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Interessante lettura serale trovata sulla rete. Qui un piccolo estratto. Per i più interessanti consiglio la lettura integrale. Lo Stato entra in contraddizione con sé stesso in quanto da una parte le sue misure e operazioni non hanno altro scopo se non quello di promuovere sul suo territorio il sistema di mercato e di produzione della merce e di mantenerlo in corso, dall’altra tuttavia esso deve "estrarre" dal processo di mercato il denaro necessario al finanziamento della sua attività ponendo così dei limiti all’economia di mercato stessa; in questo modo perciò lo Stato persegue il proprio scopo e simultaneamente lo contrasta. Questa struttura paradossale è diventata evidente parallelamente all’assunzione da parte del sistema produttore di merci dell’intera riproduzione sociale. Il solo "regolare" finanziamento statale è la tassazione dei redditi generati direttamente dal processo di mercato (che si tratti, indifferentemente, di tasse dirette o indirette). Ma se i costi preliminari, gli effetti secondari e i problemi conseguenti alla produzione di merci e con ciò, le attività statali necessarie, aumentano più velocemente dei redditi generati dal mercato, allora l’espansione della finanza pubblica attraverso l’ordinario mezzo della tassazione non solo minaccia di limitare la continuazione del processo di mercato ma addirittura di soffocarlo. Se cioè lo Stato provvede al "foraggio" per la "vacca da latte" monetaria del mercato mediante l’abbattimento della vacca stessa, allora i limiti del sistema diventano immediatamente visibili.Nel corso della Prima Guerra mondiale il problema apparve per la prima volta su larga scala, poiché divenne chiaro che la conduzione tecnologica, moderna della guerra non poteva essere più finanziata con i tradizionali strumenti tributari. Da allora ad intervalli periodici si è discusso a proposito della "crisi finanziaria dello Stato delle tasse". Rudolph Goldscheid e Joseph Schumpeter hanno formulato teoricamente questo problema fondamentale di crisi strutturale nel 1917–1918 in connessione con l’economia di guerra del primo conflitto, e da allora le prese di posizione attorno a questo problema non sono mai venute meno attraverso tutto il secolo 20°. Non è per nulla casuale che il problema di natura finanziaria del "capitalismo di Stato" ovvero dell’"economia di guerra permanente" sia divenuto, sulla nave ammiraglia dell’economia di mercato occidentale, cioè negli USA, il tema per eccellenza, la questione politica preponderante; e non è neppure casuale che tale problema venga sempre trattato pressappoco negli stessi termini in cui lo formularono Goldscheid e Schumpeter (per esempio in James O’Connor, 1973).Se lo strumento regolare della tassazione fallisce, lo Stato deve ricorrere ad un secondo strumento il cui carattere fondamentalmente poco serio è man mano caduto nell’oblio: l’indebitamento presso isoggetti che partecipano all’economia nazionale. Lo Stato pertanto non si finanzia più semplicemente con le tasse che riscuote in virtù delle sue prerogative di sovranità e del monopolio della violenza, ma si fa prestare denaro dai suoi cittadini come un qualsiasi partecipante al mercato finanziario. Oggi questo meccanismo non è più considerato fondamentalmente avventato; si discute semplicemente fino a che quota del prodotto sociale lo Stato si possa indebitare per poter essere ancora considerato solvibile.Esiste tuttavia una ragione che fa apparire l’indebitamento statale come precario e come una causa di crisi. Il sistema creditizio non è, per sua natura, finalizzato al finanziamento degli oneri statali. I risparmi della società sono concentrati nel sistema bancario come capitale monetario, per essere prestati al capitale produttivo in cambio del pagamento di interessi. In questo modo in una società capitalistica viene mobilizzata per i processi di valorizzazione ed accumulazione una quantità di denaro che non avrebbe potuto essere utilizzato dai suoi proprietari per quel fine. Ma se il denaro imprestato viene destinato al consumo invece che alla valorizzazione produttiva o se la valorizzazione produttiva fallisce, allora esso non raggiunge il suo scopo e il credito diviene presto o tardi "insano". Quando questo succede su vasta scala, ci troviamo di fronte ad una crisi commerciale creditizia e, finalmente, ad una crisi del sistema bancario.Il credito statale viene utilizzato però in massima parte non per fini di valorizzazione produttiva, ma per i molteplici usi del consumo statale, che non sono mai un lusso ma una necessità sistemica (senza però essere produttivi nel senso della valorizzazione). Così il credito statale finisce per produrre economicamente lo stesso disastro che sul livello commerciale conduce ai crediti "insani", poiché il capitale monetario è stato utilizzato di fatto per il consumo e non per attività produttrici di capitale. Tale sviluppo ha anche il suo rovescio: quanto più capitale monetario viene prestato allo Stato tanto più il risparmio sociale si trasforma da reale capitale monetario in semplici diritti verso lo Stato: sempre più risparmio diviene in realtà nient’altro che titoli di credito statali. Essi tuttavia sono trattati "come se" si trattasse di introiti derivati da interesse su capitale impiegato produttivamente, sebbene tutti questi soldi siano scomparsi da lungo tempo e per sempre nell’Ade del consumo statale. Per questo motivo Marx parlava, a proposito di questi titoli statali, a buon diritto, di "capitale fittizio". Una grandissima parte della riproduzione sociale nonché della ricchezza sociale presuntivamente accumulata nella forma del "patrimonio monetario", si basa oggi, a livello mondiale, su "capitale fittizio".
Posted on: Sun, 06 Oct 2013 19:54:10 +0000

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