GANDHI L’Occidente? Un nazismo diluito La mia vita per la - TopicsExpress



          

GANDHI L’Occidente? Un nazismo diluito La mia vita per la libertà. I valori democratici. La politica spirituale di Gandhi attraverso le parole del suo discepolo Il 10 novembre del 1619, nei pressi di Ulm, la cittadina bavarese dove era accampato l’esercito del principe Massimiliano, un soldato un poco singolare, Renato Cartesio, mentre se ne stava, è lui che lo racconta, in una stanza surriscaldata da una stufa, ebbe una illuminazione che gli parve subito così straordinaria da suggerirgli il voto di un pellegrinaggio a Loreto. E difatti non fu una illuminazione da poco, se è vero, molti lo pensano, che essa sta alle origini della razionalità occidentale, destinata a dettar legge al mondo intero. In parole semplici, a Cartesio venne l’idea di una riforma radicale del sapere, basata sul metodo matematico, alla quale darà mano dieci anni dopo. Tutto ciò che non appare di per se stesso chiaro e distinto, come, ad esempio, le regole del triangolo, va messo in dubbio, spiegherà Cartesio. Solo di una cosa non posso dubitare: penso, dunque sono. Da questa verità evidente Cartesio trae un sistema che è una specie di matematica universale. Per tutto quello che non rientra nel sistema Cartesio adotta una regola pratica: “Obbedire alle leggi e ai costumi del mio Paese... regolandomi secondo le opinioni più moderate”. E la religione? “Io ho la religione del mio re e della mia balia”. Insomma, la vita morale, privata e pubblica, non rientra nel sistema delle verità chiare e distinte e dunque il miglior criterio è quello di attenersi, a riguardo, all’opinione dominante, meglio ancora, a quella del sovrano. Nessuno scandalo, quindi, poteva venire a questo padre fondatore del moderno Occidente da quanto stava accadendo attorno a lui, fosse pure l’assurda guerra di religione col suo corredo di stragi e di emigra- zioni di massa. Non si contano i gruppi religiosi che in quel giro di anni cercarono in terre lontane un rifugio dalle follie del mondo cristiano. Calvinisti in Africa Uno di quei gruppi, precisamente nove famiglie olandesi, per sottrarsi alla persecuzione del re spagnolo e dellInquisizione, suo braccio spirituale, attorno alla metà del Seicento fuggì verso l’Africa sotto la guida di un pastore della Chiesa riformata. I coloni approdarono al Capo nel 1657. Negli anni successivi arrivarono, a ondate, altre famiglie calviniste, dall’Olanda, dalla Francia, dalla Scandinavia. Nel 1688 le famiglie sono 800. Attorno a loro si era già raggruppato il popolo degli schiavi. La Bibbia, che è il libro ispiratore della comunità calvinista, dice: “Il servo e la serva da tenere al tuo servizio, li comprerai tra le genti circonvicine”. Le genti ci sono, col colore di Cam, il maledetto. Loro, gli afrikaner (così si chiameranno) sono il popolo eletto, che deve tenersi puro da ogni contaminazione. In seguito, ai primi dell’Ottocento, arriverà un altro popolo eletto, quello inglese, la cui flotta ha soppiantato quella olandese nel dominio dei mari. Nel 1814, per 6 milioni di franchi l’Olanda vende alla corona britannica la Colonia del Capo. Ma il dominio inglese è troppo prammatico, troppo incline alla pura speculazione produttiva. I pronipoti dei calvinisti olandesi, più puri e più poveri, cercano terre nell’interno: è la leggendaria emigrazione, il Grande Trek dei boeri (boero, dall’olandese boer, vuol dire contadino). Per farsi posto, i boeri massacrano gli zulù e fondano il Natal. Nel 1843 l’Inghilterra lo annette. I boeri si spostano nell’entroterra e fondano lo Stato libero dell’Orange e il Transvaal. Il sottosuolo dei nuovi territori nasconde grandi ricchezze minerarie, diamanti e oro. Gli agricoltori diventano proprietari di giacimenti e cercano mano d’opera. I neri non bastano e non offrono una forza lavoro apprezzabile. Si favorisce l’immigrazione di altri gruppi etnici, gli arabi, ad esempio, e gli indiani, provenienti dalla parte occidentale del subcontinente asiatico. Mentre gli arabi fanno, per lo più, i commercianti, gli indiani si dedicano ai lavori più spregevoli e più faticosi. Le leggi di segregazione sono severissime. Prevedono, tra l’altro, il coprifuoco alle ore ventuno e la proibizione di acquisto d’immobili. È, insomma, l’apartheid. Uno strano viaggiatore È qui, in questa colonia dominata dal più rigido razzismo, che alla fine di maggio del 1893 approdò un giovane avvocato indiano di 24 anni, Mohandas Karamchand Gandhi, con un incarico legale, affidatogli da una ditta indiana, la Dada Abdulla and Company, da assolvere a Pretoria. Come Cartesio, anche Gandhi ebbe la sua illuminazione, che lo introdusse in una ricerca della verità totalmente diversa da quella che inaugurò il nuovo corso del pensiero occidentale. In un contesto non dissimile da quello di Cartesio, Gandhi ebbe un’illuminazione intellettuale che lo portò a comprendere una profonda verità morale: l’ingiustizia della discriminazione razziale. L’illuminazione avvenne durante una sosta forzata nella stazione ferroviaria di Maritzburg, capitale del Natal. “Arrivò un passeggero, è Gandhi che racconta, che mi squadrò da capo a piedi, vide che ero un uomo di colore e non gli andò giù. Se ne usci e tornò con uno o due funzionari; se ne rimanevano tutti zitti, quando venne da me un altro funzionario e mi disse: “ Venga, su, deve andare in terza”. “ Ma ho un biglietto di prima”, replicai. “ Non fa niente”, risposel’altro, “le dico che deve andare in terza”. “E io le dico che mi è stato concesso di viaggiare in questo scompartimento a Durban ed esigo di rimanerci”. “No, lei non ci rimane” disse il funzionario, “deve lasciare questo vagone, sennò mi toccherà chiamare un agente di polizia per farla cacciare fuori”.“Certo, lo faccia pure, rifiuto di scendere spontaneamente”. Arrivò l’agente di polizia, mi prese per la mano e mi spinse fuori, furono tirati giù anche i miei bagagli, io rifiutai di cambiare scompartimento e quindi il treno partì senza di me”. Fu dunque in una fredda sala d’aspetto che Gandhi, accovacciato sulla sua borsa tra le gambe, prese coscienza del suo dovere di resistere al sopruso del razzismo, basandosi sulla semplice forza della verità. Capì in quel momento di trovarsi davanti a un bivio: o proseguire per Pretoria, per assolvere quanto prima il mandato professionale senza badare agli insulti, e poi tornarsene in India, o lottare per ottenere il rispetto dei propri diritti, anche a costo di essere per questo rispedito in patria. Entrava in crisi, così, l’illusione di poter assimilare la cultura occidentale come gli si era proposta già nella sua fase di formazione in India e poi a Londra, durante il suo curriculum universitario. Esperimenti con la verità Nel decidere d’intraprendere la lotta contro la discriminazione, egli ebbe l’impressione di prendere contatto, per la prima volta, con la verità. La sua illuminazione, a differenza di quella di Cartesio, gli dischiuse una verità di ordine morale destinata a svilupparsi non per via di deduzioni intellettuali ma per via di esperimenti, condotti anno dopo anno, anzi giorno dopo giorno, lungo la linea di conflitto tra la dignità umana, divenuta, nella coscienza di sé, una misura universale, e lo sterminato groviglio di soprusi costruito dalla menzogna e dalla violenza. Il mondo è himsa, violenza (più precisamente, danno portato ad altri), la verità è ahimsa (più precisamente, innocentia, non far danno agli altri). Si noti: l’ahimsa, la non violenza, non è una verità tra le altre, è la verità che, inseguita nelle sue inesauribili profondità, si identifica con Dio. Non a caso Gandhi sottotitolerà la sua Autobiografia come Story of my experiments with truth (Storia dei miei esperimenti con la verità) e la chiuderà con una pagina altissima dedicata a illustrare la via per raggiungere la verità. È il suo “discorso sul metodo”. Tratto da: E. Balducci, Gandhi, Giunti I monaci bianchi Il jainismo si divide in due scuole principali: svetambara e digambara. I monaci e le monache svetambara (“vestito di bianco”) possiedono un abito bianco, una ciotola per elemosinare il cibo e l’acqua, un bastone, una scopa per rimuovere gli insetti dal loro cammino prima di sedersi e coricarsi e una pezzuola sulla bocca per non nuocere ai batteri dell’aria. Gli asceti vestiti di cielo Gli asceti digambara (“vestito di cielo”) sono più anziani, più eruditi sulle scritture, perfetti sul piano della condotta, della fede e della conoscenza. Non possiedono nulla: né abito, né dimora, né lavoro, né famiglia, né amici, né ciotola. Solo la scopa, la pezzuola sulla bocca e un contenitore per l’acqua con cui lavarsi i piedi prima di entrare nei templi. Elemosinano il cibo e l’acqua da bere nell’incavo delle mani giunte. Vivono ritirati, soprattutto da quando in India venne bandita la nudità. Salvare le api Oltre a non cibarsi di nessun animale di aria, di terra e di acqua (compresi crostacei e molluschi), non si cibano neppure di tutte quelle creature vegetali estirpando le quali si uccide l’intera pianta togliendole la possibilità di continuare a crescere e a produrre i suoi frutti: bulbi, radici come patate, rape, carote ecc., ma anche frutti ricchi di semi e quindi di anime come i melograni; non utilizzano neppure il miele, ricavato mettendo in pericolo la vita delle api. Una vita vegana Da quando lo sfruttamento degli animali per la produzione di uova, latte e latticini è stato industrializzato con la creazione degli allevamenti intensivi e degli allevamenti in batteria, i jainisti hanno iniziato a bandire anche gli alimenti di origine animale, poiché la loro produzione comporta inevitabilmente grande violenza sugli animali. Le più recenti indicazioni jainiste suggeriscono lo stile di vita vegan (conosciuto anche come “vegetaliano”) al fine di ridurre al minimo la violenza. I jainisti stanno iniziando, ad esempio, a sostituire il latte di mucca, utilizzato in alcuni rituali all’interno dei templi, con latte di soia o latte di riso. Metarya era nato in una famiglia di paria, gli intoccabili. Poiché il jainismo non crede nella discriminazione di casta e considera tutte le anime uguali, Metarya fu ammesso come monaco e divenne discepolo di Mahavira. Un giorno, sotto un Sole molto caldo, arrivò nella città di Rajgriha. Camminava a piedi nudi, non portava cappello ed era completamente rasato. Andava a elemosinare un po’ di cibo in ogni casa indipendentemente dalla ricchezza o dalla povertà del proprietario. Arrivò alla casa di un artigiano molto famoso in città per la sua arte orafa. Persino il re Shrenik ammirava le sue capacità. Quando Metarya arrivò nel cortile della sua casa, l’orafo stava lavorando piccole gemme d’oro da utilizzare per creare gioielli. Quando vide il monaco, si sentì molto felice e onorato. Smise subito il suo lavoro, si inchinò e lo ringraziò per l’onore che gli aveva conferito con la visita. Mentre l’orafo era in cucina a prendere cibo da offrire in elemosina, un uccellino scese da un ramo e, credendole semi, prese alcune gemme d’oro. Il monaco se ne accorse e osservò l’uccellino tornare sull’albero con le gemme nel becco. L’orafo tornò e offrì del cibo accettabile per un monaco, cioè vegetariano e non proveniente da violenza o sfruttamento. Dopo averlo accettato, il monaco ringraziò e riprese il suo cammino. Quando l’orafo tornò al lavoro si accorse che mancavano le gemme. Cercò dovunque ma non riuscì a trovarle. L’unica cosa che riusciva a pensare era che le avesse prese il monaco. Pensò che forse le costose gemme lo avevano tentato oppure, addirittura, che non si trattasse di un vero monaco bensì di un malfattore travestito. Gli corse dietro e lo trascinò a casa. Gli chiese se avesse preso lui le gemme ma il monaco, calmissimo, rispose: “No, non le ho prese io”. L’orafo, ormai arrabbiatissimo, insistette con l’interrogatorio: “E allora, chi le ha prese?” Il monaco pensò che, se avesse raccontato la verità, l’orafo avrebbe ucciso l’uccellino e che tale violenza non era assolutamente da permettere. Non disse nulla e mantenne la calma. L’orafo si convinse che, poiché non rispondeva, il monaco stava nascondendo l’oro. Si arrabbiò ancora di più e iniziò a colpirlo, ma quello rimase calmo e quieto. Reso sempre più furioso dalla calma e dall’immobilità del monaco, decise di dargli una lezione. Lo fece stare sotto il sole con una striscia di cuoio bagnata legata intorno alla testa. Il cuoio, seccandosi, iniziò a restringersi e a procurare grande dolore al monaco. L’orafo era convinto che, prima o poi, non potendo resistere, avrebbe confessato. Non era in grado di comprendere quanto questo monaco fosse compassionevole e altruista, disposto a donare volentieri la propria vita per salvare quella di un uccellino. Soffriva atrocemente ma non esitò mai e mantenne la propria ferma con- vinzione di non dire che cosa realmente fosse accaduto, per non mettere in pericolo la vita dell’uccellino. Non si arrabbiò neanche con l’orafo e rimase in pace pensando: “Questo corpo è deperibile, perché mi dovrei preoccupare per lui?” Inoltre si sentiva pienamente felice di aver potuto salvare una vita. In quello stato mentale di totale equanimità il monaco raggiunse l’onniscienza. Nello stesso istante, la pressione del cuoio divenne così forte che i suoi occhi scoppiarono e morì. La sua anima si era per sempre liberata dal ciclo di morti e rinascite. In quel mentre, un taglialegna che passava di lì buttò a terra una fascina. Il rumore spaventò l’uccellino che fece cadere le gemme d’oro. L’orafo le vide, finalmente comprese la verità, e subito si pentì di aver dubitato del monaco. Corse per liberarlo ma era ormai troppo tardi. Tratto da: Virchand Gandhi, L’essenza del jainismo, Editori Riuniti, Roma, 2003.
Posted on: Tue, 05 Nov 2013 13:40:34 +0000

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