate liberamente dall’apos­tolo come simbolo delle due alleanze: quella del Sinai e quel­la nuova in Cristo. Isacco cresce e giunge all’età dello svezzamento; in Oriente il tempo dell’allattamento era abbastanza lungo: poteva prolun­garsi anche per due o tre anni. Al termine di questo periodo il padre organizzava una festa, con un grande banchetto. Lo svez­zamento, infatti, data l’alta percentuale di mortalità infanti­le, era un momento di grande gioia per la famiglia e per tutto il clan. Pertanto la festa comprendeva anche un sacrificio di ringraziamento alla divinità che aveva protetto la famiglia, consentendole di avere un figlio sano. Entra in scena, a questo punto, Ismaele, l’altro figlio di Abramo e Agar (la moglie- schiava) di Abramo. Sara esige l’al­lontanamento di entrambi; una richiesta che addolora Abramo, ma Dio avalla questa scelta: anche Ismaele avrà un futuro glo­rioso, ma l’erede della promessa divina è solo Isacco, anche se minore rispetto all’altro. Nel deserto Agar vaga col suo bambino, ma stando alla trama della Genesi, dovrebbe essere un giovane (in 17,25: già 13 anni). Disperata, Agar, abbandona suo figlio sotto un arbusto e si al­lontana per non vederlo morire di sete. Ma Dio ascolta la voce dei piccoli e dei soffrenti ed entra in scena con tenerezza. Invita la donna a “non temere”, e li indirizza verso un pozzo nel deserto. La tensione è finita, il ragazzo e la madre sono salvi. Comincia ora per Agar e Ismaele, la vita nomadica pura. Nel deserto meridionale che conduce alla penisola del Sinai, il Paran, Ismaele cresce vigoroso e battagliero: in mano ha l’arco col quale va a caccia e col quale si difende. Ancora una volta in Ismaele si vede l’antenato degli uomini del deserto; il suo matrimonio con una connazionale di sua madre, un’egiziana, mostra che egli si inserisce in un’altra linea rispetto a quel­la di Israele. Nella tradizione musulmana, Ismaele, ha una funzione di pri­mo piano, come antenato delle tribù arabe. Nella letteratura successiva nel Corano, si parla della cacciata di Agar e Ismae­le, come di un fatto provvidenziale, voluto da Dio. Infatti Agar e Ismaele sono mandati nel deserto arabico e arrivano alla Mecca dove si stabiliscono. Abramo, in seguito, provando nostal­gia per il figlio, si reca spesso a trovarlo e alla sua ultima visita, costruisce insieme con Ismaele, la “Ka’ba”, il luogo di culto centrale del Dio unico: Allah. Per il Corano , poi , il racconto del sacrificio del figlio (Gen. 23) non ha come prota­gonista Isacco, ma Ismaele. A lui Abramo comunica la decisione di Dio, e Ismaele si sottomette completamente ad essa da per­fetto “muslin” (in arabo “sottomesso”). Questa parola caratte­rizza il credente nell’Islam e da essa deriva il nostro termine “musulmano”. L’ALLEANZA CON ABIMELECH (Gen. 21, 22-34) Ora ritorna in scena Abimelech, il re di Gerar, che abbiamo già incontrato nel cap. 20. Il diritto di uso dei pozzi era vitale per i nomadi e i loro greggi: facili erano, perciò, le tensioni a questo riguardo tra i pastori. Il nostro testo registra ap­punto conflitti tra i servi di Abimelech e quelli di Abramo. E’ necessario risolvere la questione con un’intesa che viene solennemente stipulata. Il segno dell’accordo raggiunto è rap­presentato da 7 agnelle, una specie di risarcimento simbolico per affermare la priorità di Abramo su quel pozzo. Abimelech accetta il dono, unitamente a pecore e buoi; si fa un atto so­lenne di giuramento e il re si ritira col capo Picol (un hurrita) del suo esercito nel suo territorio, la regione dei Filistei. Abramo presso questo pozzo piantò una tamerice (che indica pos­sesso) e invocò il nome del Signore eterno (“Elohim”), cioè fe­ce un atto di culto. Il nome “Bersabea” (in ebraico: “beer” - “pozzo” e “shebaa”) può rimandare sia alla parola ebraica “sette”, sia a quella che indica “giuramento” = “pozzo delle sette agnelle” o “pozzo del giuramento” tra Abramo e Abimelech. Si vuole cioè cercare una spiegazione a un importante centro carovaniero che ospitava un santuario caro a Israele e alle sue antiche memorie, quello di Bersabea (ora diventato nome importante di una città d’Israele). IL SACRIFICIO DI ISACCO (Gen. 22, 1-14) La prova a cui Dio sottopone Abramo, in questo racconto, è at­tribuito da molti studiosi alla tradizione Elohista (IX - VIII sec. a.C.) già incontrata nel cap. 15 della Genesi. L’episodio ha come punto di partenza quell’ordine implacabi­le, marcato proprio sull’affetto che lega Abramo al figlio: “Prendi tuo figlio, il tuo diletto che ami, Isacco e... offrilo in olocausto” (v. 2). Poi scende il silenzio. Abramo, come era partito da Ur e da Carran senza opporre obiezione, s’incammina col figlio, con due servi, con un asino e il carico della legna per l’olocausto, cioè per il sacrificio che nel fuoco avrebbe arso quel figlio che pure Dio gli aveva promesso e donato. La prova a cui Dio sottopone Abramo è terribile. Egli deve scegliere tra l’amore per l’unico figlio che ha, e il dovere dell’obbedienza a Dio che gli comanda di immolarlo. Tuttavia la prova, come la tentazione, non è mai superiore alle forze dell’uomo (1 Cor. 10,13: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze”). La lettera agli Ebrei 11, 7 porrà in risalto la fede di Abramo nella prova: “Per la fede Abramo ha offerto Isacco, quando fu provato”; mentre la lettera di Giacomo 2 ,21 sottolineerà nell’atto di Abramo il ruolo delle opere nella salvezza dell’uomo: “Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?”. “Prendi tuo figlio...e offrilo in olocausto...” Presso gli antichi i cosiddetti “riti di fondazione” di una città prevedevano anche i sacrifici umani, soprattutto di bambini, per propiziare la divinità. Al tempo dei Giudici, anche Israele, ha praticato, seppure eccezionalmente questi sacrifici (Giudici 11 narra il sacrificio della figlia del giudice Iefte). In seguito pure Acaz e Manasse offriranno in sacrificio i loro figli (2 Re 16, 3; 21,6). Probabilmente il racconto di Genesi 22 aveva in origine il significato di una protesta contro questi riti, che i profeti condanneranno (Geremia 7,31). “Va’ nel territorio di Mòria...” In 2 Cronache 3, 1 il luogo in cui Abramo fa la sua offerta (il monte Mòria) viene identificato con il monte Sion, sul quale fu costruito il tempio di Gerusalemme. Proprio lì, fu in seguito innalzata dai musulmani la moschea detta di Omar, che racchiude la roccia ritenuta il luogo del sacrificio di Abramo. Difatti secondo il Corano è Ismaele e non Isacco, il figlio che Abramo immolò. La radice ebraica del termine “Mòria” può significare sia “provvedere” (“il Signore provvede”), sia “apparire” (“sul monte il Signore appare”). Il testo biblico allude a entrambi i significati. Il viaggio drammatico dura tre giorni sempre accompagnato dal silenzio. Solo quando si è ai piedi del monte “nel territorio di Mòria” Abramo e Isacco stanno salendo le pendici, quel silen­zio irreale è squarciato dal figlio che, con straziante ingenui­tà, intesse un dialogo col padre, e dove Dio appare crudele e in­comprensibile. I padri della Chiesa videro in Isacco che porta la legna, il tipo di Cristo che porta la croce. Giunti ormai al vertice del dramma, sarà un ariete a essere sacrificato; e non sono mancati gli studiosi che hanno visto, in questa sostituzione, la giustificazione dell’uso di sacrificare un animale invece di un figlio, correggendo e superando così il rito originario. Allora l’angelo del Signore rinnova la promessa ad Abramo di una discendenza immensa come le stelle e la sabbia delle spiagge, segno fra tutti i popoli che ad essa faranno riferimento per ot­tenere loro stessi benedizione. Abramo ora ritorna verso la sua regione a Bersabea, il luogo del “pozzo delle sette agnelle e del giuramento”. Il racconto si conclude con un’appendice genealogica riguardante il fratello di Abramo, Nacor. I nomi sono di tribù o città di cui i rapporti con Israele spiegano la presenza: Uz, Buz e Azo sono situate entro i confi­ni del deserto Sirio-aramaico; Tebach, Tacas e Moaca, sono nomi di luoghi nella regione ad oriente del Libano; gli altri noti sono sconosciuti. Nella lista dei discendenti ci incontriamo con Rebecca, nipo­te di Nacor, tra poco essa apparirà quasi da protagonista nella storia di Isacco. MORTE E SEPOLTURA DI SARA (Gen. 23, 1-20) A 127 anni, secondo i numeri che esaltano la longevità dei Pa­triarchi, Sara muore e Abramo è davanti alla salma di sua moglie a cui deve tributare le onoranze funebri. Nell’antico mondo orientale le onoranze funebri comportavano un particolare rituale. Oltre al pianto e ai lamenti, i segni del lutto erano: strapparsi il vestito, cingere il sacco o al­tri abiti da lutto, spargere polvere o cenere sul capo, camminare scalzi, portare i capelli sciolti, astenersi dall’uso dei profumi. La sepoltura avveniva nello stesso giorno della morte, a motivo del clima torrido dei paesi orientali. Il contatto con un morto rendeva la persona “impura” (cioè non idonea al culto), so­prattutto i sacerdoti (Lev. 21, 1-4). L’uso pagano di deporre nel­le tombe cibi e oggetti preziosi, cari al defunto, esprimeva una concezione dell’oltretomba che comportava la credenza di una qualche forma di vita dopo la morte. Ma soprattutto era necessario acquistare la grotta per la se­poltura: il sepolcro, infatti, era fondamentale nella visione dell’oltrevita orientale, perché esso veniva con­siderato come l’ingresso al soggiorno definitivo del defunto con i suoi antenati e familiari. La privazione della sepoltura era, perciò, la peggiore sventura, perché costringeva il defunto a non avere pace, vagando lontano dal luogo in cui i padri e i fa­miliari si sarebbero ritrovati per sempre. La concezione antica di Israele riguardante l’aldilà era affidata a una sopravviven­za un po’ spettrale (ombra con sembianza di persona morta) all’in­terno di una regione sotterranea chiamata “Sheòl”. Solo succes­sivamente emergerà una visione più alta e luminosa di una oltrevita in gioiosa comunione con Dio. Abramo, pur abitando a Ebron (detta anche Kiriat-Arba “città dei quattro”, forse menzione di quattro divinità)e pur con la promessa divina di una terra, non possiede neppure una grotta da sepoltura. Si apre, allora, una trattativa tra lui e un vendito­re di tombe, Efron l’hittita (gli Hittiti, antica popolazione dell’Asia minore di origine indoeuropea, costruirono un grande impero che, tra il 1400 e il 1300 a.C., fu una delle potenze orientali egemoni; nel nostro testo però, è probabile che il termine indichi generalmente popolazioni indigene che abitavano la terra di Canaan.). Questo Efron era uno straniero stanziato in Canaan. Il contratto, come accade ancora oggi tra i beduini, è stipu­lato in mezzo a complimenti e gentilezze, quasi fosse una donazione e non un acquisto. Il prezzo viene fissato, tra una genti­lezza e l’altra, a 400 sicli d’argento (le unità di moneta anti­camente indicavano pesi di metalli pregiati: il “siclo” che an­cora oggi dà il nome alla moneta israeliana: “sheqel” forse corrispondeva a 11grammi e mezzo circa). La frase “di moneta corrente sul mercato” indica che, a seconda delle regioni, erano i mercanti a stabilire di luogo in luogo il peso e il valore dell’argento. Secondo l’uso dell’antico Oriente “la porta della città” era il luogo degli incontri e degli affari, dei contratti e dell’amministrazione della giustizia. Era anche il luogo di raduno delle persone autorevoli, chiamate appunto “coloro che entrano per la porta della città”. In genere le antiche città erano costruite a ridosso delle mura e lo spazio più ampio si trovava accanto alla porta che permetteva l’accesso e l’uscita della città: “tutti coloro che entravano per la porta della città”, poteva significare anche coloro che fungevano da testimoni e garantivano la legalità dei contratti. Alla fine della lunga contrattazione con Efron, l’hittita, Abramo accetta il prezzo, “mentre lo ascoltavano gli Hittiti”, quindi, il suo impegno ha valore giuridico. Abramo può così seppellire Sara nella grotta di Macpela, situata nel campo acquistato da Efro l’hittita. Qui poi verranno sepolti i patriarchi e le loro mogli, tranne Rachele; qui verrà nel VII sec. d.C. innalzata una monumentale moschea, parzialmente adattata a sinagoga nel 1967, riconoscen­dosi musulmani e ebrei come discendenti della stessa famiglia di Abramo.
Posted on: Mon, 29 Jul 2013 19:49:33 +0000

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