Il triangolo della morte: l’aumento dei casi di cancro in Italia - TopicsExpress



          

Il triangolo della morte: l’aumento dei casi di cancro in Italia connesso all’abbandono illegale di rifiuti tossici Gli antichi Romani chiamavano questa regione “Campania felix”, cioè Campania felice. Si può ancora a malapena capire perché. Un tempo era un paradiso terrestre: il mar Tirreno blu acquamarina pieno di pesci, il cono del Vesuvio a sud, che minacciava distruzione ma era anche responsabile dell’enorme fertilità del terreno. Qui, nella larga pianura a est di Napoli, sorsero le città che grazie a quella fertilità prosperavano ancora dopo 1000 anni. Erano diventate importanti sedi culturali: nel XVI secolo una di esse, Nola, produsse il genio senza tregua di Giordano Bruno, uno dei primi a raggiungere la conclusione che la Terra girava intorno al Sole e non il contrario, e che le stelle erano anche dei soli con pianeti propri, che erano infinitamente numerose e che sarebbero esistite per sempre. Per questo oltraggio contro l’opinione corrente, la Chiesa lo condannò al rogo a Roma. L’uomo che mi mostra la città di Bruno e mi porta ad ammirare la vista dal convento medievale di Sant’Angelo in Palco, elevato sopra la pianura come un gigante pulpito, è di Nola come Bruno e molto orgoglioso della sua città, della sua storia e del suo patrimonio. E come Bruno è suo compito raccontare verità che le autorità non vorrebbero sentire. Il nome del cardiologo Dr. Alfredo Mazza, oggi un quarantenne dall’aspetto molto giovanile, è diventato noto in Italia e all’estero sette anni fa quando, in un articolo pubblicato dalla rivista britannica sul cancro “The Lancet Oncology”, coniò il termine “Triangolo della morte” per descrivere la zona delimitata a est dalla sua città natale e ad ovest da Marigliano e Acerra, lontane rispettivamente 8 e 17 Km. La sua ricerca ha rivelato che in quest’area l’incidenza di alcuni tipi di tumore è di molto superiore che nel resto d’Italia. In media 14 uomini su 100.000 muoiono di cancro al fegato, in Italia; qui il numero è 35,9. L’incidenza del cancro alla vescica era quasi il doppio e della leucemia era il 30% più alta. E nonostante non potesse provarlo, lui riteneva che ci fosse una spiegazione. “250.000 persone nella regione sono state esposte a sostanze tossiche per decenni”, ha detto. “Gli inquinanti dell’aria, dell’acqua e della produzione agricola nella regione superano di molto i limiti stabiliti per legge.” Gli agenti inquinanti provenienti dalle macchine e dai camion in Campania probabilmente raggiungono gli stessi livelli riscontrati nel cuore industriale del nord del Paese. Ma per il Dr. Mazza la densità del traffico ha un significato diverso. “Quest’area è significativa perché è il principale incrocio di autostrade nel sud d’Italia”, rivela. In altre parole, Nola, Marigliano e Acerra sono molto facili da raggiungere. Se lo sviluppo moderno dell’Italia fosse avvenuto in un modo più bilanciato, con degli investimenti simili al nord come al sud, questa facilità di accesso avrebbe potuto trasformare il “triangolo” del Dr. Mazza in qualcosa di simile all’area densamente industrializzata tra Milano e Bergamo. Ma, nonostante il favoloso porto di Napoli, ciò non è mai accaduto. Quello che invece è successo è stato molto, molto peggio: questo hinterland di Napoli, grazie alle autostrade, è diventato la pattumiera, il bidone avvelenato del paese. E grazie ad un padrino-pentito napoletano, di nome Nunzio Perrella, all’inizio degli anni ’90 iniziò a diventare chiaro che la camorra, la mafia napoletana, aveva scoperto un nuovo lucrativo commercio. Mentre migliaia di industrie, raffinerie e altri impianti industriali del nord prosperavano durante il boom degli anni ’80 e ’90, qualche boss sconosciuto (forse un gangster, un industriale influente o un politico potente), trovò un modo furbo di dare alle industrie italiane un vantaggio unico rispetto alla concorrenza di altri paesi. Invece di pagare cifre esorbitanti per disporre dei rifiuti tossici in modo corretto attraverso compagnie specializzate, le industrie pagavano la criminalità organizzata per portare via i rifiuti e semplicemente “perderli”. Le cosche si prendevano cura di tutto: i membri più istruiti – i cosiddetti colletti bianchi – risolvevano i problemi burocratici, falsificando documenti, pagando i pubblici ufficiali e anche i proprietari delle terre in cui i rifiuti tossici venivano riversati. Le industrie, le raffinerie e il resto pagavano alle cosche solo una frazione di quanto gli sarebbe costato se il lavoro fosse stato fatto legalmente. La camorra prendeva in consegna i rifiuti e li portava nel proprio giardino, non nelle strade densamente popolate di Napoli, ma nell’hinterland agricolo, la “Campania felix”. Li abbandonavano dove potevano: nei campi, in vecchi pozzi, in cave esauste, dentro o vicino ai canali, nelle grotte. A volte semplicemente seppellivano sotto terra i camion carichi o i container. Altre volte mescolavano i rifiuti con della terra e disperdevano il tutto per i campi. Questo è andato avanti per anni e siccome lo stato italiano, specialmente al sud, è notoriamente negligente, per molto tempo nessuno se n’è accorto. Eppure l’andare e venire dei camion di notte non poteva certo passare inosservato. Poi c’erano delle strane manifestazioni che sembravano quasi delle leggende urbane: il fumo che veniva fuori dal suolo sotto certe condizioni meteorologiche, come se la terra fosse vulcanica; la puzza pestilenziale proveniente da chissà dove; il canale d’acqua o il terreno di un disgustoso colore blu. E poi, mentre gli anni diventavano decenni, i giovani iniziarono ad ammalarsi. Carolina Capasso, che vive a Marigliano, ha perso il suo figlio Andrea, 21 anni, per un sarcoma polmonare, uno dei tumori che, secondo il Dr. Mazza, è provocato quasi sicuramente dai rifiuti tossici. “Gradualmente diventò chiaro che sempre più persone, specialmente giovani, avevano problemi di salute”, racconta la Capasso, ricordando la lenta constatazione del problema locale. “Avevano allergie, leucemia, tumori vari. E quando crescevano, uno moriva di cancro, uno moriva di leucemia; piano piano abbiamo iniziato a capire che c’era qualcosa che non andava. Nel 2009 mio figlio cominciò a sentirsi male e scoprimmo che aveva il cancro: un ragazzo di 21 anni.” Lei dà la colpa in particolare ad un magazzino pieno di sostanze chimiche agricole vicino alla sua casa, dove c’erano stati un’esplosione e un incendio alcuni anni prima, le cui conseguenze non furono mai affrontate propriamente. Ma, come nel resto del “triangolo”, collegare la causa all’effetto e cercare di trovare i responsabili è un compito senza speranza. “Sono convinta che mio figlio si è ammalato a causa di queste sostanze, la roba disgustosa che c’è a Marigliano” continua. “Un po’ alla volta abbiamo scoperto che nessuno faceva nulla. Andrea è stato malato di cancro per sette mesi [prima di morire]. Anche altri ragazzi sono morti. Che vi posso dire? Marigliano è un paese di morti viventi”. Alcuni mesi dopo la scomparsa di Andrea, Antonella di Francesco lo seguì, contraendo un cancro alla lingua e morendo a 35 anni. Le loro famiglie vivono vicine nello stesso edificio moderno, fatiscente e abbandonato. Vado ad incontrare Gennaro di Francesco, il padre di Antonella. Ha perso anche la moglie, che è morta cinquantenne. Così vive da solo con sua nipote Teresa di 11 anni, la figlia di Antonella. Il loro appartamento al primo piano è spoglio e privo di comodità. Mancano pochi giorni a Natale quando li vado a trovare; c’è un grande albero di Natale in un angolo, addobbato con batuffoli di cotone bianco. Gennaro, un lavoratore metallurgico, si sottopone alle mie domande come si sottoporrebbe ad un’analisi del sangue, con i suoi grandi occhi grigi spalancati e inespressivi. Teresa, dalla carnagione scura e con un dolce sorriso gitano, mi prepara una tazzina di caffè. Ci sono voluti due anni dalla diagnosi di Antonella alla sua morte, dice Gennaro. “È stata in ospedale a Napoli per un mese; le hanno fatto le radiazioni e la chemioterapia, iniziò a stare meglio, ma poi peggiorò di nuovo. Allora l’ho portata in un ospedale per i tumori a Milano dove le fecero un’operazione per rimuovere parte della mascella, e poi in un altro ospedale a Torino per un’altra operazione.” Niente di tutto questo funzionò. Alla fine doveva darle il mangiare attraverso un tubo nello stomaco. “Molti giovani sono morti in questa zona”, ricorda. “Dieci o venti di cui ho sentito parlare io. E continua ancora adesso; ogni tanto senti di qualcun altro.” I rifiuti tossici sono una presenza ugualmente persistente. “Tutti sanno che è un problema ma non lo ammettono e non fanno nulla per risolverlo. Perché sono grossi affari. I politici dicono che faranno pulizia ma non lo fanno”. Allora dov’è concentrato il problema? chiedo. Dov’è l’origine del veleno? “Vada a Boscofangone” dice “oltre Faibano. È lì che portano tutto”. Nomi di paesi come “Boscofangone” e “Pantano” riportano la memoria indietro al lontano passato di quando quest’area era paludosa e soggetta a inondazioni frequenti. Nel XVII secolo i governanti spagnoli Borboni di Napoli affrontarono il problema con la costruzione di un canale di 55 Km, i Regi Lagni, da Nola al mare con altri 210 Km di canali secondari che si alimentavano dei primi, “producendo l’immagine di una nuda spina di pesce con le lische che ne fuoriuscivano”, secondo la descrizione di uno storico locale. Fu una magnifica opera di ingegneria e tenne la pianura ben irrigata per secoli. È stato solo negli anni del boom successivi alla seconda guerra mondiale che le cose hanno iniziato ad andare male. Guido da Marigliano a Polvica, in cerca dell’elusivo Boscofangone, attraverso un territorio che non è né città né campagna. I sacchetti di plastica della spazzatura punteggiano i lati della strada. Costruzioni industriali, tra cui anche un nuovissimo centro di riciclaggio dei rifiuti, si alternano a orti e campi di verdure; ad un certo punto vengo fermato da un gregge di pecore di colore marrone sporco e dalle orecchie lunghe che attraversano la strada per pascolare in un campo di denti di leone. Questa zona non è passata dall’agricoltura all’industria, le due continuano a coesistere, ma è come se vivessero in dimensioni diverse, ognuna dimentica dell’altra. Mi fermo al bar del paese di Polvica, ai piedi delle montagne del Partenio rovinate dalle cave di pietra, per chiedere indicazioni. Il vivace e panciuto barista, Massimo Bernardo, somigliante a Gene Wilder, mi dice dove andare. “Gira a sinistra alla Esso, vai avanti fino alla piccola e tonda chiesa medievale” dice “il canale di Boscofangone inizia da lì”. Bernardo sa tutto del problema dei rifiuti tossici, ma si è convinto che appartenga al passato. “Sì, c’erano i camion che andavano lungo il canale tutta la notte, vuotando il loro carico” ricorda. “Ma lo hanno pulito. Questo è il terreno migliore d’Italia! Produciamo i pomodori migliori, le patate migliori, le arance migliori… Perché importano tutte queste cose dall’estero quando abbiamo le migliori qui?”. Seguo le sue direzioni. All’inizio del lungocanale, chiuso da un cancello, c’è un cartello ufficiale che cita “Interventi di straordinaria manutenzione per l’adeguamento funzionante” del canale Regi Lagni. Tracce di un bulldozer lungo il sentiero indicano che la bonifica, che doveva iniziare il 26 settembre 2011 e durare 180 giorni, è in effetti iniziata: il canale non ha più schiuma di rifiuti come in un terribile video messo su YouTube. I suoi bordi non sono più pieni di vecchi frigoriferi, lavatrici, sacchetti di plastica e latte d’olio. Ma queste cose non sono scomparse: dopo aver camminato per mezz’ora scopro che un nuovo carico di roba, tra cui alcune delle cose elencate sopra, è stato abbandonato dentro il canale bloccandone il flusso. Contrariamente alle opinioni maligne degli attivisti locali, il lavoro per risolvere il problema della degradazione dell’area è iniziato. Il problema è che è stato uno sforzo isolato. Una volta pulito, il canale deve essere monitorato, protetto e sorvegliato. Dovrebbe essere reintegrato nei piani per il futuro della regione. Gli schemi fatti dalle autorità locali descrivono chilometri di canali costeggiati da alberi che attraversano zone ricreative e parchi archeologici, ma questi sono sogni irrealizzabili. Invece il canale è la reliquia di un passato che pochi locali conoscono o di cui si preoccupano. Se non verranno adottate protezioni adeguate, passerà un po’ di tempo, ma ricominceranno a sversare i rifiuti nell’area. Nel frattempo, ci si chiede quali siano gli effetti che molti anni di rifiuti illegali hanno avuto nell’acqua e nella catena alimentare della regione. Emblematici di questi enormi problemi di salute pubblica sono due grandi e squadrati tumuli di Dio-sa-cosa che si trovano a circa 200 metri dal canale, ricoperti da un pesante telone nero di polietilene: montagne di rifiuti tossici che sono stati sequestrati e bloccati qui. Il telone evita che le emissioni di qualunque cosa ci sia dentro raggiungano l’aria, ma non fa nulla per evitare che queste sostanze affondino nel terreno, nel letto del fiume e nella catena alimentare. Questo, molto più delle ferite visibili di quello che resta della campagna, è il cuore del problema. In Italia è sempre difficile separare la realtà da teorie cospirative di fantasia. Anche un osservatore astuto e ben informato come il Dr. Mazza sembra avere una debole per una spiegazione degli eventi maligna e superficiale. “Questo problema dei rifiuti tossici non è iniziato per caso,” mi dice non appena ci incontriamo. “È il risultato di un patto tra la criminalità organizzata, i poteri forti dello stato e servizi segreti, e forse anche la massoneria, un patto per salvare l’industria nazionale.” La distruzione ambientale di questa regione, secondo la sua teoria, è considerata un prezzo accettabile da pagare. È una spiegazione affascinante, ma come molte sue teorie non ha riscontri: non ho visto nessun elemento utile che provi che il disastro della Campania sia il risultato di un complotto diabolico. Indubbiamente il nord Italia ha usato la regione come un’enorme discarica illegale. Indubbiamente i responsabili di questo disastro sono i criminali camorristi o le persone nel loro libro paga. Certamente non si può dubitare dell’incidenza scandalosamente alta di certi tipi di cancro e di malformazioni genetiche. Ma al di là di questi fatti, è impossibile affermare con la minima convinzione che questo sia il risultato di un piano terribile – impossibile, ma anche non necessario. La logica economica di quello che le cosche hanno fatto si vede benissimo. Mentre l’abbandono di rifiuti tossici è un problema particolare con delle conseguenze terrificanti per la salute pubblica, è parte di una più ampia e apparentemente insolvibile crisi che riguarda lo smaltimento di rifiuti di qualsiasi tipo in questa regione. L’immagine persistente di Napoli per il mondo non è più quella della meravigliosa e ampia baia con il Vesuvio alle spalle, ma quella di strade riempite di montagne di spazzatura domestica non raccolta. Questo fenomeno disgustoso va e viene (sono fortunato ad essere di passaggio durante un momento in cui il problema è minimo), ma proprio come il problema dei rifiuti tossici non è mai stato davvero risolto. Più di venti anni fa la camorra riuscì ad ottenere il monopolio quasi assoluto per lo smaltimento di tutti i rifiuti in Campania. Continuano ad usare questo potere come strumento di ricatto ogni volta che un nuovo sindaco o un altro ufficiale pubblico minaccia di far schioccare la frusta, di impoverire le cosche richiedendo la raccolta differenziata della spazzatura (che esiste a stento qui), o di compiere altri passi decisivi per risolvere il problema permanentemente. In questo, le forze politiche locali di sinistra fanno il gioco delle cosche quando manipolano l’ostilità a nuovi inceneritori. E la natura bonacciona e simpatica del carattere locale (persone come Massimo Bernardo con la sua allegra rassicurazione che il problema dei rifiuti tossici è stato risolto) non aiuta molto. Piera Mucerino, una donna della zona che ha organizzato campagne contro i rifiuti tossici per molti anni, ritiene che il problema sia che le persone si sono rassegnate. Lei è ancora ossessionata dai risultati di un esperimento di cui ha letto tempo fa. “Misero un cane in una gabbia”, spiega. “Mandavano delle scariche elettriche nel lato destro della gabbia e il cane si muoveva verso sinistra. Quando mandavano le scariche a sinistra, il cane si muoveva verso destra. Poi mandarono le scariche in tutta la gabbia: il cane si arrese e restò fermo dov’era. Poi, durante le scariche, aprirono la porta: il cane restò dov’era.” “Noi siamo così”, conclude. “La rassegnazione. Qualunque cosa accada alla fine non ci muoviamo. Stiamo fermi e subiamo. Le persone reagiscono alle cattive notizie, ma dopo un po’ di tempo se ne dimenticano e vanno avanti con la loro vita. E quando le persone muoiono di cancro sperano che non succeda a loro, o pregano Dio. Invece di fare le grandi battaglie per tutti, le persone dicono: ‘Faccio la piccola battaglia per me stesso’”. Per Andrea e Antonella e molti altri nella “Campania infelix”, anche le piccole battaglie sono finite male.
Posted on: Wed, 02 Oct 2013 06:41:45 +0000

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